Tag: Regina Coeli
-
Prima si andava in galera, ora in televisione
Caro Augias, questa mia lettera vuole essere una piccola «bouteille à la mer» lanciata alla memoria collettiva della società civile italiana, partendo da un episodio avvenuto parecchi anni fa, esattamente nel luglio del 1971, a Roma. So che lei ama la Francia e la cultura francese e sicuramente si ricorderà del caso di Pierre Clèmenti incarcerato per ben due anni nel carcere di Regina Coeli per un po’ di hascisc. A nulla valsero allora le testimonianze di registi come Pasolini, Bertolucci, Fellini. L’ attore che era al massimo della sua espressione artistica uscì dalla reclusione distrutto nel corpo e nell’ anima. Clementi è morto nel 1999 a soli 59 anni. La riflessione che vorrei sollevare partendo da un lontano e drammatico episodio è proprio questa: come è cambiata la società italiana in questi anni. Succede ora che se ammazzi, stupri, vendi prostituzione, spacci droga, non vai in prigione ma sei invitato ai dibattiti televisivi, diventi una vedette, peggio: un modello da seguire per le giovani generazioni in un «cannibalismo mediatico» immondo. Cosa è successo? Cathy Marchand cathymarchand@hotmail.it Già, che cosa ci è successo per passare da un estremo all’ altro? Eravamo un paese dove le guardie andavano a multare chi si baciava in macchina, siamo diventati un paese di oltraggiosa impudicizia. Morale, intendo, prima che fisica. L’ andamento, almeno in parte, è generale. Natasha Kampush, la ragazza austriaca tenuta prigioniera per anni da Wolfgang Priklopil, oggi diciannovenne, si mostra in pose seducenti nel suo sito web. Suo padre prende un compenso per andare in televisione a raccontare i guai suoi e della figlia. E’ la società dello spettacolo che, come sempre, colpisce di più i più fragili. Noi, per esempio. Anche se il fenomeno è stato studiato, forse non si sono ancora valutate tutte le conseguenze della pessima pedagogia che il piccolo schermo impartisce. Scusandomi con chi legge vorrei citare un caso che conosco di persona e che mi pare esemplare. Quando vent’ anni fa Raitre di Angelo Guglielmi decise di mettere in onda “Telefono giallo”, la consegna obbligatoria era che si trattasse di casi chiusi, delitti (privati e pubblici) sì irrisolti, ma archiviati. Nella Rai di allora non si riteneva lecito discutere e sviscerare casi nei quali le indagini erano ancora ai primi passi date le conoscenze di necessità incomplete che il giornalismo ha. Oggi, come sappiamo, questa regola non vale più. Del resto non c’ è più nemmeno la vergogna di non sapere, sostituita dalla sfrontatezza, il ritegno sulle personali miserie che vengono anzi sbandierate perché fanno ridere; gente anche di nome è disposta a farsi inondare di panna o di acqua colorata pur di stare qualche minuto davanti a una telecamera; non vale nemmeno la pena di citare ciò che è emerso con Vallettopoli. Eravamo un paese arretrato e bigotto quando il povero Clèmenti finiva in galera per qualche grammo di fumo; forse non siamo capaci di essere altro. – CORRADO AUGIAS c.augias@repubblica.it -
Intervista a Balthazar Clémenti
Il figlio dell’attore francese ricorda quella mattina del 1971 quando il padre finì per un anno in galera per un po’ di hashish.
«Mi svegliò la polizia, cercavano mio padre li ho visti, misero la droga sotto il letto»
di Giuliano Capecelatro – Liberazione, pag. 17, Interviste, 8 maggio 2008
Cadde dall’alto di un sogno, Balthazar. In frantumi l’infanzia dorata in una Roma dai colori di favola. Offuscata l’immagine del padre. Attore celeberrimo e conteso, giovane divo dalla bellezza androgina. Pierre Clémenti, alto, flessuoso, una gran chioma che si adagiava sulle spalle magre con grazia angelica, e incorniciava l’irrequieta oscurità dello sguardo. Cadde dall’alto di un sogno, Balthazar, la mattina del 24 luglio 1971. Qualcuno doveva aver accusato Pierre Clémenti.
«Fui proprio io ad aprire la porta. Dovevano essere le nove. C’era un tizio … con un impermeabile, se non m’inganno: un poliziotto in borghese. Poi arrivarono i carabinieri… E’ come se fosse ieri. Una storia che mi ha segnato, mi ha fatto soffrire. E a Pierre, confesso, per un po’ gliene ho voluto».
Arriva da Parigi la voce di Balthazar Clémenti. Distanza nello spazio, distanza nel tempo. E’ un quarantenne, oggi, che si guadagna da vivere col mestiere di attore. Come il padre. Che nell’ estate del 1971 rimase impigliato in una brutta storia di droga. Un po’ di cocaina, dell’hashish. Nella casa della sua compagna, Anna Maria Lauricella, in via dei Banchi Vecchi.
«Entrarono… io ricordo che misero della droga sotto il letto… mi ordinarono di tornare a dormire. Frugarono dappertutto… perquisirono. Ma la droga… io ricordo che furono loro a metterla».
Aveva cinque anni quel giorno: la porta si aprì e, come in una favola nera, la vita si capovolse. Sparì quel padre fantastico, che offriva al bambino un mondo magico. E’ difficile rielaborare un’emozione al telefono. Riviverla dopo quasi quaranta anni. La voce fluisce senza smagliature. Solo a tratti, la frase si spegne in una breve risata dalle sonorità infantili. Forse il tentativo inconscio di mettere un confine, di autoconvincersi che quella vicenda è davvero conclusa.
«Ci fecero salire su una macchina. Pierre, Anna Maria… io non volevo staccarmi da mio padre. Poi ho solo dei flash, immagini confuse… Ricordo un terreno aperto su cui si vedeva un edificio moderno».
Una Roma metafisica si profila sullo sfondo della memoria. Gli occhi del bambino afferrano frammenti di realtà, che l’adulto tenta di ricomporre in un quadro plausibile. Istanti convulsi: l’irruzione, la perquisizione, l’arresto. Il padre trattato da delinquente comune.
