[st_divider_shadow] Estratti / Excerpts [st_divider_shadow]

Abbas Khider

I MIRACOLI

DER FALSCHE INDER
THE INDIAN VILLAGE

ISBN 9788887847581

[st_icon name=’file-text’ size=’icon-2′ color=” type=’normal’ background=” border_color=” align=’ss-none’ icon_spin=’no’] [st_icon name=’paste’ size=’icon-2′ color=” type=’normal’ background=” border_color=” align=’ss-none’ icon_spin=’no’] [st_divider_shadow]

Giuro su tutte le creature visibili e invisibili: ho sette vite. Come un gatto. Anzi no, ne ho addirittura il doppio. I gatti potrebbero diventare verdi dall’invidia. Nella mia vita i miracoli sono sempre accaduti all’ultimo minuto. Io ci credo, ai miracoli. A queste insolite eccezionalità per le quali semplicemente non c’è altra definizione. Uno dei misteri della vita. Questi miracoli hanno molto in comune con le coincidenze, ma non posso neppure definirli coincidenze perché queste ultime non capitano di frequente. Un caso è un caso, per banale che possa suonare. Si può parlare di una, massimo due grandi casualità nella vita, ma non certo di una gran quantità di avvenimenti fortuiti. Ci sono quindi eventi che sono miracoli, e non coincidenze: così mi permetto di teorizzare, pur senza seguire una logica aristotelica. Non sono una persona superstiziosa, non credo all’ultraterreno né all’occulto. Nel corso della mia vita ho, per così dire, sviluppato il mio personale orientamento religioso, adatto a me soltanto. Assolutamente individuale. Ad oggi, per esempio, io venero gli pneumatici. Sì, i copertoni delle auto! Per me non sono soltanto i piedi delle macchine, sono angeli custodi. Lo so, non deve suonare del tutto sensata come affermazione, dato che molta gente ci ha lasciato la vita, sotto gli pneumatici. Ma uno pneumatico può anche salvarti la vita. Ed è così che ha avuto inizio il primo miracolo.
Ero a Baghdad, in carcere. Trovarsi in galera a Baghdad non è affatto un miracolo, e negli anni Novanta era perfettamente normale. Mentre ero lì venne anche il giorno di un viaggio inatteso. Un viaggio indimenticabile. Le guardie riunirono tutti i detenuti, li ammanettarono, li bendarono con un panno nero e li stiparono in diverse auto. I veicoli si mossero lentamente. Era tutto buio. Avvertivo soltanto il respiro dei miei compagni di prigione e il battito del mio cuore. Sentivo il sudore degli altri e i loro vecchi vestiti madidi. Dopo una mezza eternità, nelle mie orecchie si insinuò un incessante brusio di voci, insieme al rombo di mille motori. Finalmente potevo di nuovo ascoltare la normale vita quotidiana della mia città. Gli schiamazzi dei bambini, la musica ad alto volume dai negozi di dischi, le grida dei venditori ambulanti per strada: «Pomodori freschi, lattuga, frutta e verdura, tutto fresco!». Di lì a poco, l’unica cosa che riuscivo a percepire era il vento, che frustava le fiancate dell’auto come per salutarci. All’improvviso uno scoppio. La macchina si fermò. Le voci dei carcerieri si fecero più vicine. Lentamente, la portiera si aprì e ci diedero ordine di scendere. Mi mossi come al rallentatore, per evitare di cadere. Poi un nuovo ordine: «Sedetevi per terra!». Annusai l’aria. Era fredda, piacevolmente fresca. Conoscevo quell’aria! Eravamo nel deserto. Ma cosa ci facevamo lì?
