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“IL FARO” Bozza di progetto per una nuova edizione del giornale dell’Istituto Penitenziario di “Regina Coeli”.
Alcuni estratti di “Pensieri dal carcere” saranno pubblicati sul Faro, progetto per una nuova edizione del giornale dell’Istituto Penitenziario di “Regina Coeli”. Il nome non è casuale si riferisce al Faro che svetta sulla balconata del Gianicolo e dista pochi metri dalle celle d’angolo del carcere, da quel punto del monte, fino a tempi recentissimi, era consuetudine che i familiari dei detenuti vi si riunissero per comunicare con loro gridando. Anche Pierre Clémenti è stato rinchiuso in questo carcere e da qui ha scritto “qualche messaggio personale” come veicolo di comunicazione per oltrepassare quelle mura. Il “Faro” è il simbolo di comunicazione tra il dentro e il fuori.
Il progetto Faro vuole costruire un’occasione per dare voce all’emarginazione ed alla sofferenza e non solo per suscitare emozioni ed interesse, ma soprattutto per determinare fatti ispirati alla dignità umana, al cambiamento, alla solidarietà. Il giornale vuole offrire ai detenuti del carcere di Regina Coeli ed alle persone coinvolte nel progetto una possibilità di confronto che stimoli la fantasia, induca alla riflessione e, perché no, provochi la gioia di una risata tutti insieme nel lavoro di stesura del giornale.
Insieme al Faro il Sirente vuole creare un incontro dibattito occasione per parlare di Clementi e della situazione nelle carceri italiane di oggi e degli anni ’70. Nella presentazione – dibattito interverranno alcuni portavoce del Faro e Balthazar Clementi, che da bambino aveva vissuto l’arresto di suo padre, accusato di detenzione di droga.
La proposta di una nuova edizione del vecchio giornale “Il Faro” che si faceva, molto tempo fa a Regina Coeli, è venuta dagli stessi detenuti durante gli incontri di “Leggere e conversare in carcere” organizzati dall’Associazione di Volontariato “A Roma, Insieme” e svolti con cadenza settimanale per un intiero anno qualche anno fa.
Sentiamo, oggi, la necessità di riprendere quella proposta perché i motivi e gli obiettivi che la sostenevano non solo non sono venuti meno, ma si sono rafforzati ed estesi sia per la mutata realtà del carcere, delle persone che lo abitano, sia perché molti dei problemi già evidenziati allora o si sono aggravati o, comunque, non sono stati risolti: salute, stranieri, immigrazione, disagio mentale, tossicodipendenze, affettività.
Il monotono scorrere della vita quotidiana in carcere con le sue attese, le sue sofferenze, le sue solitudini, le sue speranze, le sue distanze dal mondo esterno poneva allora e, forse ancora di più oggi, l’urgenza di tessere, in tutti i modi, un filo di solidarietà e di comunicazione tra “dentro e fuori” e di offrire uno “spiraglio sul mondo” a chi ne è escluso fosse pure soltanto per brevi periodi.
Scrivere, esternare le proprie emozioni e sentimenti, i propri ricordi, esige riflessione, conoscenza degli altri, di ciò che ci circonda e di conseguenza di noi stessi. È un modo ameno per uscire dal proprio io e confondersi con l’altro, con gli altri, uscire dal luogo dove si vive e lasciare respirare la mente.
Vogliamo costruire insieme un’occasione in più per dare voce all’emarginazione ed alla sofferenza e non solo per suscitare emozioni ed interesse, ma soprattutto per determinare fatti ispirati alla dignità umana, al cambiamento, alla solidarietà.
Molti hanno difficoltà, per diversi motivi, ad accostarsi alla scrittura, ma la maggior parte delle persone è desiderosa di parlare e raccontare. Proprio questa volontà permetterà loro di acquisire le necessarie conoscenze, anche con l’aiuto di esperti di comunicazione e dei “redattori” esterni, per scrivere direttamente le loro emozioni, proposte e speranze.