E il bambino Balthazar che si ribella. Con le lacrime, la rabbia. Con la voce, che chiede tra i singhiozzi una pistola. Per poter sparare a quegli sbirri. A quegli uomini che hanno messo le mani su suo padre. E che lo hanno ruvidamente riscosso dall’incanto.
Famoso e vezzeggiato, Pierre Clémenti. Ruoli importanti con grandi registi. Luis Buñuel per La via lattea. Pier Paolo Pasolini per Porcile. Bernardo Bertolucci per Il conformista, Il partner. Liliana Cavani per I cannibali. Glauber Rocha per Cutting heads. Un improvviso benessere, una vita di agi e lussi per il border-line nato a Parigi nel 1942 senza padre, da una ragazza còrsa, il bohémien squattrinato che raccoglieva cicche a Saint Germain des Prés, l’attore novizio che un Alain Delon in vena di inusitate generosità trascina con sé alla corte di Luchino Visconti per una particina ne Il Gattopardo. L’interprete che snobba il Satyricon di Federico Fellini perché quel set gli fa venire in mente una catena di montaggio.
«Era la dolce vita – racconta Balthazar, e sottolinea il ricordo con la sua breve, sommessa risata -. Vivevo in piena libertà. Giravo a piedi nudi per le strade di Roma. La figlia di Anna Maria aveva una passioncella per me. Una ragazza simpatica, carina per quel poco che ricordo. Rimanevamo spesso soli a casa, poi la sera raggiungevamo i genitori in un ristorante, a piazza di Spagna, via del Babuino, piazza del Popolo. Vedevo i film di Pasolini prima che uscissero, in una sala privata di via Margutta. E poi Positano, Pierre aveva affittato villa Murat, ci passavamo le vacanze. Andavamo in barca. Ricordo una pasqua; venne mia madre e nascose nel giardino delle uova, che noi bambini dovevamo cercare. Venne a trovarci Bertolucci… in seguito mi avrebbe chiesto se avevo ancora la macchina dei pompieri. La dolce vita… poi l’incubo».
L’Italia delle stragi di stato, della tensione golpista, delle trame massoniche (è in quell’ anno che Licio Gelli prende il comando della P2), del fascismo sempre risorgente, e che proprio alla fine del 1971 fornirà a Giovanni Leone, democristiano specialista di governi balneari, i voti decisivi per issarsi sulla più importante poltrona della repubblica, ha elevato a nemico pubblico numero uno la droga. E cala la mannaia di una normativa retrograda e ciecamente repressiva. Senza distinzioni. E, comunque, senza mai disturbare quei salotti buoni, da Torino a Roma, da Milano a Napoli e Palermo, in cui la cocaina ha sempre circolato con l’innocente frequenza dei bonbon.
«Io credo – racconta Balthazar – che avessero bisogno di un capro espiatorio visibile, conosciuto. Lui era una star internazionale. Portava i capelli lunghi e non aveva mai tradito la sua vocazione alla marginalità…. In qualche modo dava fastidio. E si prestava allo scopo, aveva un passato politico di sinistra… c’è un cortometraggio che aveva girato a Parigi, nel maggio ‘68, La révolution, con mia madre Marguerite che sventola una bandiera rossa… Fumava, di sicuro fumava un po’ di hashish, chi non fumava in quell’ epoca? Ma la droga in casa, quel giorno… il mio ricordo è che l’ hanno messa loro per far vedere che avevano trovato quello che cercavano».
Regina Coeli. Rebibbia. Una condanna a due anni in primo grado. Pierre Clémenti, attore di grido, diventa un anonimo detenuto delle carceri romane. Che prima tenterà di contestare, dialogare. Quindi, la testa completamente rasata, si chiuderà in un mutismo ascetico. Forma radicale di protesta. Ma anche un radicale mutamento di prospettiva. Uscito dal carcere, l’attore rievocherà l’esperienza di reclusione in un libro, Quelques messages personnels, pubblicato da Gallimard e da poco ritradotto in italiano (Pierre Clémenti, Pensieri dal carcere, Il Sirente, pagine 146, 12,50 euro).
«Andai a trovarlo con mia madre. Non ho immagini nitide di quel giorno… un’atmosfera sinistra, cancelli, sbarre, una sala piccolissima, sembrava l’emiciciclo di un’aula universitaria. C’era soltanto un’altra persona con una donna. Rimanemmo poco, non più di un’ora credo. Gli avevo portato dei marrons glacés. Lo trovai con i capelli a zero».
I capelli spariti cancellano l’immagine di quel padre magico. Si azzera anche l’infanzia felice e spensierata di Balthazar. «Fui affidato per qualche tempo a uno degli avvocati. Mia madre era troppo impegnata nel lavoro, anche lei nel cinema, per potersi occupare a tempo pieno di me. Ci vedevamo nei week end. Ogni tanto mi portava in viaggio con sé. Ma in prevalenza stetti con i miei nonni. Andai in collegio. La storia mi aveva scosso. Mi svegliavo nel cuore della notte. E sentivo sempre parlare di mio padre alla televisione».
L’appello. In un’aula affollata di telecamere. Insufficienza di prove. Dopo oltre un anno e mezzo di detenzione. Ma resta la condanna per Anna Maria, che gira la testa dall’altra parte, ferita per la disparità di trattamento. Via le manette, ma immediata l’espulsione. Indesiderabile: ventiquattro ore di tempo per lasciare l’ Italia.
«All’ aeroporto di Orly, quando Pierre tornò in Francia, c’era una tale ressa di giornalisti che non riuscivo ad avvicinarlo. Fu tutto un susseguirsi di interviste, di incontri. Un giorno, in una radio si imbatte in François Mitterrand, che gli dice: vi vogliamo molto bene; vi abbiamo sostenuto. Parlava già allora da presidente. Andai a vivere per qualche tempo con lui, in rue des Ecoles. Poi mi riprese mia madre. Ma io volevo tornare dai nonni. A diciassette anni cominciai a vivere da solo, magari a casa di qualche fidanzata».
L’attore Clémenti cambia vita. Abbandona la ribalta. Sceglie percorsi più ardui. Riversa la rabbia sulle scene teatrali, impugnando Genet, Artaud e anche testi di sua mano. Da regista si orienta verso un cinema meno patinato, indipendente, centrato su personaggi marginali. Gira Il sole , una sorta di poema filmato, un diario in cui si parla della prigione, della giustizia lenta, estenuante, di un’esperienza da cui non si esce intatti.
