Categoria: 9788887847635

  • L’Espresso (Emanuele Coen, 24 aprile 2019)

    L’Espresso (Emanuele Coen, 24 aprile 2019)

    “In Francia il dialogo è morto” 

    Identità, religione, antisemitismo, islamofobia. Colloquio con Saphia Azzeddine, scrittrice franco-marocchina, alla vigilia dell’uscita del suo nuovo romanzo, “Confidences à Allah”. L’occasione per riflettere su alcuni temi che attraversano la società contemporanea, tra pregiudizi, cliché e conflitti generazionali 

    di Emanuele Coen (24 aprile 2019)

    Jbara è giovane, povera e oppressa, rifiutata dalla famiglia e dal padre ignorante e brutale. Maltrattata dagli uomini scopre la propria bellezza, si prostituisce, finisce in prigione, sogna di fuggire lontano. Allah diventa il suo unico confidente, il solo in grado di comprendere le sue frustrazioni, la sua rabbia incontenibile. Jbara è una donna pastore, vive sulle montagne del Maghreb, ma la sua storia assomiglia a quella di tante altre donne, dal massiccio dell’Atlante alla periferia di Parigi.

    Una vicenda universale, raccontata attraverso un vibrante monologo: “Confidences à Allah”, il nuovo libro di Saphia Azzeddine(uscirà in Francia il 24 aprile per Stock) è la nuova edizione ampliata del romanzo d’esordio (2008) della scrittrice, regista e attrice franco-marocchina, grande successo poi diventato pièce teatrale e graphic novel. «Qualche tempo fa ho riletto il mio libro. Ho sempre amato la mia eroina, la sua verve, la sua violenza, il suo senso dell’umorismo. Merita di più, ho pensato. Non di meglio ma di più. Forse all’epoca l’argomento del libro aveva preso il sopravvento sul libro stesso. Riscriverlo è stato un modo per riequilibrare la situazione», dice Azzeddine, 39 anni, nel salotto della sua casa parigina. 

    La protagonista di “Confidences à Allah” abita in Maghreb o in Francia?
    «Jbara abita in un Paese musulmano, probabilmente in Maghreb, ma non ho voluto indicare un luogo preciso affinché la storia avesse un valore universale. Una donna precaria che abita alle porte di Parigi potrebbe vivere la stessa situazione, gli stessi stati d’animo. Era sui giornali qualche tempo fa: ragazze costrette a offrire prestazioni sessuali  in cambio di una stanza o un piccolo appartamento. È rassicurante pensare il Maghreb come luogo lontano, ma prostituzione e miseria hanno lo stesso odore a tutte le latitudini, nella banlieue di Parigi e in Marocco». 

    La protagonista di un altro suo romanzo, “La Mecca-Phuket” (uscito in Italia per l’editrice Il Sirente), decide di riappropriarsi della religione sovvertendo le regole. Nella comunità musulmana francese esiste un conflitto tra generazioni? 
    «Certo. Per certi aspetti è triste: spesso i giovani sono molto meno aperti dei loro genitori. Molte ragazze portano il velo, mentre le loro madri non l’hanno mai portato. Una sorta di ripiegamento identitario, se non addirittura religioso, che era stato del tutto superato. Non è il caso della protagonista di “La Mecca-Phuket”, Fairouz, una giovane musulmana che invece di andare a chiedere perdono a Allah alla Mecca decide di ringraziarlo a Phuket, l’isola thailandese. Sta qui il punto, raccontato in chiave ironica, comica: la differenza tra temere Dio o ringraziarlo. Religione non è sinonimo di privazione ma vuol dire rendere omaggio a Dio e, per farlo, recarsi in un bel posto, volersi bene. Credo che in questo consista il coraggio e la modernità del mio libro».

    Quale tipo di educazione ha ricevuto?
    «Siamo musulmani, ma mio padre ha sempre detto: non spenderò un franco  per la religione se posso investirlo nella formazione dei miei figli. Sono cresciuta con questa visione del mondo: sono contenta delle mie origini, ma non in maniera cieca».

    Come definirebbe la sua identità? 
    «È una questione che non mi sono mai posta e rifiuto di pormi. Già da tempo Francia il tema dell’identità è diventato di moda, generando ogni giorno una nuova polemica. Adorano domandarti: “Si sente prima francese o prima musulmana?”. Non ho opinioni al riguardo: mi adatto alle leggi e alle consuetudini del Paese in cui abito, ovunque si trovi, il resto riguarda la sfera personale. Non entro mai nel dibattito religioso o identitario, credo che in Francia e nel resto d’Europa questo tema abbia ormai un peso eccessivo. Sono a favore della laicità dello Stato». 

    L’arroccamento identitario può essere la reazione all’ostilità diffusa. In Francia si moltiplicano gli episodi di antisemitismo. Cosa ne pensa? 
    «L’antisemitismo è un tema importante ma non nasce nella banlieue. Esistono leggi contro l’antisemitismo, l’islamofobia, il razzismo. La cosa più preoccupante, in ogni caso, è l’assenza di dialogo. Chi non vuole alzarsi in piedi per osservare un minuto di silenzio per un ebreo ucciso, o chi rifiuta di cantare la Marsigliese viene escluso, additato al pubblico ludibrio. Io invece voglio capire perché ha compiuto un simile gesto. In Francia, invece, chi vuole capire viene stigmatizzato come se avallasse certi comportamenti. Oggi viviamo nella società delle emozioni, anzi delle iper-emozioni, che annichiliscono la ragione. Non voglio limitarmi al piano emotivo ma riflettere razionalmente, dare la parola a chi non la pensa come me. In Francia purtroppo non c’è più dialogo, non interessa a nessuno ascoltare l’altro».