Il giornale vuole offrire ai detenuti del carcere di Regina Coeli ed alle persone coinvolte nel progetto una possibilità di confronto che stimoli la fantasia, induca alla riflessione e, perché no, provochi la gioia di una risata tutti insieme nel lavoro di stesura del giornale.Associazione “A Roma, Insieme”
Via Sant’Angelo in Pescheria 35 – 00186 Roma – Italia
Tel/Fax +39 06 68136052 – email: aromainsieme@libero.it – www.aromainsieme.org
C.F. 96219460589 -
da “L’Anarchico e il Diavolo fanno cabaret” di Norman Nawrocki (pp. 3-5)
I saw myself, held myself, hand to hand
Headless, I, too, walked in this strange new land.In genere, avrei nascosto il mio diario sotto il letto, sperando che nessuno osasse guardarlo. Adesso, invece, vi chiedo di darci un’occhiata. Scorrete rapidamente le pagine. Leggete cosa succede quando quelli del mio gruppo e io decidiamo di iniettare un po’ di rock’n’roll canadese, anarchico, importato, nelle braccia aperte dell’Europa. Dal vivo, come Rhythm Activism, mettiamo in scena un cabaret politico di alto livello che assicura di scuotere, turbare e mettere in discussione. Come? Prendiamo il meglio del cabaret tradizionale europeo, lo combiniamo con il peggio della tv americana, vi gettiamo dentro una musica tradizionale e all’avanguardia piena di sorprese, aggiungiamo un po’ di farsa, costumi e maschere e rinforziamo il tutto con un messaggio sociale impegnato. Facciamo anche ballare la gente, da Berlino a New York. Sulla carta, è dura riprodurre l’energia e il puzzo di quattro ragazzi che suonano come se ogni show fosse l’ultimo, come se ogni parola, ogni movimento delle dita e delle mani contasse quanto un battito del cuore o un respiro. Sul palco, il mondo reale arretra, e si ferma. Il mal di testa scompare. Il cibo unto e nauseante prima dello show non c’è mai stato. Se non fa parte della scaletta, dimenticalo. Quello schizzo di sangue? Mettilo in scena. Il microfono inclinato, l’amplificatore fumante, la corda sfasata, i calzini umidi e sudaticci, i cavi: fottuti cavi economici in sconto, mai che funzionassero bene, maledetti – questo mondo conta. Sono cruciali le qualità di esecuzione della plastica, della gomma, del metallo, del legno, delle corde vocali, dei muscoli e delle ossa – questo è importante. Una stonatura fa male. Trecento paia di orecchie possono non farci caso, ma le tue sì. Fai un casino, e i compagni della band sanno essere implacabili. Dai di più della notte precedente e forse nessuno se ne accorge. Perché sul palcoscenico, per quell’ora o due di questa sera, conta la verità del tuo La vibrante, conta la resa, la sostanza di ciò che stiamo cercando di dire, conta ogni emozione guidata dall’istinto. Non esiste nient’altro. O almeno, questo è ciò che ci convinciamo a credere. Ma la musica, il teatro, lo slancio ad esibirsi sono solo una parte di questa storia a volte triste, a volte esilarante, di uno speciale tour europeo visto attraverso i miei occhi iniettati di sangue. Il resto – i momenti che stanno in mezzo – ha poco a che fare con il mondo della musica, della scenotecnica e della cultura d’avanguardia della band. Il resto sono ‘fiabe urbane’. Parlano della nuova sottoclasse multietnica europea: i poveri che lavorano, gli immigrati, i giovani emarginati e i vecchi che vivono nell’ombra. Per loro non ha importanza la nostra musica, non conta la nostra capacità d’interessare il pubblico, né il nostro tentativo di contribuire a promuovere la ‘resistenza culturale’. L’Europa ama gli artisti che la visitano, e ci tratta bene. Ma quando mai l’Europa è stata generosa con i rifugiati, con i Rom, con i lavoratori immigrati, con i sempre fedeli Slavi, con le donne che lavorano per le strade e i mendicanti che tengono i marciapiedi sgombri da mozziconi di sigarette e torsoli di mele? In un mondo di fantasia globalizzata, queste persone rappresentano il nuovo volto sfregiato dell’Europa: incerto e insicuro, carico di un disincanto crescente. Riflettono un’Europa in movimento, segnata da tensioni politiche e razziali nel momento in cui est e ovest, vecchio e nuovo, competono per il futuro ricordando il passato. Questo libro è stato scritto tra un soundcheck e l’altro, caricando e scaricando l’attrezzatura della band, sorseggiando birra. Ho trascorso il mio tempo con decine di ragazzini di strada, prostitute, barboni e senzatetto che incontravo sulle panchine dei parchi, nei caffè alle stazioni degli autobus e nei vicoli puzzolenti dietro ai locali in cui suonavamo. Tra cibo e bevande condivise, ascoltavo. Queste conversazioni diventavano storie vere e racconti incredibili – la realtà di gente a cui nessuno di solito dava ascolto. Benché non possa rivedere queste persone, potrebbero essere i miei vicini o i vostri, la donna licenziata la scorsa settimana o il tipo che invecchia sulla panchina alla fermata dell’autobus. Potrebbero stare fra il pubblico del nostro prossimo tour o sulla prima pagina di un giornale a chiedere a gran voce Lavoro, Cibo, Pace e Giustizia.