«Non si riprese mai – racconta Balthazar -. Evitava di parlare di quella storia. Per lui era una specie di segreto. Era una persona molto pudica. Si chiuse sempre più in se stesso. Rifiutò offerte allettanti, anche dal punto di vista finanziario».
A 57 anni, nel dicembre 1999, lo uccise un cancro al fegato. Ma la figura dell’attore non scompare dall’universo cinematografico. Continua, anzi, a ripresentarsi. Il Centre Pompidou, al Beaubourg di Parigi, gli ha dedicato un omaggio. L’anno scorso la Cinemateca di Bologna ha presentato due mediometraggi scritti e interpretati da Clémenti: Visa de censure del 1968 con Jean Pierre Kalfon e New Old del 1979 con Klaus Kinski. Jeanne Hoffstetter ha scritto una sua biografia romanzata. Su Internet viene diffuso un dvd, Pierre Clémenti cinéaste: l’intégrale.
Il prossimo appuntamento è a Lucca, a ottobre prossimo, per il festival del cinema sperimentale. Balthazar è stato invitato.
«Ora voglio rintracciare i poemi scritti in carcere. Li aveva uno dei suoi avvocati, diventato poi un pezzo grosso del governo francese. Ma non sono più stati ritrovati».
E’ sempre quella figura esile, alta, dai lunghi capelli e lo sguardo trasognato, che cerca Balthazar. Quel sogno da cui lo risvegliarono una mattina di luglio.
«Con Pierre non fu un rapporto facile. Solo da adulto ho capito davvero il suo atteggiamento. Prima un po’ gliene volevo. Ma lui era diverso, aveva rinnegato la carriera facile, commerciale. Si sentiva un marginale. Era un vero artista. Ed ora posso dire che le sue scelte mi trovano d’ accordo». -
Cenni storici su Regina Coeli
La storia di Regina Coeli è determinata dalla storia di Roma e dell’Italia. Il modo in cui storia della città e del carcere si intrecciano si evince chiaramente anche solo dai brevi cenni che seguono, a dimostrazione del fatto che il carcere è parte, a pieno titolo, del tessuto cittadino.Nel 1973 l’attore francese Pierre Clémenti ha scritto un libro che si intreccia con questa storia ed è apparso nuovamente nel 2007 presso l’Editrice il Sirente con il titolo Pensieri dal carcere. Il libro ripercorre attraverso riflessioni e flash narrativi l’esperienza carceraria dell’attore e regista: l’arresto, l’arrivo nel carcere di Rebibbia e poi in quello di Regina Coeli, l’incontro con l’umanità repressa e dimenticata, la cruda realtà delle rivolte e delle rappresaglie, l’annullamento spirituale ancor prima che fisico, l’ipocrisia del ceto dirigente italiano, il processo fino all’assoluzione definitiva che suonerà paradossalmente come una condanna. L’articolo che segue è a cura di Luciana Arcuri e le notizie storiche sono tratte da:
- ADINOLFI G., Storia di Regina Coeli e delle carceri romane, Roma, Bonsignori, 1998;
- D’AMICO S., Regina Coeli, Palermo, Sellerio, 1994;
- ROSSI E., Nove anni sono molti. Lettere dal carcere 1930-39, Torino, Bollati Boringhieri, 2001;
- CLÈMENTI P., Pensieri dal carcere, Fagnano Alto (AQ), Editrice il Sirente, 2007.
L’Edificio e la conversione in carcere
La costruzione venne iniziata nel 1643 per ospitare un monastero, che la committente Anna Colonna volle posto sotto la direzione dei Carmelitani Scalzi. Fu poi aperto nel 1654 ed affidato alle cure di Suor Maria Chiara della Passione, anche lei appartenente alla famiglia dei Colonna. Già due anni dopo, nel 1656, rischiò di cambiare destinazione d’uso: a causa di un’epidemia di peste si pensò di utilizzarlo come lazzaretto, come del resto accadde ad altri edifici religiosi della zona. Regina Coeli alla fine fu invece risparmiato.
Per la prima volta ospitò detenuti condannati a pene brevi, e solo in alcune celle, dopo l’annessione di Roma al Regno d’Italia, con la conseguente confisca dei beni ecclesiastici. Esistevano a Roma, in quell’epoca, quattro carceri: San Michele, prima ospizio, poi carcere minorile e infine carcere degli oppositori politici nello Stato Pontificio, le Carceri Nuove e Regina Coeli per gli uomini, mentre alle donne era destinato il Buon Pastore. I tre istituti maschili disponevano di 64 cameroni e 202 celle per una popolazione di circa mille detenuti.
Dal 1872 si accese anche in Italia un dibattito sullo stato e l’insufficienza degli stabilimenti penitenziari, come del resto avveniva in Europa e in America. Si discuteva allora, non per la prima volta, su come regolamentare la vita detentiva, in particolare sull’opportunità del silenzio assoluto, dell’isolamento notte e giorno, del lavoro. Fu proposta la costruzione di un unico grande carcere, degno della città che, secondo una legge del Regno d’Italia del 1864, doveva essere a sistema cellulare, ossia prevedere una cella per ogni detenuto. Si discusse anche sul luogo della costruzione: fu scartata la zona di S. Croce in Gerusalemme per l’alto rischio malarico, si trattò per il Convento delle Sette Sale al Colle Oppio; ma la rapida crescita demografica della città rese indispensabili altre ed ingenti spese per la costruzione di nuovi quartieri e nuove strade. Infine, nel 1880, Depretis, Ministro dell’Interno, dichiarò l’intenzione del Governo di limitarsi ad un progetto più semplice e meno costoso.
Fu allora che si decise di trasformare in Carcere Regina Coeli, che si trovava in una zona, a quei tempi, poco abitata ma non lontana dal centro. Oltre ad ospitare già condannati a pene brevi, per una capienza di circa 200, dal 1873 era anche sede di una scuola per 150 allievi aspiranti guardie carcerarie, motivo per cui si fa risalire a questa data l’origine della polizia penitenziaria. Successivamente, dal 1903 ospiterà una scuola di polizia scientifica.