I secondini parlavano tra di loro:
«Dobbiamo cambiare al più presto la maledetta gomma e raggiungere gli altri!»
«È impossibile. Non abbiamo ruote di scorta. Bisogna riparare questa!»
«Quanto tempo ci vuole?»
«Mezz’ora, forse!»
«Merda! Ci uccideranno. Sbrigati!»
Per mezz’ora regnò un silenzio di tomba. Le guardie si scambiarono solo poche parole. Poi un nuovo ordine: «In piedi, salite in macchina, svelti!»
L’auto partì, ma poco dopo si fermò di colpo. Dall’esterno, rumori incomprensibili. Dopo circa un minuto ci rimettemmo in marcia. Continuai a sentire ancora per un po’ il forte vento del deserto, poi di nuovo voci umane e rombo di motori a non finire. Forse eravamo di nuovo in città. Qualche minuto dopo l’automobile tornò a fermarsi. Ancora una volta le voci delle guardie si fecero più vicine. Ancora una volta la portiera lentamente si aprì. Ancora una volta ci fu ordinato di scendere. Ho riconosciuto lo strano odore della galera, l’odore di umidità, di carne flaccida di persone recluse. Era la stessa prigione? Avevamo soltanto fatto una gita?
Ci tolsero le manette. Mi trovavo di nuovo nell’ala più grande del nostro carcere. Adesso eravamo solo una ventina di detenuti. Ma dov’erano gli altri? Prima c’era un sacco di gente in quella sezione, quasi trecento anime. Nessuno sapeva nulla.
Quella sera arrivò un secondino e ci guardò sbigottito, a bocca aperta.
«Siete stati graziati, lo sapete?»
«In che senso?»
«Siete ancora vivi!»
«Che vuol dire? Significa che gli altri…?»
«Sì, sono stati giustiziati nel deserto. Quello pneumatico vi ha salvati.»
Giuro su tutti gli pneumatici: il miracolo successivo seguì a ruota. In arabo colloquiale iracheno, la prigione è chiamata “dietro il sole”. Io avevo ben chiaro che non avrei mai più raggiunto la vita al di qua del sole. Consideravo impossibile persino percorrere il tragitto dalla zona più buia fino alla luce delle lampadine elettriche. E invece venne il giorno in cui il governo concesse l’amnistia a tutti i prigionieri politici. Dato che il mio capo d’accusa era piccolo e di poca importanza, potevo, insieme ad altri carcerati piccoli e di poca importanza, tornare a vedere la luce del sole. I detenuti grossi e importanti, invece, erano già stati giustiziati da tempo. Dovetti aspettare un mese, prima di essere scarcerato. Fu un mese molto lungo, più lungo di un decennio. Ma alla fine mi ritrovai di nuovo “al di qua del sole”. Salii su un taxi e poco dopo mi ritrovai davanti alla porta di casa dei miei genitori. Bussai. Il viso di mia madre fece capolino.
«Sì?»
«Buongiorno!»
«Buongiorno!»
«Come stai?»
«Bene. E tu?»
«Bene. Non mi riconosci?»
«No, chi sei? Cerchi qualcuno dei ragazzi?»
«Davvero non mi riconosci?»
«No.»
«Sono Rasùl.»
Mi scrutò, senza parole e respirando a fatica, poi cadde a terra priva di sensi. Non mi aveva riconosciuto. E come avrebbe potuto, del resto? Ero andato via con un bel colorito scuro e un peso di tutto rispetto, 85 chili, e tornavo con 55 chili di peso, pallido come una fetta di Gouda. Un anno e mezzo di pane a stento e niente sole mi avevano cambiato fino a rendermi irriconoscibile.
Giuro sull’amnistia: a questo miracolo ne occorreva un altro per potermi salvare davvero. Il miracolo di riuscire a fuggire via dall’Iraq.