In questo libro ho cambiato i nomi e le caratterizzazioni dei membri della band. Tra le pagine del diario ci sono lettere di uno zio a mio padre. Pensavo che queste lettere fossero scomparse, ma sono riemerse in tempo per essere incluse nel libro. Vedete, questo non è stato un tour normale. Mio padre malato mi ha chiesto di rintracciare suo fratello di cui non aveva notizie da anni. Gli ho detto che avrei provato. Siamo un gruppo, e la nostra musica vive di video, di CD e di Internet. Ogni tanto impareremo che la nostra musica ispira gli ascoltatori, li trasforma in sostenitori e li aiuta a rafforzare o a dar vita alle loro visioni di un mondo nuovo, più libero e più onesto. Vorrei pensare che queste storie daranno pure vita a visioni diverse, anche se per un solo momento – quel momento in cui verità e finzione, realtà e sogno diventano indistinti, in cui i sogni degli stranieri, i sogni di quelli del mio gruppo, i sogni dei miei amici e i vostri sogni, cari lettori, vengono liberati, mettono radici e crescono. Unitevi a me e al Diavolo e lasciate che questo cabaret abbia inizio.Norman Nawrocki,
Montréal, 2002 -
Le canne non si spengono per decreto
di Massimo De Feo (da ALIAS N. 6 – il manifesto, 11/02/2006)
Contro ogni evidenza scientifica, e contro il buon senso, il governo ancora in carica ripropone una legge contro le «droghe» che garantisce all’Italia un balzo indietro di mezzo secolo, quando per qualche spinello si poteva finire in galera per anni, come testimonia il piccolo, ma solo per dimensioni, libro scritto dall’attore Pierre Clémenti, rinchiuso agli inizi degli anni Settanta per 18 mesi nei carceri romani di Regina Coeli e Rebibbia. Ormai introvabile nell’edizione italiana, Quelques messages personnels è stato ristampato in Francia pochi mesi fa, e ora è alla ricerca di un editore italiano che lo rimetta in circolo. Vuole proibire, reprimere, punire, incarcerare i «drogati», non ci sono solo bassi calcoli elettorali, quanto il ricordo e la paura di quella «rivoluzione psichedelica» che per qualche tempo mise all’angolo ogni principio di autorità basato sulla forza e sulla prepotenza, affermando invece tolleranza, amore, rispetto per la natura, fiducia negli esseri umani, solidarietà, democrazia comunitaria, spiritualità non fondamentalista, pacifismo… Sono queste «utopie», queste «allucinazioni» a turbare i sonni e a rendere paurosi i tunnel nei quali si sono rinchiusi i reazionari di ogni colore. Ogni anno in Italia il consumo di alcool causa la morte di circa 40.000 persone, mentre altre 80.000 ne fa fuori il tabacco. Tutte le altre droghe messe insieme sono responsabili forse di mille decessi. Dov’è l’«emergenza droga»? Non c’è nessuna emergenza. C’è un problema, ma questo non può essere affrontato con ideologie d’accatto e bugie all’ingrosso. Dire che tra droghe pesanti e leggere non c’è differenza, prima che falso è criminale. Dire che la marijuana fa male alla salute è una balla in malafede, come testimoniano tutti gli studi promossi a più riprese dal governo degli Stati Uniti, come della Gran Bretagna e di altri paesi. Proclamare solenni che «drogarsi non è un diritto!» fa ridere: sono millenni che l’umanità ricorre al mondo vegetale per alterare la propria coscienza, vedere più in là, sperimentare, sognare, crescere, guarire, progredire, evolvere… Un tempo queste sostanze venivano chiamate sacramenti, non droghe, e come tali venivano trattati, con rispetto e timore. Non è solo questione di «riduzione del danno». Si tratta di riscoprire questa loro funzione, educare al loro corretto uso, sottrarle al narcotraffico. Alterare la propria coscienza è un diritto inalienabile di ogni essere umano. E non ci sono tantissime inquisizioni o emendamenti appesi a leggi per i Giochi olimpici invernali approvati con la fiducia in grado di impedirlo.
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La guerra di Pierre
di Cristina Piccino (da ALIAS N. 6 – il manifesto, 11/02/2006)
Era il 1971 quando l’attore francese Clémenti, a Roma a girare «Necropoli» di Franco Brocani, venne arrestato per droga. Un blitz per distogliere l’attenzione dal caso valpreda. «Cosa di meglio che quei ragazzi stranieri coi capelli lunghi, sporchi, che non lavorano», scrive il poeta della rivoluzione nel suo diario dal carcere.