La ristrutturazione ebbe inizio nel 1881 e fu terminata nel 1900. Anche nei decenni seguenti vi saranno ristrutturazioni e ampliamenti che sfrutteranno il vicino convento delle Mantellate, che dal 1873 era destinato alle detenute, le ultime delle quali saranno trasferite a Rebibbia nel 1959. In principio fu concepito con tre distinti fabbricati: quello affacciato su Via della Lungara, ospitante la direzione, gli alloggi, il corpo di guardia, il parlatorio, la cucina, il medico e i magazzini; due fabbricati a crociera con una rotonda centrale coperta da una grande volta a padiglione, ospitanti le celle. Secondo un uso ereditato dai secoli precedenti erano previste celle a pagamento e la possibilità di farsi portare il vitto da fuori, e tale condizione permarrà sicuramente almeno sino al 1943.
Si parla della demolizione di Regina Coeli già nel congresso penale e penitenziario di Berlino del 1935. Ci si pose allora come obiettivo per il seguente Congresso, che doveva tenersi a Roma, la costruzione di una città penitenziaria, che doveva sorgere a Forte Boccea, con celle singole, ospedale e officine. Ma la guerra d’Etiopia, l’appoggio a Franco in Spagna e poi lo scoppio della seconda guerra mondiale resero ancora una volta prioritarie altre spese. A Regina Coeli furono invece installati nuovi laboratori di radiologia e analisi, nonché l’infermeria medica e chirurgica, ed alla tipografia e alla legatoria già esistenti si aggiunsero la falegnameria, la sartoria e la calzoleria.
Neanche dopo la costruzione dell’imponente complesso di Rebibbia, che comprende quattro diversi istituti penitenziari, si è giunti alla chiusura di Regina Coeli, ove a tutt’oggi sono in corso lavori di ristrutturazione. Né per il giubileo del 2000, sempre per via dell’elevato importo della spesa. Pure, ora più che in passato, l’età e la concezione stessa dell’edificio danno luogo a uno stridente contrasto con la concezione della pena e con quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario e dall’ultimo Regolamento. Si pensi agli spazi dedicati alla cosiddetta “ora d’aria”, piccoli cortili in cemento, alla mancanza di strutture dedicate all’esercizio fisico, all’assenza di locali adatti ad attività comuni all’intero carcere (come è ben noto, tutte le attività all’interno di Regina Coeli, dai concerti alle visite dei Papi, fino alla liturgia domenicale, avvengono nella prima rotonda); fino alla mancanza di riscaldamento in alcune sezioni.Durante il fascismo
Con l’avvento del fascismo e la repressione degli oppositori politici, Regina Coeli vedrà passare nomi illustri della cultura italiana e personaggi che ricopriranno in seguito importanti cariche istituzionali: ricordiamo in particolare Sandro Pertini, che sarà protagonista con altri di un’evasione, Gaetano Salvemini, Alcide De Gasperi, Gramsci, che vi fu detenuto per brevi periodi ma li ricorda tra i peggiori del suo tempo in carcere, Cesare Pavese, Luchino Visconti.
I politici erano in gran parte reclusi nel VI braccio, dove, fino al 1943, erano in isolamento. Le condizioni di vita erano durissime: un solo pasto di pane e minestra al giorno, cimici, condizioni igieniche precarie.
Francesco Fausto Nitti, che rimase a Regina Coeli tre settimane nel 1926, accusato di cospirazione, descrive nel libro “Le nostre prigioni e la nostra evasione” le condizioni della detenzione nelle celle di rigore: “…Ogni cella è lunga un metro e mezzo e larga un metro. Ha una porta di legno massiccio, fornita di due cancelli di ferro. Un uomo chiuso là dentro per tanti giorni ha l’impressione di essere sepolto vivo. Il pane e l’acqua sono i suoi alimenti. Una tavola di legno fissata al muro è il giaciglio. La luce entra da un piccolo finestrino sul soffitto altissimo. Poiché il finestrino è fornito di duplici sbarre, di griglie e di vetri polverosi, la luce non entra in quella tomba che per due ore al giorno…C’è un’orribile ricercatezza nell’infliggere sofferenze: nelle “celle di rigore” l’acqua è contenuta in un recipiente metallico, assicurato a una catena e posto tra i due cancelli che sono all’ingresso. Per bere occorre inginocchiarsi a terra, alzare al di là del primo cancello attraverso le sbarre il recipiente e avvicinarlo alla bocca. E’ un supplizio di Tantalo riveduto e corretto.”.
Delle condizioni di detenzione a Regina Coeli in questo periodo, e di come fosse affrontata dai prigionieri politici, ci ha lasciato testimonianza Ernesto Rossi che vi rimase oltre sei anni. Insegnante, poi scrittore, fu arrestato con altri componenti di Giustizia e Libertà. Isolamento in cella, censura sulla corrispondenza con i familiari, triplo nulla osta (del direttore del carcere, del cappellano e del Ministero dell’Interno) per l’acquisto di libri, testa rasata, divisa a righe, due ispezioni quotidiane della cella e qualcuna di notte, controllo a vista dallo spioncino, lampadina accesa tutta la notte, troppo debole per leggere, troppo forte per dormire, vitto scarso, assenza di riscaldamento sono caratterizzanti il suo soggiorno nel carcere romano. Pure, gli aderenti a Giustizia e Libertà avevano due ore al giorno di incontro in una sala comune, in realtà allo scopo di ricavare informazioni, poiché, con uno dei primi esperimenti italiani di controllo ambientale, nella stanza erano stati nascosti dei microfoni, come per altro venivano ascoltati, nonostante il divieto di legge, i colloqui con gli avvocati (che potevano essere chiamati solo per motivi personali e civili, come una separazione). Quelle due ore erano dedicate all’amicizia , all’ironia verso il regime e la propria condizione, e soprattutto allo studio comune di varie materie, dal diritto all’economia alla matematica. Si trattava infatti di persone colte, che utilizzarono al meglio il tempo del carcere, e lo strumento della lettura e dell’apprendimento per resistere a una detenzione di cui non conoscevano la fine. In compenso era vietato scrivere nella sala comune e quindi prendere appunti; In un’intercettazione del 1934 Rossi diceva: ”Ma io scrivo ugualmente…scrivo a terra con l’acqua e il dito; il Ministero non vuole che noi si scriva, ed io scrivo lo stesso; l’acqua ce la lasceranno speriamo, e con il dito posso scrivere quanto voglio.”
