Babelmed, 5 marzo 2017

LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzedine

di Karim Metref

Nella sua collana “Migrante”, la casa editrice Il Sirente di Roma è uscito un nuovo titolo “La Mecca-Phuketdella scrittrice Franco-marocchina Saphia Azzeddine.

La Mecca-Phuket è un racconto lungo che cerca di narrare le contraddizioni e il dilemma vissuto da una ragazza di origini marocchine cresciuta in una banlieue povera di Parigi. Dilemma vissuto in modo diverso da molti ragazzi delle banlieues, specie quelli provenienti dalle ex colonie dell’impero francese, divisi tra una società d’adozione che li rigetta e una famiglia d’origine che li vuole tenere attaccati a usi, costumi e valori di terre che loro spesso  hanno frequentato poco o nulla. Usi, costumi e valori dei quali hanno conoscenze molto superficiali e stereotipate. Ed è per questo che quando si arrendono al rifiuto della società francese e decidono di diventare esattamente quello che la maggioranza aspetta da loro, allora diventano una caricatura dell’arabo o ultimamente del musulmano. Dei veri e propri stereotipi ambulanti.

La protagonista del racconto Si chiama Fairouz Moufakhrou ed è la primogenita di una coppia di marocchini arrivati in Francia con tanta voglia di “integrarsi” e vivere come i francesi. Ma ecco che il sistema coloniale, importato dall’Africa in metropoli insieme a milioni di braccia a basso, dopo il secondo conflitto mondiale, gli respinge nelle banlieue costruite per loro e li forza a stare insieme ai loro simili.

Un meccanismo che Ahmed Djouder ha ben spiegato in “Disintegrati” : «Uno: ci colonizzate, ci stuprate. Due: approfittate della nostra povertà per ricostruire il paese. Tre: ci rifiutate. Colonizzazione (stupro), immigrazione (deportazione) e disintegrazione (disintegrazione)». (Disintegrati. Ahmed Djouder; Milano; Il saggiatore,2007).

I genitori di Fairouz fanno quello che possono e soprattutto quello che sanno. Ma la famiglia rimane sempre una “che abita in un appartamento dove bolle sempre la pentola a pressione”. I fratelli e sorelle più piccoli si lasciano trascinare e diventano poco a poco dei perfetti “banlieusards”, sgrammaticati, di poca cultura, che vestono, male e che assumono in pieno i sintomi della loro emarginazione.

Fairouz invece ha studiato. Ha visto la luce (o almeno qualcosa che ci assomiglia) e vuole tirare i suoi dalle tenebre.  La protagonista, in questo, assomiglia molto all’autrice del libro Saphia Azzeddine.

Saphia Azzeddine è nata nel 1979 in Marocco. Ci passa la sua prima infanzia poi all’età di nove anni si trasferisce con la famiglia in Francia. Laureata in sociologia, oggi scrive, fa giornalismo e monta spettacoli teatrali ispirati ai suoi lavori. E’ una piccola star del mondo della cultura parigino. Una star che cerca di smarcarsi dai ruoli generalmente riservati agli artisti e agli intellettuali “arabi” in Francia:  “Fanno sempre la parte dei guastafeste, rabbiosi dal sangue caldo, intellettuali con cui non si scherza, laici demagoghi o rapper analfabeti.”

In realtà in questa descrizione Saphia/fairouz dimentica una categoria: il comico-beur. “Beur”  è la parola “arabe” rovesciata in “verlan”, il linguaggio delle banlieues, e che si danno i ragazzi di origine nordafricana. La figura del comico-beur appare sul palcoscenico negli anni 80 con l’artista Smaïn Faïrouze conosciuto come “Smaïn”,(https://fr.wikipedia.org/wiki/Sma%C3%AFn). In seguito la figura del comico-beur fa scuola e si moltiplica con vari altri artisti tra cui il più conosciuto è Djamal Debbouze (attore presente in molte commedie francesi: “Il favoloso mondo di Amélie”, “Asterix e Obelix”… https://it.wikipedia.org/wiki/Jamel_Debbouze). Al punto che, come descritto nell’eccellente “Allah superstar” di YB (Allah superstar.  Y. B.  Torino : Einaudi, 2004), fare il comico-beur diventa come la legione straniera, come il calcio e come il Rap, una delle poche possibilità di uscire dal ghetto, senza passare per la criminalità.

Questa figura fa scuola a tal punto che impregna non solo il mondo del cabaret ma anche il cinema, il teatro e poi anche la letteratura. Ed è in questa nicchia di mercato che vanno ad iscriversi i lavori della Saphia Azzeddine. Lei a dir il vero fa parte di una nuova categoria, che però deriva sempre da quella prima, io la chiamerei lo “scrittore-non-beur”.

Il comico-beur usa in prima persona il linguaggio povero e sgangherato dei ragazzi delle banlieue. Lo  scrittore-non-beur, fa parlare in quella lingua quelli che per lui sono “sfigati” e poi risponde dando lezioni di lingua e di savoir-vivre in un francese perfetto. Per dire: guardate che io ho studiato. Lo scrittore-non-beur insomma è una specie di comico-beur che passa il suo tempo a dimostrare che lui/lei non è un comico-beur.