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Ich schwöre bei allen sichtbaren und unsichtbaren Geschöpfen, ich habe sieben Leben. Wie eine Katze. Nein, nein, sogar doppelt so viele. Die Katzen könnten vor Neid erblassen. Wunder traten in meinem Leben immer im letzten Moment ein. Ich glaube an Wunder. An diese seltsamen Einmaligkeiten, auf die einfach kein anderer Begriff passt. Es ist eine Art Geheimnis des Lebens. Diese Wunder haben viel gemeinsam mit Zufällen. Aber ich kann sie auch nicht als Zufälle bezeichnen, weil ein Zufall nicht mehrmals passiert. Ein Zufall ist nur ein Zufall, so banal das auch klingen mag. Man kann von einem oder höchstens zwei großen Zufällen im Leben sprechen, aber nicht von solchen Mengen an Zufällen. Es gibt also Ereignisse, die Wunder sind, aber keine Zufälle – so erlaube ich mir zu formulieren, ohne der aristotelischen Logik zu folgen. Ich bin kein abergläubischer Mensch und glaube nicht an Überirdisches und Unterirdisches. Ich habe im Laufe meines Lebens sozusagen meine eigene Glaubensrichtung entwickelt, und zwar eine, die ausschließlich zu mir passt. Absolut individuell. Bis heute verehre ich zum Beispiel Autoreifen. Ja, Autoreifen! Sie sind für mich nicht nur die Füße eines Autos, sondern Schutzengel. Ich weiß, das klingt nicht unbedingt intelligent, weil schon viele Menschen unter Autoreifen ihr Leben lassen mussten. Aber ein Autoreifen kann eben auch Leben retten. Und so begann das erste Wunder.
Ich saß in Bagdad im Gefängnis. Es ist kein Wunder, in Bagdad im Gefängnis zu sitzen, in den Neunzigerjahren gehörte das zur Normalität. Als ich dort war, kam auch der Tag einer unerwarteten Reise. Einer unvergesslichen Reise. Die Aufseher trieben alle Gefangenen zusammen, fesselten sie an den Händen, verbanden ihnen die Augen mit einem schwarzen Tuch und steckten sie in mehrere Autos. Die Fahrzeuge bewegten sich langsam. Es war alles dunkel. Ich hörte nur den Atem meines Mitgefangenen und das Pochen meines Herzens. Roch nur den Schweiß der anderen und ihre alten, feuchten Kleider. Nach einer halben Ewigkeit drang ein unendliches Stimmengewirr an mein Ohr und jede Menge Motorengeknatter. Endlich durfte ich wieder einmal das normale Alltagsleben meiner Heimatstadt hören. Kindergeschrei, laute Musik aus den Musikläden und auch das Schreien der Händler in den Straßen: »Frische Tomaten, Salat, Obst und Gemüse, alles frisch…« Nach einer Weile vernahm ich nur noch den Wind, der die Wände des Autos peitschte, als wolle er uns begrüßen. Plötzlich ein Knall. Der Wagen stand still. Stimmen der Gefängniswärter näherten sich. Langsam öffnete sich die Tür mit dem Befehl: »Aussteigen!« Ich bewegte mich wie in Zeitlupe, um nicht hinzufallen. Dann ein neuer Befehl: »Auf den Boden setzen!« Ich sog die Luft ein. Sie war kalt, aber angenehm frisch. Ich kannte diese Luft! Wir befanden uns in der Wüste. Aber was sollten wir hier?
Die Gefängniswärter redeten miteinander.
»Wirmüssen so schnell wiemöglich den verdammten Reifen wechseln. Wir müssen die anderen wieder einholen!«
»Das ist unmöglich! Wir haben keinen Ersatzreifen. Wir müssen ihn reparieren!«
»Wie lang dauert das?«
»Halbe Stunde vielleicht!«
»Scheiße! Sie werden uns umbringen. Mach schnell!«
Eine halbe Stunde herrschte Totenstille. Die Aufseher wechselten nur wenige Worte miteinander. Dann ein neuer Befehl: »Aufstehen und einsteigen, aber flott!« Das Fahrzeug fuhr los, blieb aber gleich darauf abrupt wieder stehen. Unverständliche Laute von draußen. Etwa eine Minute spatter fuhren wir weiter. Eine Weile noch hörte ich den starken Wind der Wüste, dann wieder Menschenstimmen und die Geräusche zahlloser Autos. Möglicherweise waren wir wieder in der Stadt. Es dauerte ein paar Minuten, und der Wagen blieb wieder stehen. Wieder näherten sich die Stimmen der Gefängniswärter. Wieder öffnete sich langsam die Tür. Und wieder kam der Befehl: »Aussteigen!« Ich erkannte den seltsamen Geruch des Gefängnisses wieder, den Geruch von Feuchtigkeit, den Geruch abgeschlafften Fleisches gefangener Menschen. War es dasselbe Gefängnis? Hatten wir nur einen Ausflug gemacht?
Die Gefängniswärter nahmen uns die Fesseln ab. Ich befand mich wieder in der großen Abteilung unseres Gefängnisses.
Wir waren nur noch zwanzig Gefangene. Doch wo waren die anderen? Die Abteilung war vorher voll von Menschen, fast dreihundert Seelen. Keiner wusste irgendetwas.
Am Abend kam ein Wärter und schaute uns überrascht und mit offenem Mund an.
»Wisst ihr, dass ihr Heilige seid?«
»Wieso?«
»Ihr lebt noch!«
»Was meinen Sie? Soll das heißen, die anderen…?«
»Ja, sie sind in der Wüste hingerichtet worden. Der Autoreifen hat euch gerettet.«