  • Ebe Pierini, “ItalNews” (25 aprile 2017)

    Ebe Pierini, “ItalNews” (25 aprile 2017)

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzeddine

    L’indomita Fairouz in bilico tra tradizione ed emancipazione nella banlieue francese

    di Ebe Pierini, “ItalNews” (25 aprile 2017)

    La Mecca-Phuket (S. Azzeddine)Nel quartiere la definiscono sfrontata. Lei si definisce fiera e indomita.

    Non ero fiera di essere musulmana, ma semmai musulmana e fiera in generale.

    Non è un’eroina moderna la protagonista del romanzo di Saphia AzzedineLa Mecca Phuket” (Il Sirente). Fairouz è una ragazza normale, figlia di immigrati marocchini che vive in una banlieue francese. Una di quelle che da almeno un paio d’anni a questa parte sono divenute famose perchè da lì provenivano alcuni terroristi islamici e perchè è lì che maggiormente si incancrenisce la mancata integrazione che a volte partorisce l’estremismo.

    La sua è una lotta quotidiana contro la docilità, quella che le imporrebbe la sua cultura. In bilico tra la voglia di emanciparsi e l’amore per la sua famiglia. Quello stesso amore che nutre verso i suoi genitori che la spinge a mettere da parte dei soldi, con la complicità della sorella Kalsoum per regalare loro l’hajj, il pellegrinaggio islamico a La Mecca perchè possano finalmente vedere e toccare la Ka’ba e non essere più additati dai vicini in quanto ancora non hanno ottemperato ad uno dei pilastri dell’Islam.

    Da un lato il senso del dovere e del rispetto e quel salvadanaio che si riempie. Dall’altro la voglia di evadere, di regalarsi un sogno. Nel mezzo c’è l’odore dei piatti tipici marocchini, c’è l’atmosfera delle banlieue, c’è la difficoltà degli immigrati di integrarsi.

    Geniale l’idea dell’autrice di scegliere di attribuire ai genitori un linguaggio che è volutamente un ibrido tra il loro idioma originario e quello del Paese che li ospita. Così come è schietto, diretto, sfrontato, in alcuni momenti anche volgare il modo di esprimersi della protagonista. Ma è esso stesso ribellione ad uno schema, è esso stesso una forma di indocilità.

    Un romanzo che ci costringe ad interrogarci sulla condizione delle donne che vivono in determinati contesti famigliari e religiosi. “Sono passate dalla corda per saltare al fasciatoio, senza passare dalla casella baci rubati” sentenzia con amarezza Fairouz parlando di tante ragazze provenienti da famiglie di immigrati. Lei che scandaglia a fondo anche il rapporto tra uomo e donna. “Siamo l’una la metà dell’altro, ce la giochiamo a metà e ci godiamo il risultato a metà. Nelle religioni, le donne subivano sempre di tutto, come se Dio ce l’avesse personalmente con loro per qualcosa. Ma la mela e quella storiella che ne è derivata, può convincere all’inizio. Ma poi Walt Disney ha fatto un sacco di capolavori che trasformano quella storia in una boiata. Che cosa abbiamo mai fatto che non abbiano fatto anche gli uomini, a parte generali in quande quantità?” si chiede.

    Una storia che ruota attorno a questa colletta per regalare l’hajj ai genitori che si chiude con un finale inatteso. Uno stile fluido e piacevole quello della Azzadine che dimostra in questo romanzo di saper trascinare il lettore dalla prima all’ultima pagina senza annoiare mai.

  • Riccardo Michelucci, “Avvenire”, 8 aprile 2017

    Riccardo Michelucci, “Avvenire”, 8 aprile 2017

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzeddine

    Intervista. La scrittrice Saphia Azzedine: banlieue, la rabbia non è islam

    di Riccardo Michelucci, “Avvenire”, 8 aprile 2017

    Nel suo nuovo romanzo la giovane scrittrice affronta con tono leggero gli stereotipi sulla sua religione.

    «Credevo in Dio. Facevo il ramadan. Non mangiavo maiale. Non bevevo alcool. Ero vergine. Non sparlavo. Cioè, solo un po’. Ero quella che si chiama comunemente musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno. Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti».

    Un fiume interrotto di parole condito da una vena ironica e a tratti irriverente ci racconta la realtà odierna delle banlieue parigine e la vita degli immigrati marocchini in Francia, dei quali si sente parlare quasi esclusivamente attraverso i fatti di cronaca. La voce narrante è quella della giovane Fairouz, protagonista di “La Mecca-Phuket“, il romanzo della scrittrice franco-marocchina Saphia Azzeddine, appena uscito in italiano per l’editrice il Sirente (pagine 130, euro 15,00). Fairouz vive con la famiglia a Créteil, un sobborgo di Parigi, in «un casermone dove i pettegolezzi facevano da fondamenta e il cervello da cemento» e desidera emanciparsi dalle origini arabomusulmane.
    Un giorno decide insieme a una sorella di raccogliere i soldi necessari per regalare il sogno di una vita ai devoti genitori: il hajj, ovvero il pellegrinaggio islamico canonico alla Mecca. Ma finirà invece per spendere quei soldi in altro modo, cioè prendendo dei biglietti per andarsi a divertire in un resort di Phuket, in Thailandia.