E di fatto Fairouz (e probabilmente anche Saphia)  trova patetico e vergognoso tutto quello che riguarda la vita della sua comunità: i beurs-banlieusards. Sogna di uscire dalla sua periferia, fare carriera (poco importa come e dove), avere un sacco di soldi, consumare veri prodotti di lusso – e non le cianfrusaglie e le marche taroccate che la sua famiglia compra abbondantemente al mercato del quartiere-, insomma diventare una “bourge” bianca.

Tipo  Jeane,

Jeanne (…) ha una superba cucina color tortora e guscio d’uovo (,,,). Era un cliché seducente. I capelli, il look, il suo bimbo, il suo appartamento, mi ritrovavo davanti il più bel cliché del mondo. Slanciata, capelli vaporosi, caviglie esili, vita sottile, pelle di pesca e culo da namibiana. Le stava bene tutto (un tutto fatto di lino e cachemire)”

Ma lei rimaneva Fairouz. Fairouz Moufakhrou per di più. Un nome da star libanese appesantito però da un cognome di contadini del profondo sud Marocchino.

“Fairouz Moufakhrou fa tanto arabo che cerca di avere un po’ di cultura ascoltando grande musica, ma a dire la verità preferisce le gnawas e Cheb Khaled, uno che va pazzo per il sintetizzatore credendo che sia un pianoforte e che pensa che sia bello appendere alle pareti dei tappeti con sopra dei leoni. Ecco che cosa suggerisce il mio nome, una sfigata che abita in un appartamento dove non cambiano mai l’aria e che è stata cullata per tutta l’infanzia dal rumore della pentola a pressione!”

Il sogno di Fairouz è però ostacolato dal suo amore per la famiglia e dal senso di dovere che ha in quanto primogenita di occuparsi di tutti. Tutta una famiglia di poveracci che soffre di miseria congenita al seguito non aiuta a fare strada nella spietata società francese. Ma ciò nonostante lei non si tira indietro. Sogna di obbligare il fratello e le sorelle a parlare correttamente e di piazzarli in buone posizioni socio-professionali. Per i genitori decide di realizzare un sogno di lunga data: il pellegrinaggio alla Mecca. Desiderio non dettato da qualche particolare devozione religiosa o dalla voglia di viaggiare, ma semplicemente dalle pressioni sociali: se sei immigrato in Francia, con figli come si deve, allora devi fare il pellegrinaggio e aggiungere il prefisso Hajj al tuo nome. Non puoi rimanere un Mohammad qualunque ma devi -proprio devi- diventare Hajj Mohammad. Se non lo sei sei un fallito e basta. E Fairouz questo lo sa e non vuol far fare ai suoi genitori la figura dei falliti presso i loro simili, essendo loro già falliti per definizione per la società di maggioranza.

“Loro vincevano senza volere e io perdevo per dovere. Al loro ritorno, li avrebbero onorati con un pontificante hajj o hajja accanto al nome. Finalmente avrebbero potuto andare in giro a testa alta. In fin dei conti non c’era nient’altro che contasse.”

Con l’aiuto della sorella, e qualche volta del fratello -un fannullone che passa il suo tempo, con i suoi amici, altri perdenti di periferia, a sognare e combinare piani fallimentari- Fairuz apre un conto presso l’agenzia di viaggi del Signor Oughidour specializzata in pellegrinaggi e poco a poco raccolgono la somma necessaria per mandare i due anziani alla “casa di Dio”.

Fairouz si arrende quindi non alla fede ma al consumismo e all’ipocrisia religiosa di una società franco-maghrebina che non tiene delle culture d’origine e di quella francese che gli aspetti più superficiali: i soldi, i beni di consumo, le apparenze, il conformismo…

Ma mentre fa il suo percorso dai mille ostacoli per raggiungere la sostanziosa somma necessaria per il progetto, la vetrina di un’altra agenzia attira la sua attenzione. Una agenzia “normale”, che vende pacchetti vacanza, esotismo pronto al consumo e abbronzature garantite su spiagge da sogno: Phuket, la Mecca della società di consumo, è in promozione!

Mano a mano che si svolge il racconto, le cose diventano sempre più complicate e stressanti per la povera Fairouz. Non è facile da sola salvare dalla mediocrità tutta una compagnia di persone che tutto sommato non vogliono essere salvate. E più il fratello, le sorelle e, soprattutto, i genitori perseverano sulla “via sbagliata” e più lei perde entusiasmo per il pellegrinaggio finto-religioso e si sente più attratta dal pellegrinaggio finto-lussuoso. A quale divinità dell’avere e dell’apparire devolverà Fairouz il suo modesto obolo? Al dio vestito di gellaba marocchina e con un rosario in mano?  O a quello in bikini e che nella mano tiene un cocktail alla frutta?

Per saperlo vi tocca leggere il leggero ma divertente libro di Saphia Azzeddine fino alla fine. Io non dico più niente. “Wallaladim”, come si dice nelle banlieue.