Era un mattino d’estate quando i carabinieri arrivarono nella casa dell’amica che ospitava pierre Clémenti a Roma: 24 luglio 1971, decennio a venire di antagonismi liberati dal 68, una rivoluzione di cui l’attore francese era icona e protagonista. In Partner di Bertolucci lo vediamo correre per le strade della capitale, era lui che raccontava qui già il maggio francese, irrequieto, ineffabile, un’insofferenza alle regole sin da piccolo che era il suo magnetismo. Bellezza androgina, potenza d’attore, sensibilità psichedelica che poi ne farà il protagonista «naturale» del magnifico Sweet Movie di Makavejev, aveva incantato oltre a Bertolucci (col quale girerà anche Il conformista, 70) Luis Buñuel (Bella di giorno, 66, La via lattea, 69), Marc’O (Les Idoles, 64), Philippe Garrel (Le lit vierge, 69, La cicatrice interiore, 70), Glauber Rocha (Cabezas scortadas, 70), Liliana Cavani (I cannibali, 69), Pier Paolo Pasolini (Porcili, 69). Il cinema insomma che più distillava immaginario e vita, di cui vissuto e sensibilità dell’attore erano incarnazione e alchimia perfetta. A Roma Clémenti stava girando Necropoli di Franco Brocani, ancora cinema italiano che lui adorava. Pasolini, intanto, «un san Paolo a suo modo che pensa di avere come missione l’affrancamento degli italiani dalle carcasse morali e dalle regole cattoliche che li hanno castrati per secoli rendendoli vergognosi della propria sessualità». Poi Fellini, Visconti (era stato anche nel Gattopardo), De Sica…
Quella mattina Clémenti dormiva, il figlio, Balthazar, un bimbetto di cinque anni, apre la porta. È un attimo. I carabinieri frugano determinati – «i vicini si sono lamentati» diranno a motivare l’irruzione da Anna Maria, così si chiama l’amica di Clémenti, una cosa dove c’era sempre un posto per tutti, cosa che da sola basta a giudicare, a dichiarare colpevolezza. Che cercano è facile immaginarlo: droga. E la trovano, naturalmente, un po’ di hashish, un pizzico di cocaina, roba da niente (e con tutta probabilità messa da loro stessi) che basta però a portare Clémenti e Anna Maria in galera. Un po’ quello che avverrà con la prossima legge Fini. Clémenti resterà in prigione diciotto mesi di cui otto attendendo il processo al quale viene prima condannato a due anni, e poi, in appello, assolto. Ma intanto passano altri dieci mesi, dieci mesi di abbrutimento, violenza, negazione di tutto. È in questo tempo tra regina Coeli – la prigione del popolo come lui la chiama – e Rebibbia, «il carcere modello», che Clémenti scrive Quelques messages personnels, qualcosa di più che un diario o un’autobiografia, un vero racconto del carcere ma soprattutto meccanismi che lo strutturano, e di quella repressione capillare e organizzata messa in atto da carabinieri e fascisti con il supporto degli apparati mediatici. Sono gli anni dei «casi» costruiti con sapienza, delle individualità demolite per colpire il movimento che mette sempre più in crisi la supremazia di una logica politica che è solo repressione a tutto campo. Valpreda accusato di strage anche se innocente, ma anarchico, dunque colpevole. Da Braibanti, primo colpevole di dissenso fino al «caso» del quali hashish e marijuana, e un incredibile clamore mediatico di mala informazione e fanatismo anticomunista. La droga ci dice Clémenti è il pretesto, il simbolo e la sintesi con cui annichilire le figure scomode e non assimilabili alle norme. La sua scrittura ci porta dentro a tutto questo, e lo fa partire da un vissuto (in prima persona) che mai è sovraesposto ma indignato, struggente, rabbioso con la dolcezza gentile di un poeta della rivolta. Che sa bene il paese in cui si trova rinchiuso, non diverso dalla sua Francia e dal resto del mondo che cerca di difendersi da chi mette in discussione sfruttamento, privilegio, negazione della consapevolezza. L’Italia che racconta Clémenti è quella del codice fascista Rocco, delle rivolte carcerarie finite in massacro, dell’istruzione negata in carcere come il lavoro o una qualsiasi specializzazione così che chi poi esce sia costretto a rientrarci. «perché quella mattina d’estate i poliziotti sono venuti a bussare proprio alla porta di Anna Maria?» si chiede più volte nel corso del racconto. E risponde: «ci voleva qualcosa che distogliesse l’attenzione dallo scandalo intorno alla condanna di Valpreda, molto rischioso per il sistema giudiziario e poliziesco (…) Cosa di meglio che dei ragazzi stranieri coi capelli lunghi, sporchi, che non vogliono lavorare e che si drogano, questi hippie…».
A Regina Coeli carcere duro, nessun diritto, letture e posta controllati, il rischio continuo della cella di isolamento (in cui finisce anche lui). Se si risponde si diventa subito elementi pericolosi. Clémenti rifiuta il mondo, smette di parlare, di leggere, di mangiare, non vuole visite. «Dopo il silenzio, e settimane di vita vegetativa, è arrivato il momento della rivolta. La sola arma che un prigioniero ha è il suo corpo» scrive. E ancora: «ho visto cose terribili a Regina Coeli. E uomini sublimi».