    «Alla fine preferirà ringraziare Dio per i piccoli piaceri della vita, invece che chiedergli perdono», ci spiega Azzeddine. Dopo i precedenti romanzi Confidences à Allah e Mio padre fa la donna delle pulizie (quest’ultimo tradotto alcuni anni fa da Giulio Perrone editore), La Mecca-Phuketcompleta la trilogia che la scrittrice ha dedicato al confronto con la sua religione, un tema apparentemente complesso del quale riesce a parlare in modo disincantato e divertente ma non frivolo, convinta com’è che non sia necessario essere sempre seri o, peggio, arrabbiati, quando si parla di religione.

    Nata ad Agadir nel 1979, Saphia Azzeddine ha lasciato il Marocco a 9 anni e da allora vive in Francia, dove lavora anche come attrice e regista. Ha sei romanzi all’attivo, «e il settimo già consegnato all’editore», precisa. Da quello di esordio sono stati tratti una pièce teatrale e un fumetto, da La Mecca-Phuket persino una trasposizione cinematografica. Quest’ultimo presenta anche una particolare attenzione al linguaggio, e ci fa conoscere i codici linguistici nati nelle periferie disagiate con funzioni di riconoscimento identitario e generazionale.

    In questo caso è stata una precisa scelta dovuta all’ambientazione del romanzo?
    «Per la verità no. Di solito non costruisco niente, non programmo alcunché prima di mettermi a scrivere, né come né quanto, e scrivo sempre in modo molto spontaneo. In tutti i miei romanzi mi sono sforzata di anteporre i personaggi a me stessa. Sono io ad adattarmi alla loro vita, e quindi anche al loro modo di esprimersi».

    Fino a che punto il personaggio di Fairouz è ispirato alla sua personalità? Ci sono altri elementi autobiografici nella storia?
    «Io sono dentro tutti i miei personaggi, non mi nascondo mai dietro la finzione. Li amo e li comprendo. Non necessariamente la penso sempre come loro, però. Fairouz mi assomiglia perché ha la mia stessa rabbia ma anche un suo modo molto personale di concepire Allah, che la porta molto più spesso a ringraziarlo piuttosto che a chiedergli scusa».

    Cosa pensa dell’attuale situazione nelle banlieue francesi?L’immagine che si ha dall’esterno, forse superficiale, è quella di una realtà esplosiva che la politica non sa affrontare, e che anche per questo si incancrenisce col tempo.
    «È una situazione difficile, certo, ma non soltanto a causa del malcontento delle comunità e delle derive di natura religiosa, come vengono descritte tutti i giorni dai mezzi d’informazione. Il problema delle periferie è anzitutto di carattere sociale, ed è alimentato dalle ingiustizie subite dalla popolazione».

    Pensa che questo problema sia andato ad aggravarsi negli ultimi decenni?
    «Sicuramente. Le televisioni e i giornali non hanno mai smesso di costruire una sorta di islamismo immaginario che con l’andar del tempo, per reazione, è diventato realtà. Da almeno trent’anni i musulmani francesi vengono stigmatizzati, criminalizzati, se le giovani donne indossano un foulard c’è chi ne fa subito un affare di Stato. L’islam ha dimostrato di avere le spalle larghe. A forza di descrivere i padri come torturatori e aguzzini, i figli come dei bruti e le donne come persone sottomesse, c’è stato un rigetto nei confronti dello Stato e un allontanamento di queste comunità dalla vita sociale del Paese. È stata una reazione abbastanza spontanea. Senza parlare del problema della colonizzazione, un crimine che ha lasciato tracce che si sentono tuttora, dopo tanti anni».

    Cosa si aspetta dall’esito delle prossime elezioni presidenziali francesi?
    «Non so, non mi aspetto niente. Prima eravamo soliti votare per il male minore. Adesso è diventato difficile anche distinguere, siamo di fronte a dei burattini privi di anima. Qualcuno potrà anche ritenerla una posizione demagogica ma, se è così, è colpa dei politici».