Rossi, e probabilmente non fu il solo, fu sostenuto nella sua decisione di non abiurare la propria posizione antifascista sia dalla madre che dalla moglie, che anzi lo sposò in carcere nel 1931, perdendo per questo il posto di lavoro.
Condizioni dure, che saranno però impensabili poco dopo, alla caduta del fascismo.Dal 25 luglio 1943 alla fine della guerra
Dopo l’arresto di Mussolini, il governo Badoglio decreta la scarcerazione dei prigionieri politici, fatta eccezione per gli anarchici e i comunisti, che saranno scarcerati in agosto in seguito alle pressioni delle organizzazioni sindacali.
Cominciano invece ad affluire a Regina Coeli esponenti di rilievo del Partito Fascista, tra cui Bottai, fondatore dei fasci e Achille Storace, segretario del partito. Fu una parentesi di breve durata. Subito dopo l’8 settembre infatti, il terzo braccio fu occupato dai Tedeschi, e fino alla fine della guerra Regina Coeli fu utilizzata per gli arresti effettuati dai Tedeschi e dai fascisti della Repubblica di Salò, insieme al carcere di Via Tasso.
Oltre ai partigiani e ai politici furono incarcerati in questo periodo anche molti appartenenti alle diverse armi per atti di boicottaggio o per aver fornito armamenti e aiuti alla guerra partigiana; sacerdoti e laici per aver nascosto ebrei. Ma bastava molto meno, anche solo la diffusione di volantini. Solo in questo periodo, nell’intera storia del carcere, nel terzo braccio furono recluse anche donne. Si tratta di un periodo del tutto particolare, perché la guerra era ormai anche guerra civile e ciò che avveniva, in particolare l’olocausto, coinvolsero nella necessità di una scelta tante persone diverse per storia, formazione e ruolo sociale: sacerdoti, militari, comunisti, anarchici, cattolici, studenti e professori universitari. Solo in questo particolare momento il personale del carcere, dal direttore ai medici agli agenti di custodia, prese posizione contro i tedeschi favorendo in vari modi i prigionieri, salvando la vita ad alcuni, ed addirittura organizzando l’evasione di cui fu protagonista tra gli altri Sandro Pertini. Si giunse ad alloggiare a Regina Coeli fino a 2500 persone, quando la capienza massima, già al limite del vivibile, è inferiore ai 900. Tanto che in ottobre ci fu una sollevazione dei detenuti comuni, che presero in ostaggio due magistrati finchè la rivolta non fu repressa con le armi. Il vitto scarseggiava, anche in relazione alla penuria all’esterno. Non era più il tempo della resistenza dei detenuti politici, né degli studi, essere arrestati dai tedeschi significava tortura e spesso la morte. Furono scarcerati i gerarchi fascisti arrestati dopo il 25 luglio, ed arrestati invece diversi firmatari dell’ordine del giorno Grandi, presentato il 25 luglio contro Mussolini. In ottobre vennero presi anche Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, che saranno sottratti al terzo braccio e quindi ai tedeschi perché i documenti relativi ai loro processi erano stati intenzionalmente recapitati alla giustizia militare italiana, e in seguito fatti evadere con la complicità di diverse persone. In novembre, nel corso di una retata presso la tipografia del giornale Italia Libera, voce ufficiale del Partito d’Azione, fu arrestato tra gli altri Leone Ginzburg, che ne era direttore, e che morirà in febbraio nell’infermeria del carcere in seguito alle percosse subite dai nazisti.
Qui venne mandato a morire, per le torture subite a Via Tasso, anche Bartolo Di Pietro, che era comandante di un gruppo di partigiani. I nazisti di solito trasferivano da Via Tasso a Regina Coeli i prigionieri già stremati dalle torture, quando non ritenevano più utile prolungarle per ottenere informazioni.
Gli arresti erano numerosi anche in conseguenza di una diffusa attività di delazione che si verificò in quei mesi, tanto che a Via Tasso c’era un ingresso sul retro dedicato alle spie, da cui si poteva passare senza essere notati.
Nel febbraio furono condotti a Regina Coeli anche i 66 uomini arrestati in seguito all’irruzione nel monastero della Basilica di San Paolo, dove erano nascosti.
A meno di 24 ore dall’attentato di Via Rasella si consumò la strage delle Fosse Ardeatine. Il numero fissato per le esecuzioni era di dieci per ognuna delle 32 vittime tedesche. Durante il processo Kappler dichiarò che avendo avuto notizia della morte di un altro dei feriti, aveva lui stesso deciso di aumentare a 330 i morti per rappresaglia. Per raggiungere il numero prestabilito Kappler chiese al questore Caruso 50 prigionieri. Il questore chiese a sua volta a Regina Coeli un elenco, in cui andavano inclusi i già condannati alla pena capitale, o coloro le cui accuse prevedevano la pena di morte. Ma poiché l’elenco tardava, e i nazisti avevano fretta perchè la strage fu eseguita in segreto, vennero aperte le celle e furono scelti prigionieri a caso, tra cui già assolti e imputati di reati lievi, e tutti i 66 ebrei presenti nel terzo braccio. Vi erano persone fermate ai posti di blocco e non ancora interrogate; tra gli altri nove ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Invece di 320 i giustiziati furono 335, come si seppe dopo la Liberazione, quando si procedette all’identificazione delle salme. Secondo alcune testimonianze dirette di altri allora detenuti, dal terzo braccio di Regina Coeli furono fatte partire, fu detto per lavorare, 192 persone.
Dopo la strage l’attività di arresti e conseguenti esecuzioni non si fermò. Ricordiamo qui, per tutti, la figura assai nota di Don Giuseppe Morosini, la cui vicenda ispirò poi il film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini.
Ai primi di giugno del 1944 tutti avvertivano l’imminente arrivo delle forze alleate. I nazisti si ritirarono, sostituiti nella custodia del carcere, in realtà per circa un giorno, da reparti provenienti dall’Alto Adige. Il 4 giugno il Comitato di Liberazione Nazionale decretava l’immediata scarcerazione dei prigionieri politici.