Quelques messages personnels, ripubblicato in Francia dalle edizioni folio, l’edizione originale uscita nel 1973 era ormai introvabile (in Italia l’ha pubblicato il Formichiere, ormai scomparso, ora si sta cercando un nuovo editore) si compone per istantanee in cui Pierre Clémenti detenuto incontra Pierre Clémenti attore: brucianti, la stessa incandescenza distillata nei suoi film. Che entrano nello «smascheramento» del carcere insieme a altri appunti di memoria, l’erranza nelle strade di Saint-Germain, l’incontro con Jean-Pierre Kalfon, i set di Buñuel per Bella di giorno… E le donne, «le stelle filanti» come le chiama, anche quelle italiane, «del popolo», incontrate nei vagabondaggi trasteverini, lui per scelta lontano dai salotti di piazza del Popolo e in affinità coi tavolini proletari di un quartiere allora ancora segno vitale di una metropoli non del tutto spossessata di sé. Cinema e vita insomma, cioè immaginario non pianificabile, che produce inquietitudine e per questo va cancellato. Clémenti prigioniero denuda anche i suoi «interlocutori»: i direttori del carcere per tipologie, mellifluo, o «sognatore», o smascherato di gentilezza che ti rovina. I poliziotti reclutati tra poveri e ignoranti, a cui si insegna a leggere e a picchiare, caricati a anfetamina prima delle manifestazioni, stessa tecnica usata dai francesi nella guerra di Algeria. «Il sistema ha paura dell’energia di massa. Bisogna bloccarla o canalizzarla cercando con ogni mezzo di riconvertire la potenziale energia creativa in repressione». Poi c’è la speranza, che è lotta per cambiarla la prigione, e che fa di Quelques messages personnels un libro combattente a ogni passaggio. E di evasione ma dal sistema verso l’utopia, che un giorno le prigioni scompaiano, che i ministri della giustizia siano tormentati da insonnia pensandoci, e che finisca l’ipocrisia. Clémenti non sarà più lo stesso una volta fuori. «Bisogna sapere andare molto lontano» aveva scritto. Resistenza estremista, quasi un’altra sperimentazione.
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Così l’angelo nero di Buñuel a Roma scrisse le sue prigioni
di Marco Cicala (da Il Venerdì di Repubblica, 21/12/2007)
Oltre che con il regista spagnolo, Pierre Clémenti aveva lavorato con Bertolucci e Pasolini. Viveva in Italia da antidivo. Ma un giorno, come raccontò in un libro ora ripubblicato, finì a Regina Coeli per droga. Uscì un anno e mezzo dopo. Ma mai davvero.
SPESSO LE ROGNE arrivano la mattina presto. Come gli uffici giudiziari. O quelli del recupero crediti. O gli sbirri. Che il 24 luglio del 1971 irrompevano nell’abitazione romana dell’attore Pierre Clémenti e, dopo perquisizione, se lo portavano via in manette. Insieme a pochi grammi di cocaina e qualche briciola di hashish trovati, pare, nell’appartamento. È il primo atto di una vicenda non metaforicamente kafkiana che durerà diciotto mesi. Tanti ne passò in galera l’attore-icona della controcultura, faccia d’angelo ribelle che conquistò Buñuel, Bertolucci, Pasolini.Due anni dopo la scarcerazione e il ritorno coatto in Francia, Pierre Clémenti raccontò quell’esperienza in un piccolo libro, Quelques messages personnels, che adesso viene ripubblicato in italiano col titolo Pensieri dal carcere. Lacerante resoconto autobiografico-esistenziale, riflessione sul sistema penitenziario, ma anche involontario spaccato di un’Italia, quella dei primissimi 70, formicolante di beatniks e neofascisti, livori proletari e paranoie perbeniste, vecchi malavitosi artigianali e nuovi faccendieri all’avanguardia.
Nel ’71 viene svelato il tentato golpe Borghese, s’infiammano i tumulti missini a Reggio Calabria, nasce il quotidiano il manifesto, scoppia lo scandalo degli appalti Anas (una paleo tangentopoli), Cefis espugna i vertici della Montedison, entra in vigore l’Iva, Giovanni Leone è eletto presidente della Repubblica anche grazie ai voti del Msi. Annota Clémenti, candidamente: «Avevo letto da qualche parte che Giovanni Leone, il presidente della Repubblica italiana, era stato avvocato, e mi dicevo: ecco uno che ha potere e conosce la realtà delle carceri. Farà qualcosa…». E invece, imputato si alzi: «Ai sensi della legge numero… lei è accusato di detenzione e uso di stupefacenti, avendo il rapporto di polizia stabilito…». Due anni di reclusione.
Clémenti ama l’Italia «pasoliniana» dei bulletti fragili e spavaldi, delle mamme arcaiche, dei terroni inurbati, delle mogli generose ma vendicative («Sanno bene che qualche volta l’uomo va con una puttana. Ma poi torna. E, se non torna, strappano ciò che difendevano. Impazziscono. Nelle carceri italiane ci sono centinaia di Medee». Ama quanto resta della savia e scollacciata plebe capitolina, quella che per secoli ha cantato il carcerato come un eroe a metà tra Virgilio e Gioacchino Belli («Dal cortile della prigione si scorge una terrazza della città dove ogni sabato le mogli, le fidanzate e le puttane dei detenuti vengono a mostrarsi nude, portando loro un po’ di consolazione»). Ama queste scorie di un’umanità in via di sparizione. E, da dietro le sbarre, gli piacciono ancora di più. Regina Coeli è Roma: «Per quanto spesse ne siano le mura… Essa è attraversata dalla vita della città, dai suoi rumori, dai suoi odori e persino dalle sue visioni».
Ma più toccante è forse la rievocazione dell’universo giudiziario di quegli anni. Immaginatevi una specie di Rimbaud-hippie finito da Parigi dentro un’aula di tribunale romano nel ’71: un suk togato fatto di avvocaticci paraculi col ghigno di Vittorio Gassman, giudici col cipiglio di Gino Cervi rimasti lì dal Ventennio, carabinieri coi baffi di Tiberio Murgia o Vittorio De Sica.