  • Mangialibri, 29 marzo 2017

    Mangialibri, 29 marzo 2017

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzedine

    di Lisa Puzzella

    Quando i signori Moufakhrou sono arrivati in Francia erano entusiasti e pieni di “voglia di integrarsi”, ma la realtà li ha ben presto convinti a rinunciare. Questa scelta, secondo la loro primogenita Fairouz è stata provvidenziale perchè la loro “francesizzazione” non sarebbe certamente stata ben accolta dai ceffi che popolano i casermoni della periferia in cui vivono. Un non luogo dove le lingue dei benpensanti sono instancabili, battono indefesse la grancassa della moralità e del buoncostume. Una sorta di comitato di salute pubblica presieduto dalle beghine di quartiere si occupa della diffusione del pettegolezzo e della notifica delle critiche agli interessati. Nulla le può fermare, né ascensori rotti né i grugniti e sguardi di disapprovazione che Fairouz riserva loro ogni qual volta le osserva scambiare untuosi e ipocriti convenevoli con sua madre al mercato o mentre sono assise a cena, invitate sapendo già che criticheranno tutto, dalla quantità di grasso di montone lasciato nella tajine al fatto che i signori Moufakhrou non sono ancora haji, non hanno effettuato il rituale pellegrinaggio di purificazione a La Mecca. Proprio per sgravare i genitori dal peso dell’onta, Fairouz e sua sorella Kalsoum decidono di accollarsi l’onere di raggranellare la somma necessaria al viaggio, che consegnano scrupolosamente in piccole, sudatissime rate ad un untuoso agente di viaggi sui generis. Ma alla porta accanto alla sua occhieggia ammiccante una “vera” agenzia di viaggi che propone i lussureggianti scenari di Phuket e l’incanto dei suoi tramonti…

    La Mecca-Phuket (S. Azzedine)La Mecca o Phuket? Tajine o pentola a pressione? I valori decadenti dell’occidente e l’edonismo prêt-à-porter o la spiritualità e la solidità dei valori dei padri? Saphia Azzeddine affronta il dilemma con l’originalità a cui ci aveva abituato con i suoi precedenti libri Confessioni ad Allah e Mio padre fa la donna delle pulizie. La Fairouz a cui l’autrice presta il suo sguardo ironico e disincantato in La Mecca-Phuket è una ragazza determinata ad emergere attraverso lo studio e il lavoro, decisa a inculcare gli stessi valori nelle sue sorelle e in suo fratello, a botte se necessario. Ambisce alla classe eterea delle parigine, al loro stile nonchalant e non alla collezione di cineserie che tanto attira le donne come sue madre. È laica, colta, informata e non cede facilmente alle lusinghe degli archetipi culturali; è insofferente verso usi e abitudini che i suoi connazionali hanno cristallizzato nella loro piccola comunità etnicizzata, non vuol sentir parlare di matrimonio anche se sua madre minaccia di morirle davanti ogni volta che rifiuta l’idea di sposarsi per assecondare le convenzioni. La Azzeddine, che è arrivata a Parigi a 9 anni al seguito della sua famiglia marocchina, apre una nuova prospettiva sulla banlieu, sui giovani che “si distruggono il futuro per non doverci pensare più”, sulle ipocrisie dei genitori e la loro ostinata cecità verso i fallimenti dei figli. Non ci sono j’accuse né pietismi postcolonialisti in questo testo, solo la dissezione chirurgica di un colossale fallimento le cui macerie seppelliscono ogni possibile buonismo: “[…] si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine bruciano le donne, quando non sono le donne sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti”. La mancata integrazione ha prodotto una generazione che si dibatte nervosamente tra i vetusti valori dei padri e maldestri tentativi di rigettarli per integrarsi, finendo per cristallizzarsi nella ripetizione di atteggiamenti chauvinisti e meschini, franchouillards in una parola. Dicotomia che è ironicamente iconizzata dal piccolo cameo che l’editore ha scelto per la prima pagina: tajine vs pentola a pressione. La Azzeddine spruzza vetriolo negli occhi dei lettori, scrive di immigrazione come solo John Fante aveva saputo fare. I suoi Moufakhrou, come i Bandini, si dibattono goffamente tra orgoglio e insicurezza, menefreghismo e ipocrita osservanza delle convenzioni.

  • Articolo senza titolo 7711

    La Mecca-Phuket di Saphia Azzedine

    di Gianluigi Bodi per Senzaudio

    Quando ho iniziato a leggere questo libro la prima cosa che è affiorata sulla punta della lingua è stata: che voce originale ha questa narratrice!
    Quando ho terminato il libro, in realtà poche ore dopo visto che mi sono lasciato trasportare dalle pagine, non ho potuto che confermare quella prima sensazione quasi istintuale.
    Con “La Mecca-Phuket” Saphia Azzeddine ha scritto un libro davvero molto interessante in cui i personaggi spiccano per originalità e i dialoghi disegnano ogni volta delle parabole sempre diverse.
    Fairouz, la giovane protagonista di questo libro, ha un carattere spigoloso e fatica a piegarsi alle tradizioni consolidate. Semplicemente, ciò che è deciso, per lei non ha interesse. Si muove su una linea sottile tra tradizioni familiari e voglia di integrazione. Abita nelle Banlieu parigine, vive la stessa vita che vivono tanti ragazzi nella sua condizione eppure la dignità che sprizza dalla sua persona è accecante. Sembra quasi di vederla affrontare il prossimo con lo sguardo aguzzo di chi non ha voglia di sottostare a regole che non sente proprie. Attorno a lei i genitori, ancorati ad un retaggio arabo e convinti di non essere degni della città che li ospita, convinti di meritare accondiscenza e sopportazione. Fairouz invece non è così. Lei porta avanti, prima di tutto, sé stessa. Non la propria tradizione, non i retaggi di un passato che le sta stretto. Lei non è ciò che gli altri vogliono che lei sia. E’ dignità, intraprendenza, intelligenza.
    Ma la sua è una vita in bilico tra valori ereditati e valori ai quali tendere. Ed è per questo che la figlia devota decide di regalare un viaggio alla Mecca ai genitori (assieme alla sorella), mentre la figlia che dovrebbe essere Fairouz per assecondare i propri desideri decide di cambiare le carte in tavola. Ed è per questo che il rapporto con il fratello è particolare. Il fratello sembra quasi decidere di essere lo stereotipo che la gente si aspetta che sia. Scansafatiche e dedito a furtarelli che nemmeno riesce a mettere in atto vista la sua inettitudine nel campo. Fairouz invece, da dentro, vede oltre, vede le qualità del fratello, esige che si smarchi dalla macchietta che rischia di diventare.
    Questo è un libro che fa riflettere sull’integrazione da dentro. Non è una morale calata dall’alto. E’ qualcosa che prende vita lì dove la vita deve essere. Saphia Azzeddine ha utilizzato una lingua viva, una lingua che nasce nelle banlieu e mette in comunicazione la strada con i piani alti. Una lingua fresca, se mi passate il termine, in continuo movimento.