Sotto il governo presieduto da Bonomi, fu nominato sovrintendente alle carceri il capitano americano Freeman. Per prima cosa si procedette alla ristrutturazione di Regina Coeli, e tra l’altro ad imbiancare le pareti, con la cancellazione delle scritte murali dei detenuti. Ne fu rinvenuta una che ricordiamo perché legata alla storia della deportazione degli ebrei romani: era di un giovane ebreo, morto alle Fosse Ardeatine, che accusava Celeste Di Porto, detta la “pantera nera”, una ragazza anch’essa ebrea, tristemente nota in città per la sua attività di delazione, sulla cui vicenda Giuseppe Pederiali ha scritto un bel libro intitolato “Stella di Piazza Giudia”. E’ una delle figure che la memoria dei romani si tramanda, come quella della donna, una povera gattara, che cercò di avvisare gli abitanti del ghetto dell’inizio dell’arresto in massa e non fu creduta, anch’essa immortalata nel romanzo “La storia” di Elsa Morante.Dal dopoguerra ai giorni nostri
Subito dopo la Liberazione cominciarono i processi ai fascisti. Tra gli altri quello contro il questore di Roma Pietro Caruso, che fu a sua volta detenuto a Regina Coeli. Al processo erano presenti i parenti dei prigionieri prelevati da Regina Coeli per le Fosse Ardeatine; si radunò una vera e propria folla, che invase il Palazzo di Giustizia, tanto che la prima udienza fu sospesa. Tra la folla sempre più agitata si trovava anche Donato Carretta, direttore del carcere dal settembre 1943 al luglio del 1944, che doveva testimoniare contro il questore. Qualcuno però lo scambiò per Caruso. Sottratto ad un primo tentativo di linciaggio nell’aula, fu riconosciuto all’uscita; dopo un tentativo andato a vuoto di costringere un conducente di tram a schiacciarlo, la folla lo gettò nel fiume e ne appese poi il corpo sul portone di Regina Coeli. Terribile ed efferata esplosione, che testimonia però quale sconvolgimento a livello del sentire cittadino avesse provocato la strage delle Fosse Ardeatine.
Anche Kappler restò un anno a Regina Coeli in attesa del processo tenutosi presso il Tribunale Militare che allora era a Palazzo Salviati; e Pietro Koch, capo di una banda di fascisti che aveva imperversato per la città, arrestando e torturando quanto i nazisti, che fu completamente isolato, e poi fucilato.
Poi Regina Coeli tornò ad essere un carcere per i reati comuni. Bisogna giungere alla fine degli anni ’60, con l’arresto di Pietro Valpreda per la bomba che esplose alla Banca dell’Agricoltura a Milano, perché si torni a parlare di accusati di atti di boicottaggio politico. In realtà fu poi scagionato, e si parlò di strage di stato. Si inaugurava però la stagione dei nuovi detenuti politici: questa definizione in realtà si deve a loro stessi, che tali si consideravano nei confronti di un sistema che ritenevano di dover abbattere con la violenza.
Cambiava anche il rapporto tra “politici” e “comuni”: mentre durante l’occupazione tedesca erano stati i detenuti comuni a sollevarsi, reclamando un’amnistia prima per l’insediamento del governo Badoglio e poi per la Repubblica di Salò, le rivolte che scuoteranno il sistema penitenziario in tutta Italia negli anni ’70 saranno viceversa spesso fomentate e capeggiate dai politici che, oltre ad avere a disposizioni maggiori strumenti culturali, elaborarono un discorso di tipo politico e strutturale sul carcere e il suo ruolo nell’attuale società, sia dentro che fuori le mura dei penitenziari. Il clima culturale e politico di quegli anni, insieme al dilagare delle rivolte, che chiedevano la riforma penitenziaria, condussero in effetti ad una serie di studi e inchieste sulle condizioni di detenzione e ad una riflessione sulla finalità della pena e quindi sulla sua applicazione. Tutto ciò contribuì a dare vita all’Ordinamento Penitenziario, ancora in vigore, che fu promulgato nel 1975. Pur portando un enorme cambiamento all’interno del sistema carcerario, si può dire che ancora oggi esso non sia pienamente realizzato, ma come spesso accade, delinea comunque una realtà cui bisogna idealmente tendere.
Anche Regina Coeli è stata teatro di una rivolta nel 1973, che causò molti danni. In seguito, poiché le condizioni igieniche erano una delle rivendicazioni avanzate, dall’unione di due celle si ricaverà il gabinetto. Poi, con la fine degli anni ’70, vedrà passare i terroristi; e vari attentati saranno diretti a persone dell’amministrazione penitenziaria, dal dirigente sanitario di Regina Coeli, a un’impiegata del centro studi del Ministero, a una vigilatrice di Rebibbia, fino al generale dei carabinieri Galvaligi, che era responsabile dell’Ufficio Coordinamento delle misure di sicurezza negli istituti penitenziari.
Negli anni ’90 si è costituito un Comitato di Ispettori Europei che ha visitato questure e carceri in tutta Europa; il rapporto sulla realtà italiana è stato pubblicato da Sellerio nel 1995; non manca di rilevare l’inadeguatezza della struttura di Regina Coeli.
La bibliografia allegata, pur parziale, fornisce titoli utili sia nell’ambito delle testimonianze personali che della riflessione e degli studi storico-giuridici sul carcere. -

Lunga vita a questo libro che lo proietta al centro del nostro amore
di Franco Capacchione (da Rolling Stone, marzo 2008)
Nel 1971 Pierre Clémenti, icona perfetta del cinema mitico, firmato Roche, Pasolini, Garrel, Bertolucci, Buñuel, è arrestato a Roma per droga. Viene rilasciato per insufficienza di prove, ma riceve anche un folgio di via. Tornato in Francia scrive questo diario. Magnifici flashback svelano i suoi inizi in teatro a Parigi, ancora goffo nel porgersi allo sguardo dello spettatore. Poi, gli incontri italiani: Visconti che gli dà una piccola parte in Il Gattopardo e quando lo vede per la prima volta gli dice: «Per un giubbotto nero, hai mani da principe…»; Buñuel, con un «volto favoloso, lavorato dalla vita, pesante e scavato»: per lui, Pierre è davanti alla macchina da presa in Bella di giorno e La via lattea. Infine, Fellini: lo vuole nel Satyricon, ma lui rifiuta: «Era come la Fiat, centinaia di attori, migliaia di operai, di figuranti, di artigiani all’opera per mesi, una città intera da costruire e da abitare…». Clémenti, che fu anche regista, è morto nel 1999. Lunga vita a questo libro che lo proietta al centro del nostro amore.
