“La Mecca-Phuket” di Saphia Azzedine, giovane franco-marocchina ritrae il suo ambiente con lucida ironia
di Cristiana Missori, ANSAmed, 13/02/2017
”L’ascensore era spesso in panne ma i chiacchiericci trovavano sempre il modo di gironzolare da un piano all’altro. Di me dicevano che ero una sfrontata, di mia sorella che era una ragazza per bene e di mia madre che lasciava troppo grasso nel tajine di montone. Mio padre, tutto sommato, lo risparmiavano, anche se era l’unico di tutto il palazzo a non essere ancora hajj, il che lo tormentava. Perché i miei genitori avevano un’unica ossessione: fare il pellegrinaggio alla Mecca”. Il palazzo è quello di una banlieue parigina, il racconto, è quello di Fairouz, figlia di immigrati marocchini in Francia, che combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini.
Insieme a una delle sue sorelle minori, Kalsoum, decide di raggranellare la somma necessaria per regalare ai suoi genitori devoti il sogno di una vita: il hajj. A narrare la sua storia, è Saphia Azzeddine – giovane autrice franco-marocchina – che in La Mecca-Phuket (in uscita a fine febbraio nelle librerie per la collana Altriarabi Migrante de Il Sirente, pp. 130 Euro 15), compie un affresco molto ironico, a tratti irriverente e divertente, di quel che accade nell’edificio in cui vive la sua protagonista.
Stretta fra la voglia di vivere laicamente le sue origini arabo-musulmane: ”ero quello che si chiama comunemente una musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno”, annuncia Fairouz in una delle prime pagine del libro. ”Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti”.
Altrettanto lucida quando descrive i difetti della sua comunità di origine: ”Sembra che. Ho sentito dire che. Poi la gente dirà che. Ecco più o meno quello che rovina le società arabo-musulmane in generale e il mio palazzo in particolare. Abitavo in un casermone in cui i pettegolezzi facevano da fondamenta e il cemento da cervello (…). La megera del nono aveva riferito a mia madre (per il suo bene) quel che si diceva nelle alte sfere del palazzo. Una macchina nuova era proprio necessaria prima di adempiere a un dovere islamico? Quelle maldicenze tormentavano i miei poveri genitori che fingevano di fregarsene”.
Saphia Azzeddine, nata ad Agadir nel 1979, ha all’attivo sei romanzi. Da quello di esordio, Confidences à Allah (2008) sono stati tratti una pièce teatrale e un fumetto.




“Quel giorno di settembre la notizia uscì sui giornali, in una pagina interna, a mala pena visibile a occhio nudo: donna partita e mai più tornata. Le donne non erano solite prendere giorni di vacanza e, quando una donna usciva, era assolutamente necessario ottenere il permesso scritto dal marito o timbrato dal datore di lavoro”. Con questo incipit, la scrittrice e dissidente egiziana Nawal El Saadawi trascina il lettore nelle pagine de “L’amore al tempo del petrolio”, romanzo in uscita l’8 marzo, edito da Il Sirente. In un oscuro regno del petrolio, in un Paese autoritario, forse l’Arabia saudita, o forse l’Egitto, un’archeologa scompare senza lasciare traccia. “Era già successo che sua moglie fosse andata in vacanza? Ha mai disubbidito?”, chiede il commissario al marito della studiosa che si è volatilizzata. Per la polizia che indaga, infatti, può trattarsi soltanto di una ribelle, oppure di una donna di non rispecchiata moralità. E’ una donna sottomessa, asservita e oppressa dall’uomo, quella descritta dall’autrice egiziana che, una volta ancora, torna a occuparsi della questione femminile nel mondo arabo. Poco importa dove è ambientata la storia. In questo libro denso di metafore e continue allusioni, dallo stile allucinato e visionario, il viaggio onirico – e al contempo reale – compiuto dalla protagonista, descrive l’esistenza di una donna in un qualsiasi regime autoritario. Trasformata in una macchina tuttofare, in grado di cucinare, pulire, scrivere, senza diritti né sentimenti, la donna diventa uno strumento funzionale all’uomo e dunque intercambiabile con un qualsiasi altro oggetto. E’ però anche una storia d’amore intrigante, insospettabile e densa di mistero, quella tratteggiata dalla scrittrice, che vede una volta tornata indietro, la protagonista lasciare il marito per un altro uomo. Medico psichiatra, più volte minacciata di morte da gruppi fondamentalisti, imprigionata sotto il regime di Sadat, nel 1993 Nawal El Saadawi è stata condannata a morte per eresia. Oggi l’autrice vive in esilio volontario negli Usa, ma a breve – fa sapere – tornerà in Egitto, la sua terra natale. “Un uomo – scrive l’autrice – può uscire e non tornare per sette anni e solo dopo quella data la donna può chiedere la separazione”. Per una donna, una sola notte invece è sufficiente per lanciare l’allarme e gridare allo scandalo. Pubblicato in varie antologie e tradotto in più di 20 lingue, “L’amore ai tempi del petrolio” – insieme a diversi altri romanzi della Saadawi, è stato censurato dalla massima istituzione religiosa egiziana, Al Azhar, che dopo pochi mesi dalla pubblicazione ne ha ordinato il ritiro da tutte le librerie egiziane.