De Sica che, insieme a Fellini, andò a deporre in difesa di Clémenti. Ma niente da fare. Perché il bel Pierre è un tipo strano, troppo strano per un posto come Roma che, malgrado l’atavica noncuranza, resta pur sempre un paesone. Dove la gente mormora. I vicini protestano. Nella casa in cui abita Clémenti fa festa fino all’alba. Si incrociano ragazze nude sul pianerottolo. Grida d’amore risuonano. Poco importa se l’imputato si proclami innocente, occasionale fumatore di hashish ma contrario alle droghe («Non sono un viaggio ma una prigione»): Clémenti Pierre, «nato il 28 settembre 1942 a Parigi, XIV arrondissement, alle sei del mattino» da padre ignoto e madre portiera, ha capelli lunghi e barba, personalità e condotta che «dimostrano una predisposizione fisica e psicologica alla detenzione e al consumo di stupefacenti».
Ha lavorato con registi di fama, ma in film che all’epoca si chiamavano d’essai, perciò non ha un soldo. Il che lo rende massimamente sospetto. In carcere si arrovella, imbastisce teorie cospirazioniste («L’anarchico Valpreda si trovava in galera, da tempo si era certi della sua innocenza e la stampa dava grande rialto a questo scandalo… L’apparato di Stato italiano aveva bisogno di un diversivo»), spera, protesta, si tormenta («Il regime penitenziario è la negazione dell’essere umano… Significa far tornare l’uomo allo stato di feto, perché si riconverta in macchina benpensante… L’individuo che esce di prigione è minuziosamente fabbricato per farvi ritorno»). Considerazioni che riecheggiano il dibattito di quegli anni sul carcere, l’istituzione totale, Goffman, Focault… E che, le si condivida o no, ci ricordano quanto oggi la riflessione sulla prigione sia spaventosamente latitante.
Per Buñuel, Clémenti fu il diavolo-angelo della Via lattea e lo sprezzante amante tutto cuoio della Deneuve in Bella di giorno. Per Bertolucci lo sdoppiato rivoluzionario di Partner e lo chauffeur omosex del Conformista. Per Pasolini il cannibale di Porcile. In Italia iniziò col Gattopardo di Visconti, raccomandato da Alain Delon. Disse no a Fellini per Satyricon. Lavorò con la Cavani, Glauber Rocha, Jancsò, Makavejev, Ivory… Alla fine uscì dal carcere per insufficienza di prove. Ma in fondo non ne venne più fuori. Nemmeno con quel libro, quello sfogo terapeutico. È morto a Parigi nel ’99 per un tumore al fegato.
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Pratt sul Nilo
| Il Sole 24 Ore | Lunedì 11 febbraio 2008 | Paola Caridi |
Esce la prima graphic novel egiziana, tra thriller e denuncia sociale. E tra i modelli, c’è anche il papà di Corto Maltese.È tutto dentro una frase. “Devi rendere sporca anche una rapina in banca”, dice Mr. Shihab, rapinatore ‘costretto’, software designer di professione, quando il politico corrotto gli propone un accordo per salvare la pelle e i soldi appena ricevuti come tangente, durante il colpo in banca. Devi sporcare tutto, anche quello che è già sporco, dice Mr. Shihab. E quella sentenza trasforma il politico corrotto nell’icona stessa della corruzione. Nel simbolo da esporre al pubblico ludibrio.
La prima graphic novel in versione egiziana non dimentica il fervore politico degli ultimi tre anni. Anzi. È proprio dal ribollire sociale e culturale che ha preso la sua “forza”, ammette Magdy al Shafee, l’autore di Metro, romanzo a fumetti ambientato in una Cairo appena evocata attraverso i simboli contemporanei della strada. Dai cartelloni pubblicitari all’insegna della metropolitana, dai telefoni pubblici ai ponti sul Nilo. Come a Shafee ha insegnato uno dei suoi maestri, il basco Golo, cartoonist anche lui di stanza al Cairo.
La trama è quella tipica di un giallo, riempita da una malinconia che ricorda uno dei maestri italiani del fumetto. “Sì, è vero, Hugo Pratt è stato uno dei miei modelli più importanti”, dice Magdy al Shafee, che a raccontare idee attraverso le immagini ci pensava sin da bambino. “Pratt mi ha insegnato che si può inserire un contenuto profondo in un’atmosfera da thriller”. E quel finto cinismo del padre di Corto Maltese c’è tutto, nel tratto elegante che narra la storia di due ragazzi del Cairo, magri, capelli corti, maglietta e jeans, costretti in una società imprigionata dall’”arrendevolezza”. “La trappola peggiore”, commenta Shafee.