    Davvero ottima la traduzione dal francese di Ilaria Vitali. I libro comporta delle insidie linquistiche non di poco conto.

    Saphia Azzeddine è nata ad Agadir nel 1979. Passa l’infanzia in Marocco fino all’età di nove anni, quando si trasferisce con la famiglia in Francia, a Ferney-Voltaire. Dopo la laurea in sociologia, si dedica prima al giornalismo, poi alla scrittura. Esordisce nel 2008 con l’acclamato romanzo Confidences à Allah, adattato a teatro (2009) e in fumetto (2015). Il successo le permette di continuare la carriera di scrittrice, a cui affianca esperienze di attrice (L’Italien, 2010) e regista. Nel 2011 ha adattato per il grande schermo il suo secondo romanzo, Mon père est femme de ménage (2009). Ha oggi all’attivo sei romanzi, incentrati sulla questione dell’identità femminile, tema affrontato con un’ironia graffiante che si tinge a tratti di poesia.
    6 Marzo 2017
    Nella stessa collana:
    Rodaan al Galidi “l’Autistico e il piccione viaggiatore
    Abbas Khider “I miracoli
    Sumia Sukkar “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra
  • Babelmed, 5 marzo 2017

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzedine

    di Karim Metref

    Nella sua collana “Migrante”, la casa editrice Il Sirente di Roma è uscito un nuovo titolo “La Mecca-Phuketdella scrittrice Franco-marocchina Saphia Azzeddine.

    La Mecca-Phuket è un racconto lungo che cerca di narrare le contraddizioni e il dilemma vissuto da una ragazza di origini marocchine cresciuta in una banlieue povera di Parigi. Dilemma vissuto in modo diverso da molti ragazzi delle banlieues, specie quelli provenienti dalle ex colonie dell’impero francese, divisi tra una società d’adozione che li rigetta e una famiglia d’origine che li vuole tenere attaccati a usi, costumi e valori di terre che loro spesso  hanno frequentato poco o nulla. Usi, costumi e valori dei quali hanno conoscenze molto superficiali e stereotipate. Ed è per questo che quando si arrendono al rifiuto della società francese e decidono di diventare esattamente quello che la maggioranza aspetta da loro, allora diventano una caricatura dell’arabo o ultimamente del musulmano. Dei veri e propri stereotipi ambulanti.

    La protagonista del racconto Si chiama Fairouz Moufakhrou ed è la primogenita di una coppia di marocchini arrivati in Francia con tanta voglia di “integrarsi” e vivere come i francesi. Ma ecco che il sistema coloniale, importato dall’Africa in metropoli insieme a milioni di braccia a basso, dopo il secondo conflitto mondiale, gli respinge nelle banlieue costruite per loro e li forza a stare insieme ai loro simili.

    Un meccanismo che Ahmed Djouder ha ben spiegato in “Disintegrati” : «Uno: ci colonizzate, ci stuprate. Due: approfittate della nostra povertà per ricostruire il paese. Tre: ci rifiutate. Colonizzazione (stupro), immigrazione (deportazione) e disintegrazione (disintegrazione)». (Disintegrati. Ahmed Djouder; Milano; Il saggiatore,2007).

    I genitori di Fairouz fanno quello che possono e soprattutto quello che sanno. Ma la famiglia rimane sempre una “che abita in un appartamento dove bolle sempre la pentola a pressione”. I fratelli e sorelle più piccoli si lasciano trascinare e diventano poco a poco dei perfetti “banlieusards”, sgrammaticati, di poca cultura, che vestono, male e che assumono in pieno i sintomi della loro emarginazione.

    Fairouz invece ha studiato. Ha visto la luce (o almeno qualcosa che ci assomiglia) e vuole tirare i suoi dalle tenebre.  La protagonista, in questo, assomiglia molto all’autrice del libro Saphia Azzeddine.

    Saphia Azzeddine è nata nel 1979 in Marocco. Ci passa la sua prima infanzia poi all’età di nove anni si trasferisce con la famiglia in Francia. Laureata in sociologia, oggi scrive, fa giornalismo e monta spettacoli teatrali ispirati ai suoi lavori. E’ una piccola star del mondo della cultura parigino. Una star che cerca di smarcarsi dai ruoli generalmente riservati agli artisti e agli intellettuali “arabi” in Francia:  “Fanno sempre la parte dei guastafeste, rabbiosi dal sangue caldo, intellettuali con cui non si scherza, laici demagoghi o rapper analfabeti.”