-
“IL FARO” Bozza di progetto per una nuova edizione del giornale dell’Istituto Penitenziario di “Regina Coeli”.
Alcuni estratti di “Pensieri dal carcere” saranno pubblicati sul Faro, progetto per una nuova edizione del giornale dell’Istituto Penitenziario di “Regina Coeli”. Il nome non è casuale si riferisce al Faro che svetta sulla balconata del Gianicolo e dista pochi metri dalle celle d’angolo del carcere, da quel punto del monte, fino a tempi recentissimi, era consuetudine che i familiari dei detenuti vi si riunissero per comunicare con loro gridando. Anche Pierre Clémenti è stato rinchiuso in questo carcere e da qui ha scritto “qualche messaggio personale” come veicolo di comunicazione per oltrepassare quelle mura. Il “Faro” è il simbolo di comunicazione tra il dentro e il fuori.
Il progetto Faro vuole costruire un’occasione per dare voce all’emarginazione ed alla sofferenza e non solo per suscitare emozioni ed interesse, ma soprattutto per determinare fatti ispirati alla dignità umana, al cambiamento, alla solidarietà. Il giornale vuole offrire ai detenuti del carcere di Regina Coeli ed alle persone coinvolte nel progetto una possibilità di confronto che stimoli la fantasia, induca alla riflessione e, perché no, provochi la gioia di una risata tutti insieme nel lavoro di stesura del giornale.
Insieme al Faro il Sirente vuole creare un incontro dibattito occasione per parlare di Clementi e della situazione nelle carceri italiane di oggi e degli anni ’70. Nella presentazione – dibattito interverranno alcuni portavoce del Faro e Balthazar Clementi, che da bambino aveva vissuto l’arresto di suo padre, accusato di detenzione di droga.
La proposta di una nuova edizione del vecchio giornale “Il Faro” che si faceva, molto tempo fa a Regina Coeli, è venuta dagli stessi detenuti durante gli incontri di “Leggere e conversare in carcere” organizzati dall’Associazione di Volontariato “A Roma, Insieme” e svolti con cadenza settimanale per un intiero anno qualche anno fa.
Sentiamo, oggi, la necessità di riprendere quella proposta perché i motivi e gli obiettivi che la sostenevano non solo non sono venuti meno, ma si sono rafforzati ed estesi sia per la mutata realtà del carcere, delle persone che lo abitano, sia perché molti dei problemi già evidenziati allora o si sono aggravati o, comunque, non sono stati risolti: salute, stranieri, immigrazione, disagio mentale, tossicodipendenze, affettività.
Il monotono scorrere della vita quotidiana in carcere con le sue attese, le sue sofferenze, le sue solitudini, le sue speranze, le sue distanze dal mondo esterno poneva allora e, forse ancora di più oggi, l’urgenza di tessere, in tutti i modi, un filo di solidarietà e di comunicazione tra “dentro e fuori” e di offrire uno “spiraglio sul mondo” a chi ne è escluso fosse pure soltanto per brevi periodi.
Scrivere, esternare le proprie emozioni e sentimenti, i propri ricordi, esige riflessione, conoscenza degli altri, di ciò che ci circonda e di conseguenza di noi stessi. È un modo ameno per uscire dal proprio io e confondersi con l’altro, con gli altri, uscire dal luogo dove si vive e lasciare respirare la mente.
Vogliamo costruire insieme un’occasione in più per dare voce all’emarginazione ed alla sofferenza e non solo per suscitare emozioni ed interesse, ma soprattutto per determinare fatti ispirati alla dignità umana, al cambiamento, alla solidarietà.
Molti hanno difficoltà, per diversi motivi, ad accostarsi alla scrittura, ma la maggior parte delle persone è desiderosa di parlare e raccontare. Proprio questa volontà permetterà loro di acquisire le necessarie conoscenze, anche con l’aiuto di esperti di comunicazione e dei “redattori” esterni, per scrivere direttamente le loro emozioni, proposte e speranze.
Il giornale vuole offrire ai detenuti del carcere di Regina Coeli ed alle persone coinvolte nel progetto una possibilità di confronto che stimoli la fantasia, induca alla riflessione e, perché no, provochi la gioia di una risata tutti insieme nel lavoro di stesura del giornale.Associazione “A Roma, Insieme”
Via Sant’Angelo in Pescheria 35 – 00186 Roma – Italia
Tel/Fax +39 06 68136052 – email: aromainsieme@libero.it – www.aromainsieme.org
C.F. 96219460589 -
La guerra di Pierre
di Cristina Piccino (da ALIAS N. 6 – il manifesto, 11/02/2006)
Era il 1971 quando l’attore francese Clémenti, a Roma a girare «Necropoli» di Franco Brocani, venne arrestato per droga. Un blitz per distogliere l’attenzione dal caso valpreda. «Cosa di meglio che quei ragazzi stranieri coi capelli lunghi, sporchi, che non lavorano», scrive il poeta della rivoluzione nel suo diario dal carcere.