Mr. Shihab, il software designer, non riesce a ripagare il debito contratto con un usuraio, e decide che la rapina in banca è l’unica strada che gli rimane. Poi il colpo, la giustizia popolare verso il politico corrotto, e il giorno dopo, nessuna notizia della rapina sulla stampa del Cairo. Forse per coprire il corrotto. La storia, però, non ha il lieto fine che ci si aspetterebbe: Mustafa, l’amico di Mr. Shihab, un ragazzo semplice della periferia cairota, se ne va. Con la refurtiva. “Me lo avevi detto tu, che dovevo liberarmi, e uscire dalla trappola”, gli dice ironico al telefono, mentre sta per prendere un aereo. Destinazione sconosciuta.
L’umanità del Cairo descritta da Shafee è tutto fuorché lo stereotipo corrente. Ricorda, semmai, le dimensioni urbane occidentali, la frammentazione. “Ma la colpa di questo stereotipizzazione degli egiziani non è della gente comune. È della generazione precedente che non ha mostrato l’altra faccia della storia. Di quello che stava accadendo da noi”, precisa Magdy al Shafee, a pieno titolo esponente di quell’underground (termine riduttivo, a dire il vero) artistico e culturale che va in onda al Cairo almeno dal 2004. Anche lui, figlio di quella blogosfera egiziana che a tutti gli effetti rappresenta un dissenso fecondo quanto quello dell’Europa orientale pre-1989.
I blog hanno cambiato tutto. “Non c’è bisogno di accennare le cose, di parlare tra le righe”, spiega Shafee. “Parliamo sulle righe, attraverso le righe”. Righe virtuali certo, quelle dei blog, ma pesanti quanto quelle sulla carta. E non è per nulla casuale che Metro, graphic novel di livello, sia uscita in Egitto attraverso una casa editrice nuovissima, nata appunto dal mondo dei blog. “Avevo ricevuto, a dire il vero, due offerte importanti. Una dalla casa editrice che pubblica grandi scrittori, come ad esempio Sonallah Ibrahim. E una da Dar Merit”. Dar Merit, editore di punta dei nuovi scrittori, il primo editore di Alaa al Aswani. Niente da fare. Shafee ha preferito pubblicare con un marchio piccolo, Malamih, ma immediatamente riconoscibile da quella generazione di ventenni che sta emergendo al Cairo.
Malamih è l’espressione del mondo dei blog. Anzitutto per il suo fondatore, Mohammed al Sharqawi, uno dei blogger politici più conosciti del paese. Protagonista, quasi due anni fa, delle proteste di piazza dell’opposizione a Hosni Mubarak, Sharqawi era stato arrestato e aveva accusato la polizia egiziana di averlo torturato, scatenando una campagna anche internazionale per difenderlo e farlo scarcerare. Ora, a due anni distanza, Sharqawi si è imbarcato assieme a sua moglie in un’avventura che dal messaggio virtuale passa alla dimensione fisica del libro. “Malamih è nata pochi mesi fa dal blogging, perché i giovani scrittori hanno prima usato la rete, strumento a poco prezzo, per esprimersi. Ora, li pubblichiamo su carta. In nome della letteratura libera e della libertà di espressione”, dice Nayra Sheykh, orgogliosa di un’avventura, e sostenuta da un pubblico che ha poco più di vent’anni. La stessa età, suppergiù, di Mr. Shihab e del suo amico Mustafa. -

Da dietro una ruota, una sincera panoramica del Cairo
di Jill Carroll (The Christian Science Monitor, 13 dicembre 2007)Un bestseller che offre sorprendenti critiche della società egiziana e del suo governo attraverso le voci dei taxi driver.
Il giornalista Jill Carroll discute con i tassisti del Cairo. Il tassista Ahmed siede dietro un volante rivestito in finta pelle di leopardo. Una scatoletta rovesciata di tessuto attaccato al soffitto pende accanto alla sua testa. Come la maggior parte dei tassisti Cairoti, ride facilmente, ed è sempre disposto a discutere dei pericoli del suo lavoro – che chi ha vissuto per un perido in questa fumosa città sa che sono numerosi.
Dice di essere stato sbattuto via, derubato, e preso in giro dalla polizia. “sento che a causa loro la mia dignità si è spezzata”, dice a proposito della polizia della città, che “è molto dura con me”.
Come molti egiziani – che ha due o tre posti di lavoro per far quadrare il bilancio – Ahmed guida il taxi solo per guadagnare abbastanza per sostenere la sua famiglia.
Durante i suoi studi per la Laurea in Ingegneria informatica, ha passato gli ultimi quattro anni a trasportare passeggeri per pagarsi le tasse, di cui il 75% del guadagno andava al proprietario del veicolo. E pagava anche la benzina.
Ma “se lavorassi sfruttando la mia laurea guadagnerei solo $ 21 al mese. E non mi basterebbero neanche per le sigarette”.
La storia di Ahmed non è unica. Il suo caso avrebbe potuto facilmente essere stato preso da una storia del nuovo libro di Khalid al-Khamissi, “Taxi, Tales of Rides”, un best-seller che sta sorprendendo molti Cairoti per la sua visione della vita vista dal sedile posteriore di un taxi.
Nel suo primo libro, che è stato ristampato sette volte e ha venduto più di 30000 copie, il Sig Khamissi offre una vista variopinta sulla vita media egiziana, attraverso 58 dialoghi tra lui e i taxi driver.