    In realtà in questa descrizione Saphia/fairouz dimentica una categoria: il comico-beur. “Beur”  è la parola “arabe” rovesciata in “verlan”, il linguaggio delle banlieues, e che si danno i ragazzi di origine nordafricana. La figura del comico-beur appare sul palcoscenico negli anni 80 con l’artista Smaïn Faïrouze conosciuto come “Smaïn”,(https://fr.wikipedia.org/wiki/Sma%C3%AFn). In seguito la figura del comico-beur fa scuola e si moltiplica con vari altri artisti tra cui il più conosciuto è Djamal Debbouze (attore presente in molte commedie francesi: “Il favoloso mondo di Amélie”, “Asterix e Obelix”… https://it.wikipedia.org/wiki/Jamel_Debbouze). Al punto che, come descritto nell’eccellente “Allah superstar” di YB (Allah superstar.  Y. B.  Torino : Einaudi, 2004), fare il comico-beur diventa come la legione straniera, come il calcio e come il Rap, una delle poche possibilità di uscire dal ghetto, senza passare per la criminalità.

    Questa figura fa scuola a tal punto che impregna non solo il mondo del cabaret ma anche il cinema, il teatro e poi anche la letteratura. Ed è in questa nicchia di mercato che vanno ad iscriversi i lavori della Saphia Azzeddine. Lei a dir il vero fa parte di una nuova categoria, che però deriva sempre da quella prima, io la chiamerei lo “scrittore-non-beur”.

    Il comico-beur usa in prima persona il linguaggio povero e sgangherato dei ragazzi delle banlieue. Lo  scrittore-non-beur, fa parlare in quella lingua quelli che per lui sono “sfigati” e poi risponde dando lezioni di lingua e di savoir-vivre in un francese perfetto. Per dire: guardate che io ho studiato. Lo scrittore-non-beur insomma è una specie di comico-beur che passa il suo tempo a dimostrare che lui/lei non è un comico-beur.

    E di fatto Fairouz (e probabilmente anche Saphia)  trova patetico e vergognoso tutto quello che riguarda la vita della sua comunità: i beurs-banlieusards. Sogna di uscire dalla sua periferia, fare carriera (poco importa come e dove), avere un sacco di soldi, consumare veri prodotti di lusso – e non le cianfrusaglie e le marche taroccate che la sua famiglia compra abbondantemente al mercato del quartiere-, insomma diventare una “bourge” bianca.

    Tipo  Jeane,

    Jeanne (…) ha una superba cucina color tortora e guscio d’uovo (,,,). Era un cliché seducente. I capelli, il look, il suo bimbo, il suo appartamento, mi ritrovavo davanti il più bel cliché del mondo. Slanciata, capelli vaporosi, caviglie esili, vita sottile, pelle di pesca e culo da namibiana. Le stava bene tutto (un tutto fatto di lino e cachemire)”

    Ma lei rimaneva Fairouz. Fairouz Moufakhrou per di più. Un nome da star libanese appesantito però da un cognome di contadini del profondo sud Marocchino.

    “Fairouz Moufakhrou fa tanto arabo che cerca di avere un po’ di cultura ascoltando grande musica, ma a dire la verità preferisce le gnawas e Cheb Khaled, uno che va pazzo per il sintetizzatore credendo che sia un pianoforte e che pensa che sia bello appendere alle pareti dei tappeti con sopra dei leoni. Ecco che cosa suggerisce il mio nome, una sfigata che abita in un appartamento dove non cambiano mai l’aria e che è stata cullata per tutta l’infanzia dal rumore della pentola a pressione!”

    Il sogno di Fairouz è però ostacolato dal suo amore per la famiglia e dal senso di dovere che ha in quanto primogenita di occuparsi di tutti. Tutta una famiglia di poveracci che soffre di miseria congenita al seguito non aiuta a fare strada nella spietata società francese. Ma ciò nonostante lei non si tira indietro. Sogna di obbligare il fratello e le sorelle a parlare correttamente e di piazzarli in buone posizioni socio-professionali. Per i genitori decide di realizzare un sogno di lunga data: il pellegrinaggio alla Mecca. Desiderio non dettato da qualche particolare devozione religiosa o dalla voglia di viaggiare, ma semplicemente dalle pressioni sociali: se sei immigrato in Francia, con figli come si deve, allora devi fare il pellegrinaggio e aggiungere il prefisso Hajj al tuo nome. Non puoi rimanere un Mohammad qualunque ma devi -proprio devi- diventare Hajj Mohammad. Se non lo sei sei un fallito e basta. E Fairouz questo lo sa e non vuol far fare ai suoi genitori la figura dei falliti presso i loro simili, essendo loro già falliti per definizione per la società di maggioranza.

    “Loro vincevano senza volere e io perdevo per dovere. Al loro ritorno, li avrebbero onorati con un pontificante hajj o hajja accanto al nome. Finalmente avrebbero potuto andare in giro a testa alta. In fin dei conti non c’era nient’altro che contasse.”

    Con l’aiuto della sorella, e qualche volta del fratello -un fannullone che passa il suo tempo, con i suoi amici, altri perdenti di periferia, a sognare e combinare piani fallimentari- Fairuz apre un conto presso l’agenzia di viaggi del Signor Oughidour specializzata in pellegrinaggi e poco a poco raccolgono la somma necessaria per mandare i due anziani alla “casa di Dio”.