Era un mattino d’estate quando i carabinieri arrivarono nella casa dell’amica che ospitava pierre Clémenti a Roma: 24 luglio 1971, decennio a venire di antagonismi liberati dal 68, una rivoluzione di cui l’attore francese era icona e protagonista. In Partner di Bertolucci lo vediamo correre per le strade della capitale, era lui che raccontava qui già il maggio francese, irrequieto, ineffabile, un’insofferenza alle regole sin da piccolo che era il suo magnetismo. Bellezza androgina, potenza d’attore, sensibilità psichedelica che poi ne farà il protagonista «naturale» del magnifico Sweet Movie di Makavejev, aveva incantato oltre a Bertolucci (col quale girerà anche Il conformista, 70) Luis Buñuel (Bella di giorno, 66, La via lattea, 69), Marc’O (Les Idoles, 64), Philippe Garrel (Le lit vierge, 69, La cicatrice interiore, 70), Glauber Rocha (Cabezas scortadas, 70), Liliana Cavani (I cannibali, 69), Pier Paolo Pasolini (Porcili, 69). Il cinema insomma che più distillava immaginario e vita, di cui vissuto e sensibilità dell’attore erano incarnazione e alchimia perfetta. A Roma Clémenti stava girando Necropoli di Franco Brocani, ancora cinema italiano che lui adorava. Pasolini, intanto, «un san Paolo a suo modo che pensa di avere come missione l’affrancamento degli italiani dalle carcasse morali e dalle regole cattoliche che li hanno castrati per secoli rendendoli vergognosi della propria sessualità». Poi Fellini, Visconti (era stato anche nel Gattopardo), De Sica…
Quella mattina Clémenti dormiva, il figlio, Balthazar, un bimbetto di cinque anni, apre la porta. È un attimo. I carabinieri frugano determinati – «i vicini si sono lamentati» diranno a motivare l’irruzione da Anna Maria, così si chiama l’amica di Clémenti, una cosa dove c’era sempre un posto per tutti, cosa che da sola basta a giudicare, a dichiarare colpevolezza. Che cercano è facile immaginarlo: droga. E la trovano, naturalmente, un po’ di hashish, un pizzico di cocaina, roba da niente (e con tutta probabilità messa da loro stessi) che basta però a portare Clémenti e Anna Maria in galera. Un po’ quello che avverrà con la prossima legge Fini. Clémenti resterà in prigione diciotto mesi di cui otto attendendo il processo al quale viene prima condannato a due anni, e poi, in appello, assolto. Ma intanto passano altri dieci mesi, dieci mesi di abbrutimento, violenza, negazione di tutto. È in questo tempo tra regina Coeli – la prigione del popolo come lui la chiama – e Rebibbia, «il carcere modello», che Clémenti scrive Quelques messages personnels, qualcosa di più che un diario o un’autobiografia, un vero racconto del carcere ma soprattutto meccanismi che lo strutturano, e di quella repressione capillare e organizzata messa in atto da carabinieri e fascisti con il supporto degli apparati mediatici. Sono gli anni dei «casi» costruiti con sapienza, delle individualità demolite per colpire il movimento che mette sempre più in crisi la supremazia di una logica politica che è solo repressione a tutto campo. Valpreda accusato di strage anche se innocente, ma anarchico, dunque colpevole. Da Braibanti, primo colpevole di dissenso fino al «caso» del quali hashish e marijuana, e un incredibile clamore mediatico di mala informazione e fanatismo anticomunista. La droga ci dice Clémenti è il pretesto, il simbolo e la sintesi con cui annichilire le figure scomode e non assimilabili alle norme. La sua scrittura ci porta dentro a tutto questo, e lo fa partire da un vissuto (in prima persona) che mai è sovraesposto ma indignato, struggente, rabbioso con la dolcezza gentile di un poeta della rivolta. Che sa bene il paese in cui si trova rinchiuso, non diverso dalla sua Francia e dal resto del mondo che cerca di difendersi da chi mette in discussione sfruttamento, privilegio, negazione della consapevolezza. L’Italia che racconta Clémenti è quella del codice fascista Rocco, delle rivolte carcerarie finite in massacro, dell’istruzione negata in carcere come il lavoro o una qualsiasi specializzazione così che chi poi esce sia costretto a rientrarci. «perché quella mattina d’estate i poliziotti sono venuti a bussare proprio alla porta di Anna Maria?» si chiede più volte nel corso del racconto. E risponde: «ci voleva qualcosa che distogliesse l’attenzione dallo scandalo intorno alla condanna di Valpreda, molto rischioso per il sistema giudiziario e poliziesco (…) Cosa di meglio che dei ragazzi stranieri coi capelli lunghi, sporchi, che non vogliono lavorare e che si drogano, questi hippie…».
A Regina Coeli carcere duro, nessun diritto, letture e posta controllati, il rischio continuo della cella di isolamento (in cui finisce anche lui). Se si risponde si diventa subito elementi pericolosi. Clémenti rifiuta il mondo, smette di parlare, di leggere, di mangiare, non vuole visite. «Dopo il silenzio, e settimane di vita vegetativa, è arrivato il momento della rivolta. La sola arma che un prigioniero ha è il suo corpo» scrive. E ancora: «ho visto cose terribili a Regina Coeli. E uomini sublimi».
Quelques messages personnels, ripubblicato in Francia dalle edizioni folio, l’edizione originale uscita nel 1973 era ormai introvabile (in Italia l’ha pubblicato il Formichiere, ormai scomparso, ora si sta cercando un nuovo editore) si compone per istantanee in cui Pierre Clémenti detenuto incontra Pierre Clémenti attore: brucianti, la stessa incandescenza distillata nei suoi film. Che entrano nello «smascheramento» del carcere insieme a altri appunti di memoria, l’erranza nelle strade di Saint-Germain, l’incontro con Jean-Pierre Kalfon, i set di Buñuel per Bella di giorno… E le donne, «le stelle filanti» come le chiama, anche quelle italiane, «del popolo», incontrate nei vagabondaggi trasteverini, lui per scelta lontano dai salotti di piazza del Popolo e in affinità coi tavolini proletari di un quartiere allora ancora segno vitale di una metropoli non del tutto spossessata di sé. Cinema e vita insomma, cioè immaginario non pianificabile, che produce inquietitudine e per questo va cancellato. Clémenti prigioniero denuda anche i suoi «interlocutori»: i direttori del carcere per tipologie, mellifluo, o «sognatore», o smascherato di gentilezza che ti rovina. I poliziotti reclutati tra poveri e ignoranti, a cui si insegna a leggere e a picchiare, caricati a anfetamina prima delle manifestazioni, stessa tecnica usata dai francesi nella guerra di Algeria. «Il sistema ha paura dell’energia di massa. Bisogna bloccarla o canalizzarla cercando con ogni mezzo di riconvertire la potenziale energia creativa in repressione». Poi c’è la speranza, che è lotta per cambiarla la prigione, e che fa di Quelques messages personnels un libro combattente a ogni passaggio. E di evasione ma dal sistema verso l’utopia, che un giorno le prigioni scompaiano, che i ministri della giustizia siano tormentati da insonnia pensandoci, e che finisca l’ipocrisia. Clémenti non sarà più lo stesso una volta fuori. «Bisogna sapere andare molto lontano» aveva scritto. Resistenza estremista, quasi un’altra sperimentazione.