Ich schwöre bei allen Autoreifen, das nächste Wunder folgte bald. In der irakischen Umgangssprache nennt man das Gefängnis »Hinter der Sonne«. Für mich war klar, dass ich das Leben »Vor der Sonne« nie wieder erlangen würde. Von der dunklen Seite aus ins Licht der Glühbirnen zu marschieren, hielt ich für ein Ding der Unmöglichkeit. Aber dennoch kam der Tag, an dem die Regierung eine Amnestie für alle politischen Gefangenen erließ. Weil meine Anklage so klein und unwichtig war, durfte ich zusammen mit anderen kleinen, unwichtigen Gefangenen doch noch einmal das Licht der Sonne sehen. Die wichtigen, großen Häftlinge waren längst hingerichtet. Einen Monat lang wartete ich auf meine Entlassung. Es war ein sehr langer Monat, länger als ein Jahrzehnt! Aber letztendlich befand ich mich doch wieder »Vor der Sonne«. Ich stieg in ein Taxi und stand kurze Zeit später vor der Tür meines Elternhauses. Ich klopfte. Das Gesicht meiner Mutter erschien.
»Ja?«
»Guten Tag!«
»Guten Tag!«
»Wie geht’s?«
»Gut, und dir?«
»Auch gut. Erkennst du mich nicht?«
»Nein, wer bist du? Willst du einen von den Jungs?«
»Erkennst du mich wirklich nicht?«
»Nein!«
»Ich bin Rasul.«
Sie starrte mich sprachlos an, atmete schwer und sank bewusstlos zu Boden. Sie konnte mich nicht erkennen. Wie auch! Braun gebrannt, mit einem stattlichen Gewicht von 85 Kilogramm war ich gegangen, mit 55 Kilo kehrte ich zurück, bleich wie ein Stück Gouda. Anderthalb Jahre kaum Brot und keine Sonne hatten mich bis zur Unkenntlichkeit verändert.

Ich schwöre bei der Amnestie, dieses Wunder brauchte noch ein Wunder, um mich wirklich zu retten. Das Wunder, aus dem Irak fliehen zu können.

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I SWEAR ON ALL CREATURES, both visible and invisible that I have nine lives. Like a cat. No, no, twice as many. Cats would go green with envy. Miracles happen—in my life—always at the last minute. I believe in miracles. In those strange moments for which there is no other term. One of life’s secrets, as it were. These miracles have much in common with coincidences. But I can’t call them coincidences because a coincidence doesn’t happen many times over. A coincidence is just a coincidence, as lame as that might sound. You can talk about one big coincidence in life, two at most, but not more. So there are events that are miracles, not coincidences —that’s how I will put it, even if the logic isn’t exactly Aristotelian. I’m not a superstitious person, the supernatural and subterrestrial are not for me. In the course of my life I’ve developed, so to speak, my own religious persuasion, one made to measure for me. Absolutely individual. To this day, for instance, I worship tyres. Yes, car tyres! To me they’re not just a car’s feet but guardian angels. I know that doesn’t sound particularly intelligent, given that many people have lost their lives to car tyres. But car tyres can also save lives. And that is how the first miracle happened.
I was in jail in Baghdad. Being in jail in Baghdad is no miracle. In the nineties, it was even the norm. One day, we were taken on an unexpected journey. A never to- be-forgotten journey. The guards got all the prisoners together, bound their hands, blindfolded them with bits of black cloth and put them in several cars. The cars moved slowly. Everything was dark. I could hear only my fellow prisoners breathing and my heart thumping. Could smell only the others’ sweat and their old, damp clothes. After what seemed like half an eternity, an endless babble of voices reached my ears as did the roar of engines. I could hear the everyday noises of my home town again. The yells of children, the loud music from the music shops and the street dealers shouting: ‘Fresh tomatoes, salad, fruits and vegetables, all fresh…’ After a while, I could hear only the wind against the sides of the car. Then a sudden bang. The car stopped. The prison guards’ voices drew closer. The door opened slowly and we heard the order, ‘Out!’ I moved, in slow motion, in order not to fall. ‘Sit! On the ground!’ I sucked in the air. It was cold but fresh. I knew this air. We were in the desert. But why?
The guards were talking to each other.
‘We need to change the damn tyre as quickly as possible. Then catch up with the others.’
‘That’s impossible. We don’t have a spare. We’ll have to fix it!’
‘How long will that take?’
‘Half an hour, maybe!’
‘Shit! They’ll kill us. Get on with it.’
For half an hour, there was a deathly hush. The guards spoke little. Then, ‘Get up and get in. Quick!’ The car began to move but suddenly stopped again. Incomprehensible sounds from outside. A minute later, we drove off again. For a while I could hear the strong desert wind, then human voices and the sounds of countless cars. Perhaps we were back in town again. A few minutes later, the car stopped again. Again, the prison guards’ voices drew closer. Again, the door opened. Again, we heard the order, ‘Out!’ I recognized the strange smell of the prison, the smell of damp, the smell of the sagging flesh of imprisoned people. Was it the same prison? Had it just been an outing?
The guards removed our bonds. I was back to the large section of our prison. Only twenty of us now. Where were the others? There’d been so many before. Three hundred, almost.
No one knew.
That evening, a guard came and gaped at us, surprised. ‘Do you realize God loves you?’
‘Why?’
‘You’re still alive!’
‘What! Does that mean the others—?’
‘Yes, they were executed in the desert. That car tyre saved you.’

I SWEAR ON ALL CAR TYRES—the next miracle followed soon after. In Iraqi slang, we refer to jail as ‘behind the sun’. It was clear to me that I’d never be allowed back to life on this side of the sun. Walking from the dark side back into the brightness of lightbulbs I began to consider impossible. Yet the day came when the government declared an amnesty for all political prisoners. Because I’d been charged with minor and insignificant crimes, I was permitted, with all the other minor and insignificant prisoners, to see the light of the sun again. The major and significant prisoners had all been executed long ago. I waited for a month to be released. It was a very long month, longer than a decade! Eventually, though, I was ‘in front of the sun’ again. I got into a taxi. A short time later, I was home. I knocked. My mother’s face appeared.
‘Yes?’
‘Good afternoon!’
‘Good afternoon!’
‘How are you today?’
‘Fine, and you?’
‘Fine. Don’t you recognize me?’
‘No, who are you? Is it one of the boys you want?’
‘Do you really not recognize me?’
‘No!’
‘It’s Rasul.’
She stared at me, speechless, drew her breath in sharply and fell unconscious to the floor. She couldn’t have recognized me! How was she to? A good eighty-five kilos and burnt brown when I left, I’d returned fifty-five kilos and as pale as a piece of Gouda. Eighteen months of hardly any bread and no sun at all had changed me beyond recognition.

I SWEAR ON THE AMNESTY—this miracle needed another miracle in order to really save me. The miracle of the chance to flee Iraq. 

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