È un romanzo, che attraverso le parole semplici del lavoro giornaliero dei tassisti, sviscera commenti sociali e politici, un approccio un pò audace qui che la censura è un problema reale. Ma la sua audacia ha fatto volare gli incassi nelle librerie egiziane.
Mentre la maggior parte dei titoli egiziani sono scritti in arabo classico, Khamissi mantiene la forma al minimo e impiega il dialetto egiziano colloquiale a tutti i dialoghi che si svolgono in taxi. In tal senso, il medium enfatizza il messaggio.
“La gente in strada o la gente [elegante] nei club, fa le stesse discussioni”, dice Khamissi, nel suo appartamento del Cairo. I dialoghi del libro intendono rappresentare un panorama della società egiziana nel 2006, spiega l’autore. “L’idea principale è quella di raccontare ciò che sono state le principali storie in Egitto nel corso del 2006 attraverso un eroe e questo eroe è un taxi driver.”
Mentre Ahmed potrebbe essere stato affascinante, i tassisti del Cairo sono un improbabile scelta per un simpatico personaggio. Dal punto di vista del passeggero, hanno la reputazione di essere avidi, si battono per le tariffe – tariffe che sono determinate dalla contrattazione – e sono selvaggi alla guida.
Per le donne, sedute accanto all’autista diventa spesso un invito al tassista per lasciare vagare le mani e per conversazioni suggestive. I luoghi comuni per i tassisti sono materia da leggenda.
Ma Khamissi offre una visione più equilibrata dei tassisti. I dialoghi regalano delle sorprendenti critiche della società e del governo, oltre ad approfondimenti sulla vita media.
“C’è stato un grande dibattito in arabo [letterario] nei circoli di impegno politico… si tratta di onde. Molti scrittori egiziani vedono se stessi come politicamente impegnati”, afferma Deborah Starr, un professore associato, che si è specializzato nella letteratura moderna araba presso la Cornell University Dipartimento di Studi sul Vicino Oriente.
Khamissi sembra a suo agio in questo genere di critica politica, anche se afferma che non era il suo obiettivo. In un passaggio, un taxi driver critica il presidente Hosni Mubarak, per nome, generalmente è una cosa che gli scrittori non fanno mai.
Mentre molte delle critiche riguardanti il governo in “Taxi” sono espresse privatamente tra gli egiziani, il dissenso è di solito vago e raro. Khamissi dice di non aver affrontato nessun contraccolpo a causa del libro, anche se un giornalista televisivo ha detto di essere stato avvertito dalla madre che aveva letto il libro, a non intervistare Khamissi.
“Si tratta di un articolata e divertente… critica” della società e della politica in Egitto, dice al Cairo Press, Mark Linz, direttore dell’Università Americana, che pubblica ora una serie di libri di letteratura araba in lingua inglese. ” è unico perché utilizza l’umorismo. Per delle questioni che gli egiziani tendono a prendere molto sul serio”.
Khamissi dice di non essere un’analista, ma molti dicono che la popolarità del libro viene dal fatto che “ognuno si ritrova nel libro [quando hanno letto il libro.] Ogni lettore ci legge la propria esperienza.”
(traduzione di Chiarastella Campanelli)
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Riciclaggio: nove miliardi di $ lavati nel software
| Italiasvegliati | Lunedì 23 aprile 2007 | Francesco Mangascià |
In accordo con il Times News network, dieci businessmen indiani assieme ai loro complici europei, si son presi gioco della giustizia, con l’aiuto della First Curaçao International Bank, nonostante questa fosse stata interdetta nel Settembre del 2006, per le evidenze esposte dalle autorità del Regno Unito, grazie anche all’aiuto degli investigatori olandesi, che provavano la sua complicità nell’aiutare uomini d’affari europei e indiani, a riciclare il denaro sporco di uomini di affari europei e indiani.
Il percorso del denaro, ha rivelato agli investigatori che questa banca, ha spostato il denaro riciclandolo in diverse banche in tutto il mondo, inclusa la United Bank of Switzerland, UBS.
Mentre l’interdizione ricevuta obbligava la First Curaçao International Bank a sospendere i suoi affari in occidente, la stessa seguitava ad operare a Bangalore, sotto la copertura della Transworld ICT Solutions Pvt Ltd, un operazione di software, di proprietà di un olandese John Deuss, che casualmente era uno dei direttori della First Curaçao International Bank.
Quando gli investigatori indiani, hanno sequestrato il server della Transworld ICT, hanno scoperto che questa società di software era solo la foglia di fico, che doveva coprire ogni operazione di riciclaggio.
Questa associazione a delinquere transazionale, ha fino ad ora operato riciclando il denaro sporco all’interno di società che operano all’interno del mondo del software; secondo fonti attendibilissime, in pochi mesi attraverso queste operazioni sono stati riciclati 9 miliardi di $.
La stampa italiana da un po’ di tempo, lustri, non si può certamente definire una stampa dinamica, ma tacere anche adesso su certi consulenti e certe amicizie, significa essere anche conniventi.