    Fairouz si arrende quindi non alla fede ma al consumismo e all’ipocrisia religiosa di una società franco-maghrebina che non tiene delle culture d’origine e di quella francese che gli aspetti più superficiali: i soldi, i beni di consumo, le apparenze, il conformismo…

    Ma mentre fa il suo percorso dai mille ostacoli per raggiungere la sostanziosa somma necessaria per il progetto, la vetrina di un’altra agenzia attira la sua attenzione. Una agenzia “normale”, che vende pacchetti vacanza, esotismo pronto al consumo e abbronzature garantite su spiagge da sogno: Phuket, la Mecca della società di consumo, è in promozione!

    Mano a mano che si svolge il racconto, le cose diventano sempre più complicate e stressanti per la povera Fairouz. Non è facile da sola salvare dalla mediocrità tutta una compagnia di persone che tutto sommato non vogliono essere salvate. E più il fratello, le sorelle e, soprattutto, i genitori perseverano sulla “via sbagliata” e più lei perde entusiasmo per il pellegrinaggio finto-religioso e si sente più attratta dal pellegrinaggio finto-lussuoso. A quale divinità dell’avere e dell’apparire devolverà Fairouz il suo modesto obolo? Al dio vestito di gellaba marocchina e con un rosario in mano?  O a quello in bikini e che nella mano tiene un cocktail alla frutta?

    Per saperlo vi tocca leggere il leggero ma divertente libro di Saphia Azzeddine fino alla fine. Io non dico più niente. “Wallaladim”, come si dice nelle banlieue.

  • Articolo senza titolo 7683

    “La Mecca-Phuket” di Saphia Azzedine, giovane franco-marocchina ritrae il suo ambiente con lucida ironia

    di Cristiana Missori, ANSAmed, 13/02/2017

    ”L’ascensore era spesso in panne ma i chiacchiericci trovavano sempre il modo di gironzolare da un piano all’altro. Di me dicevano che ero una sfrontata, di mia sorella che era una ragazza per bene e di mia madre che lasciava troppo grasso nel tajine di montone. Mio padre, tutto sommato, lo risparmiavano, anche se era l’unico di tutto il palazzo a non essere ancora hajj, il che lo tormentava. Perché i miei genitori avevano un’unica ossessione: fare il pellegrinaggio alla Mecca”. Il palazzo è quello di una banlieue parigina, il racconto, è quello di Fairouz, figlia di immigrati marocchini in Francia, che combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini.

    Insieme a una delle sue sorelle minori, Kalsoum, decide di raggranellare la somma necessaria per regalare ai suoi genitori devoti il sogno di una vita: il hajj. A narrare la sua storia, è Saphia Azzeddine – giovane autrice franco-marocchina – che in La Mecca-Phuket (in uscita a fine febbraio nelle librerie per la collana Altriarabi Migrante de Il Sirente, pp. 130 Euro 15), compie un affresco molto ironico, a tratti irriverente e divertente, di quel che accade nell’edificio in cui vive la sua protagonista.

    Stretta fra la voglia di vivere laicamente le sue origini arabo-musulmane: ”ero quello che si chiama comunemente una musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno”, annuncia Fairouz in una delle prime pagine del libro. ”Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti”.

    Altrettanto lucida quando descrive i difetti della sua comunità di origine: ”Sembra che. Ho sentito dire che. Poi la gente dirà che. Ecco più o meno quello che rovina le società arabo-musulmane in generale e il mio palazzo in particolare. Abitavo in un casermone in cui i pettegolezzi facevano da fondamenta e il cemento da cervello (…). La megera del nono aveva riferito a mia madre (per il suo bene) quel che si diceva nelle alte sfere del palazzo. Una macchina nuova era proprio necessaria prima di adempiere a un dovere islamico? Quelle maldicenze tormentavano i miei poveri genitori che fingevano di fregarsene”.

    Saphia Azzeddine, nata ad Agadir nel 1979, ha all’attivo sei romanzi. Da quello di esordio, Confidences à Allah (2008) sono stati tratti una pièce teatrale e un fumetto.

  • Arriva “La Mecca – Phuket”

    “La Mecca – Phuket”  in anteprima  al Festival del Libro di Firenze

     “La Mecca – Phuket” di Saphia Azzedine in anteprima per voi allo stand de il Sirente a Libro Aperto, Primo Festival del libro a Firenze (17 – 19 febbraio Fortezza da Basso, Firenze).

    Per chi invece non passa per Firenze lo troverete a fine febbraio nelle migliori librerie.

    Un libro per vincere qualche stereotipo sul mondo arabo-islamico, con un’ironia graffiante e un linguaggio spezzato, tipico del migliore argot banlieusard, vi ritroverete catapultati nelle banlieue parigine, dove navigando tra intelligenza pratica e stupidità teorica, Fairouz, figlia d’immigrati marocchini in Francia, combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini. In modo nervoso ma efficace, saprà riappropriarsi della sua vita, muovendosi tra quel che le ha trasmesso la famiglia e quello che si profila all’orizzonte. All’orizzonte, oltre la Francia, c’è la Mecca… ma dopotutto, perché non Phuket?

    Di pochi giorni fa la notizia di un paventato ritorno dello spettro della violenza nelle banlieue, ecco cosa ne pensa Fairouz protagonista del libro “La Mecca-Phuket”.

    Credevo in Dio. Facevo il ramadan. non mangiavo maiale. non bevevo alcool. Ero vergine. non sparlavo. Cioè, solo un po’. Ero quello che si chiama comunemente una musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno. Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continua- mente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti.

    A volte, venivano nel mio quartiere squadre di giornalisti in cerca di scoop circondati da guardie del corpo per rendere conto della minaccia islamico-integralista-estremista-oscurantista-salafita-wahabita, in soldoni per intervi- stare qualche coglione con una tunica bianca, ignorando coscienziosamente dei ragazzi ancora sulla retta via ma che non avrebbero tardato a cedere per non essere stati appoggiati da nessuno. Impedivo a mio fratello di prenderli a sassate con i suoi amici quando li vedeva arrivare con l’aria fraterna. Ma in realtà gli impedivo soprattutto di farsi prendere o di far casino, in modo che capissero che era troppo venire a servirsi a casa nostra e poi non dividere alla fine del mese. Gli spacciatori perlomeno hanno la decenza di far mangiare tutto l’indotto, dal coltivatore al palo. Dopo il loro reportage abietto, avevano la coscienza talmente sporca che si redimevano con un documentario sdolcinato in seconda serata (“Dr. House” non si tocca, non scherziamo) sui “ragazzi di banlieue che ce l’hanno fatta” e le “ragazze di origine araba che non si sottomettono”.

    Traduzione dal francese di Ilaria Vitali, “La Mecca-Phuket” di Saphia Azzedine

     

  • La Mecca-Phuket di Saphia Azzedine presto in libreria

    La Mecca-Phuket un romanzo di Saphia Azzedine

    A febbraio in libreria!

    “C’è un giorno, quando si è bambini, in cui si salta la corda per l’ultima volta, in cui si gioca per l’ultima volta a mosca cieca, e non si sa ancora che sarà l’ultima. nessuno si ricorda della sua ultima partita a palla avvelenata, arriva senza preavviso. In quel momento, stava succedendo la stessa cosa: ignoravo che quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrei accettato di sacrificarmi…”

    Arriva “La Mecca-Phuket“, quarto titolo della collana Altriarabi Migrante, questa volta siamo in Francia, nella banlieue di Parigi. Navigando tra intelligenza pratica e stupidità teorica, Fairouz, figlia d’immigrati marocchini in Francia, combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini. In modo nervoso ma efficace, saprà riappropriarsi della sua vita, muovendosi tra quel che le ha trasmesso la famiglia e quello che si profila all’orizzonte. All’orizzonte, oltre la Francia, c’è la Mecca… ma dopotutto, perché non Phuket?

    “Saphia Azzeddine ci offre la sua ricetta di convivenza tra culture, condividendo la sua saporosa riflessione su questioni oggi cruciali in Francia e anche in Italia: l’identità nazionale, l’appartenenza, il futuro delle seconde generazioni.” Sapientemente tradotto dal francese da Ilaria Vitali che ha curato anche la nota introduttiva, ” ‘La Mecca-Phuket’ racconta di una generazione in bilico tra vecchi e nuovi mondi, alla ricerca della propria strada.” “Per raccontare la propria indocile realtà, la generazione di Saphia Azzeddine ha creato nuovi codici linguistici, sincretici e polifonici. È nato nelle banlieue disagiate un singolare linguaggio in codice con funzioni di riconoscimento identitario e generazionale, definito “argot des cités”.”

    Le illustrazioni dei libri della collana Altriarabi Migrante sono a cura di Paola Equizi, che ha svolto un singolare lavoro di grafica in accordo con l’editore. Curando anche l’immagine del frontespizio in cui appare sempre abbinata un’immagine relativa al paese d’origine e un’immagine legata al paese di accoglienza. In questo caso un tajine sta cucinando lentamente i suoi cibi prelibati placidamente vicino al fischio vigoroso e dinamico di una pentola a pressione.

    Saphia Azzeddine
    Saphia Azzeddine

    Saphia Azzeddine è nata ad Agadir nel 1979. Passa l’infanzia in Marocco, all’età di nove anni, si trasferisce con la famiglia in Francia. Dopo la laurea in sociologia, si dedica prima al giornalismo, poi alla scrittura. Esordisce nel 2008 con il romanzo Confidences à Allah, da cui è stato tratta una pièce teatrale e un fumetto. Il successo le permette di continuare la carriera di scrittrice, a cui affianca esperienze di attrice e regista. Ha oggi all’attivo sei romanzi, incentrati sulla questione dell’identità femminile, tema affrontato con un’ironia graffiante che si tinge a tratti di poesia. In traduzione italiana Mio padre fa la donna delle pulizie (Gliulio Perrone Editore 2011).

    Selezionato come progetto di traduzione letteraria con il bando Europa Creativa, Altriarabi Migrante raccoglie le opere di giovani e talentuosi autori europei con origini arabe. Nella stessa collana sono stati pubblicati “l’autistico e il piccione viaggiatore” di Rodaan al Galidi, “I miracoli” di Abbas Khider e “il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar.