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  • Le Vine: ecco come cambia la geografia del petrolio

    Media Duemila | Sabato 8 dicembre 2012 | Redazione |

    Lo sviluppo di fonti alternative come aspirazione ad uno stile di vita più sostenibile e non come inevitabile surrogato dei combustibili fossili. La scoperta di nuove riserve di idrocarburi in Paesi finora ai margini sposta il dibattito sulle politiche energetiche pubbliche.

    Entusiasmi e timori suscitati dalle nuove scoperte di idrocarburi. Il dibattito sulle fonti alternative. Gli equilibri geopolitici in Asia e nel Vecchio Continente e lo sviluppo dei progetti delle grandi arterie del gas. Steve Le Vine, giornalista e autore del best seller “The Oil and the Glory”, spiega come sta cambiando la geografia globale dell’energia.

    La produzione di petrolio e gas sta vivendo un nuovo boom e non solo in Nord America, ma anche in regioni del mondo che potrebbero apparire sorprendenti: dall’Africa al Sud America, fino all’Artico. Il dibattito sul peak oil può quindi considerasi archiviato?
    Il dibattito sul peak oil potrà considerarsi chiuso nel momento in cui le stime sulla produzione si materializzeranno. Per ora sembra proprio che si sia proiettati verso un prolungato periodo di scoperte di nuove riserve in posti sorprendenti come il Suriname (Guyana Olandese), la Guyana Francese o il Kenia, oltre ai già noti volumi disponibili in Canada, negli Stati Uniti e in Brasile. Da questo punto di vista 
certamente direi che non stiamo più andando verso una selva oscura.

Questo boom garantirà accesso all’energia a un numero sempre maggiore di persone anche nei Paesi produttori in via di sviluppo?

Questo boom garantirà a tutti un maggior accesso all’energia, ma pone anche nuove questioni. Il precedente scenario si fondava sul fatto che le risorse tradizionali erano destinate a esaurirsi e quindi 
bisognava sviluppare fonti alternative. Ora invece sappiamo che il petrolio e il gas non stanno per finire ma forse vogliamo comunque, per scelta, sviluppare fonti alternative. Il dibattito sulle politiche pubbliche per l’energia si è spostato e, a mio avviso, in una direzione che guarda molto più avanti e che è incentrata sullo stile di vita a cui si aspira.

Lei ha sottolineato come questa nuova “abbondanza abbia scatenato timori oltre che entusiasmi, considerando la lunga e sordida storia dell’Africa come preda di cacciatori di risorse e vittima di leader 
rapaci” anche se gli eventi più recenti, compresa la Primavera Araba, hanno mostrato “l’interesse dei produttori” verso politiche per il petrolio “più trasparenti”. Può fare qualche esempio concreto?

In Libia, ad esempio, la Primavera Araba ha mostrato come le popolazioni degli stati del petrolio non solo siano molto interessate alla loro forma di governo, ma sanno anche agire per determinarla. Allo stesso modo la forma di governo negli stati del petrolio interessa molto alle compagnie che operano su orizzonti di 30 o 40 anni e dunque devono poter contare sul rispetto dei contratti e sulle relazioni con chi 
 prende le decisioni. Gli attentati e l’instabilità in Kenia e in Nigeria dovrebbero ad esempio suonare come campanelli d’allarme per le compagnie che operano in quegli stati.

Dare elettricità a 1,3 miliardi di persone che ora non ne hanno, viene considerato un degli elementi cardine per uno sviluppo sostenibile. È solo una questione umanitaria o può essere anche un business profittevole?
    Le grandi opere di beneficenza, perseguite da personaggi come Bill Gates, stanno facendo da apripista in questa direzione. L’elettrificazione di un Paese può essere nell’interesse geopolitico e macroeconomico e non è dunque una questione meramente umanitaria.
    La volontà di utilizzare le proprie risorse per garantire un maggiore accesso all’energia manifestata da alcuni paesi in via di sviluppo, giustifica secondo lei decisioni come la nazionalizzazione della YPF in 
 Argentina o delle reti elettriche in Bolivia?
    Il presidente argentino Cristina Fernández potrà anche sentirsi giustificata da interessi domestici per le sue mosse su YPF e Repsol, ma è rischioso perché spaventa gli altri investitori nel Paese e tutti i potenziali investitori, per non parlare della agenzie di rating!
    L’enorme potenziale di petrolio e gas in Mozambico, in una posizione geografica favorevole anche per le esportazioni verso l’Europa, può ridimensionare il ruolo della Russia nel mercato dell’energia del Vecchio Continente?
    Questa è la principale implicazione geopolitica delle ingenti scoperte  di gas in Mozambico. Già la rivoluzione dello shale gas in USA ha scosso l’equazione sui prezzi in Europa con Gazprom costretta ad 
 abbassare le quotazioni dell’oro blu in alcuni paesi. Se il gas del Mozambico dovesse riversarsi in Europa in modo cospicuo, ci sarebbe più  concorrenza sui prezzi e la capacità di leverage di Gazprom sul mercato 
  verebbe seriamente ridimensionata.


Rispetto a quando è uscito il suo famoso libro “The Oil and the Glory: the pursuit of empire and fortune on the Caspian Sea” (“Il petrolio e la gloria” ndr) nel 2007, com’è cambiato il ruolo del Caspio nella lotta epocale per il controllo dell’oro nero del pianeta?

C’e’ stato certamente un cambiamento per l’area del Caspio: da ruolo centrale nella grande geopolitica a ruolo secondario per una lotta che si sta estinguendo. Le attuali tensioni Est-Ovest sul fronte delle pipeline in Europa hanno le loro radici nella strategia diplomatica americana degli anni Novanta quando l’obiettivo era di allentare la presa della Russia sull’Asia Centrale e sul Caucaso. All’epoca ciò  rappresentava un pilastro della politica estera Usa. Una delle due gambe di questa politica era rappresentata dal gasdotto Baku-Ceyhan, divenuto operativo nel 2006. La seconda gamba, la Trans-Caspian pipeline, dal Turkmenistan all’Europa, non si è invece mai materializzata e dubito che lo sarà, almeno entro la fine di questo decennio. Il progetto si è infatti trasformato nel Nabucco, una versione molto più corta che dovrebbe partire non in Turkmenistan ma in Iraq, in Kurdistan o comunque  dove vi sia gas sufficiente da giustificare la costruzione. L’Asia   Centrale rimarrebbe così isolata rispetto all’Occidente e attratta verso l’Est , verso la Cina. Così staccata  politicamente, l’unico interesse di Washington per il Caspio al momento è legato al fatto che si tratta di una rotta di transito per le forniture belliche in Afghanistan.

In questo scenario come giudica il progetto South Stream? Molti osservatori lo considerano il gasdotto più fattibile perché, oltre  alla Russia, coinvolge i principali player del Vecchio Continente ed ora, con la designazione del socialdemocratico tedesco Henning Voscherau alla presidenza, potrebbe guadagnarsi lo status di progetto strategico in seno all’Ue.

Originariamente il South Stream è nato come risposta alternativa al Nabucco e all’Ucraina da parte della Russia. Penso che se il Nabucco  non si materializzasse e le tensioni con l’Ucraina venissero meno, Vladimir Putin lascerebbe tranquillamente morire il progetto . E ciò potrebbe ancora accadere: ci si chiede perché Putin voglia spendere 10 miliardi di dollari per la costruzione di questo gasdotto. C’è poi il fattore Cina. Se venisse siglato un accordo con Pechino, South Stream morirebbe . Ma di certo, anche per le ragioni sottolineate nella domanda, Putin sembra determinato a portare avanti il progetto indipendentemente dall’Ucraina e dal Nabucco.

Sul Nabucco l’Ue ha annunciato una decisione finale il prossimo anno. Se il progetto venisse realizzato, secondo lei, sarebbe destinato a competere con il Gasdotto Europeo del Sud-Est (SEEP) o potrebbe fondersi con il Tanap?
Penso che assisteremo ad una combinazione tra il gasdotto SEEP sostenuto da BP e un connettore meridionale. Il fatto che BP,  proprietaria dei principali asset azeri,  abbia pubblicamente sostenuto 
  questa linea, la dice lunga. Nella remota possibilità che venisse  raggiunto un accordo sul nucleare con l’Iran tutte le ipotesi sarebbero  sul tavolo.   Potrebbe sembrare strano, ma se mi si chiede di fare una  previsione, io insisto sul fatto che il Nabucco non si materializzerà almeno fino alla fine del decennio.

  • La geografia del petrolio vista da uno scrittore

    MIT Technology Review | Martedì 30 ottobre 2012 | Rita Kirby |

    Steve LeVine, giornalista e autore del best seller “The Oil and the Glory”, spiega come sta cambiando la geografia globale dell’energia.

    La produzione di petrolio e gas sta vivendo un nuovo boom e non solo in Nord America,ma anche in regioni del mondo che potrebbero apparire sorprendenti: dall’Africa al Sud America, fino all’Artico. Il dibattito sul peak oil può quindi considerasi archiviato?
    Il dibattito sul peak oil potrà considerarsi chiuso nel momento in cui le stime sulla produzione si materializzeranno. Per ora sembra proprio che si sia proiettati verso un prolungato periodo di scoperte di nuove riserve in posti sorprendenti come il Suriname (Guyana Olandese), la Guyana Francese o il Kenia, oltre ai già noti volumi disponibili in Canada, negli Stati Uniti e in Brasile. Da questo punto di vista certamente direi che non stiamo più andando verso una selva oscura.

    Questo boom garantirà accesso all’energia a un numero sempre maggiore di persone anche nei Paesi produttori in via di sviluppo?
    Questo boom garantirà a tutti un maggior accesso all’energia, ma pone anche nuove questioni. Il precedente scenario si fondava sul fatto che le risorse tradizionali erano destinate a esaurirsi e quindi bisognava sviluppare fonti alternative. Ora invece sappiamo che il petrolio e il gas non stanno per finire ma forse vogliamo comunque, per scelta, sviluppare fonti alternative. Il dibattito sulle politiche pubbliche per l’energia si è spostato e, a mio avviso, in una direzione che guarda molto più avanti e che è incentrata sullo stile di vita a cui si aspira.

    Lei ha sottolineato come questa nuova “abbondanza abbia scatenato timori oltre che entusiasmi, considerando la lunga e sordida storia dell’Africa come preda di cacciatori di risorse e vittima di leader rapaci” anche se gli eventi più recenti, compresa la Primavera araba, hanno mostrato “l’interesse dei produttori” verso politiche per il petrolio “più trasparenti”. Può fare qualche esempio concreto?
    In Libia, ad esempio, la Primavera araba ha mostrato come le popolazioni degli stati del petrolio non solo siano molto interessate alla loro forma di governo, ma sanno anche agire per determinarla. Allo stesso modo la forma di governo negli stati del petrolio interessa molto alle compagnie che operano su orizzonti di 30 o 40 anni e dunque devono poter contare sul rispetto dei contratti e sulle relazioni con chi prende le decisioni. Gli attentati e l’instabilità in Kenia e in Nigeria dovrebbero ad esempio suonare come campanelli d’allarme per le compagnie che operano in quegli stati.

    Dare elettricità a 1,3 miliardi di persone che ora non ne hanno, viene considerato uno degli elementi cardine per uno sviluppo sostenibile. È solo una questione umanitaria o può essere anche un business profittevole?
    Le grandi opere di beneficenza, perseguite da personaggi come Bill Gates, stanno facendo da apripista in questa direzione. L’elettrificazione di un Paese può essere nell’interesse geopolitico e macroeconomico e non è dunque una questione meramente umanitaria.

    La volontà di utilizzare le proprie risorse per garantire un maggiore accesso all’energia manifestata da alcuni paesi in via di sviluppo, giustifica secondo lei decisioni come la nazionalizzazione della YPF in Argentina o delle reti elettriche in Bolivia?
    Il presidente argentino Cristina Fernández potrà anche sentirsi giustificata da interessi domestici per le sue mosse su YPF e Repsol, ma è rischioso perché spaventa gli altri investitori nel Paese e tutti i potenziali investitori, per non parlare delle agenzie di rating!

    L’enorme potenziale di petrolio e gas in Mozambico, in una posizione geografica favorevole anche per le esportazioni verso l’Europa, può ridimensionare il ruolo della Russia nel mercato dell’energia del Vecchio Continente?
    Questa è la principale implicazione geopolitica delle ingenti scoperte di gas in Mozambico. Già la rivoluzione dello shale gas in USA ha scosso l’equazione sui prezzi in Europa con Gazprom costretta ad abbassare le quotazioni dell’oro blu in alcuni paesi. Se il gas del Mozambico dovesse riversarsi in Europa in modo cospicuo, ci sarebbe più concorrenza sui prezzi e la capacità di leverage di Gazprom sul mercato verrebbe seriamente ridimensionata.

    Rispetto a quando è uscito il suo famoso libro “The Oil and the Glory: the pursuit of empire and fortune on the Caspian Sea” (“Il petrolio e la gloria”,ndr) nel 2007, com’è cambiato il ruolo del Caspio nella lotta epocale per il controllo dell’oro nero del pianeta?
    C’è stato certamente un cambiamento per l’area del Caspio: da ruolo centrale nella grande geopolitica a ruolo secondario per una lotta che si sta estinguendo. Le attuali tensioni Est-Ovest sul fronte delle pipeline in Europa hanno le loro radici nella strategia diplomatica americana degli anni Novanta quando l’obiettivo era di allentare la presa della Russia sull’Asia Centrale e sul Caucaso. All’epoca ciò rappresentava un pilastro della politica estera Usa. Una delle due gambe di questa politica era rappresentata dal gasdotto Baku-Ceyhan, divenuto operativo nel 2006. La seconda gamba, la Trans-Caspian pipeline, dal Turkmenistan all’Europa, non si è invece mai materializzata e dubito che lo sarà, almeno entro la fine di questo decennio. Il progetto si è infatti trasformato nel Nabucco, una versione molto più corta che dovrebbe partire non in Turkmenistan ma in Iraq, in Kurdistan o comunque dove vi sia gas sufficiente da giustificare la costruzione. L’Asia Centrale rimarrebbe così isolata rispetto all’Occidente e attratta verso l’Est , verso la Cina. Così staccata politicamente, l’unico interesse di Washington per il Caspio al momento è legato al fatto che si tratta di una rotta di transito per le forniture belliche in Afghanistan.

    In questo scenario come giudica il progetto South Stream? Molti osservatori lo considerano il gasdotto più fattibile perché, oltre alla Russia, coinvolge i principali player del Vecchio Continente ed ora, con la designazione del socialdemocratico tedesco Henning Voscherau alla presidenza, potrebbe guadagnarsi lo status di progetto strategico in seno all’Ue.
    Originariamente il South Stream è nato come risposta alternativa al Nabucco e all’Ucraina da parte della Russia. Penso che se il Nabucco non si materializzasse e le tensioni con l’Ucraina venissero meno, Vladimir Putin lascerebbe tranquillamente morire il progetto. E ciò potrebbe ancora accadere: ci si chiede perché Putin voglia spendere 10miliardi di dollari per la costruzione di questo gasdotto. C’è poi il fattore Cina. Se venisse siglato un accordo con Pechino, South Stream morirebbe . Ma di certo, anche per le ragioni sottolineate nella domanda, Putin sembra determinato a portare avanti il progetto indipendentemente dall’Ucraina e dal Nabucco.

    Sul Nabucco l’Ue ha annunciato una decisione finale il prossimo anno. Se il progetto venisse realizzato, secondo lei, sarebbe destinato a competere con il Gasdotto Europeo del Sud-Est (SEEP) o potrebbe fondersi con il Tanap?
    Penso che assisteremo ad una combinazione tra il gasdotto SEEP sostenuto da BP e un connettore meridionale. Il fatto che BP, proprietaria dei principali asset azeri, abbia pubblicamente sostenuto questa linea, la dice lunga. Nella remota possibilità che venisse raggiunto un accordo sul nucleare con l’Iran tutte le ipotesi sarebbero sul tavolo. Potrebbe sembrare strano, ma se mi si chiede di fare una previsione, io insisto sul fatto che il Nabucco non si materializzerà almeno fino alla fine del decennio.

    Chi è Steve LeVine Scrittore, giornalista e blogger, LeVine, attualmente risiede a Washington, D.C., dove segue la geopolitica dell’energia per la rivista Foreign Policy, che ospita il suo blog “The Oil and the Glory”. Per 11 anni, a partire da due settimane dopo il crollo dell’Unione Sovietica fino al 2003, ha vissuto tra l’Asia Centrale e il Caucaso. È stato corrispondente per The Wall Street Journal per la regione delle otto nazioni e prima ancora per The New York Times. Tra il 1988 e il 1991, LeVine è stato corrispondente di Newsweek per il Pakistan e l’Afghanistan, mentre dal 1985 al 1988 è stato corrispondente dalle Filippine per Newsday. Ha pubblicato due libri: The Oil and the Glory (2007), che racconta vicende di battaglie alla conquista di fortuna, gloria e potere sul Mar Caspio; e Putin’s Labyrinth (2008), la storia della Russia raccontata attraverso la vita e la morte di sei personaggi, di cui nel 2009 è stata pubblicata una versione aggiornata in edizione in brossura da Random House.

  • Ogni petrolio ha il suo picco

    spensierata.mente | Mercoledì 18 luglio 2012 |  |

    Come direbbe Totò, “ogni picco ha il suo petrolio” . Ho letto ultimamente vari interventi sul picco del petrolio, che non esisterebbe più, o sarebbe un’idea superata e altre amenità. A me pare che non si valutino le cose da un punto di vista molto semplice: in natura tutte le risorse sono limitate e che lo vogliamo o no le miniere e i giacimenti con il tempo si esauriscono. Tutto il resto sono sciocchezze. Oppure si parla d’altro, mischiando petrolio naturale, gas naturale, carbone, mercato delle materie prime, petrolio e gas ottenuti dalla fratturazione delle rocce di scisto, in un miscuglio insensato.

    Tutto nasce da “C’ERAVAMO SBAGLIATI SUL PICCO DEL PETROLIO” (www.comedonchisciotte.org) di George Monbiot.
    ” I fatti sono cambiati, ora dobbiamo cambiare anche noi. Nel corso degli ultimi dieci anni un’improbabile coalizione di geologi, trivellatori di petrolio, banchieri, strateghi militari e ambientalisti ci hanno predetto che il picco del petrolio – il declino delle forniture mondiali – era imminente.

    Il Picco del Petrolio non è avvenuto, ed è improbabile che accada per molto tempo ancora.

    Un rapporto dell’esperto petrolifero Leonardo Maugeri, pubblicato dall’Università di Harvard, fornisce prove inconfutabili che è appena iniziato un nuovo boom del petrolio.”

    E prosegue mischiando dati riguardanti il brent classico con quello “innovativo” prodotto con il fracking.

    Fa chiarezza sul punto U. Bardi in “ABBASTANZA PETROLIO PER FRIGGERCI TUTTI” (www.comedonchisciotte.org)


    “George Monbiot … Si sbaglia sul picco di petrolio, ma ha ragione sulla sua conclusione finale: ci sono abbastanza combustibili fossili per friggerci tutti.

    il vero errore fatto da Monbiot è stato quello di aver dato eccessiva importanza al picco del petrolio per il cambiamento climatico. Fino ad ora le stravaganze sulla produzione di petrolio non hanno influenza di molto l’andamento delle emissioni di gas serra. Adesso anche se la produzione di greggio è stazionaria da diversi anni, le emissioni di anidride carbonica continuano ad aumentare.

    Questo è quello che ci si aspetta: il petrolio è solo una delle fonti di CO2 in eccesso nell’ atmosfera e il costo sempre maggiore per estrarlo sta spingendo l’ industria ad un utilizzo di carburanti sporchi. In altre parole, stiamo assistendo ad una tendenza all’ utilizzo di carburanti che rilasciano sempre più CO2 per la solita energia prodotta”

     
    Al di la delle tesi ambientaliste sull’aumento di anidride carbonica, il cui contributo secondo me è meno importante del semplice vapore acqueo, sul picco del petrolio Bardi ha ragione.

    Basta fare un ragionamento ordinato, e si vedrà, al di la dei dati veritieri o meno, che il picco del petrolio esiste, come esiste quello del gas o del carbone ecc. Il picco della produzione di petrolio si misura giacimento per giacimento, tipologia per tipologia, e poi si sommano i vari contributi.

    Il primo esempio, il più clamoroso picco petrolifero di un giacimento importante tradizionale, con conseguente esaurimento dello stesso, fu quello di Baku, capitale dell’Azerbaigian, un tempo repubblica sovietica russa, oggi indipendente. Attualmente sono ancora presenti nella regione pozzi petroliferi in mare. Quelli terrestri si sono esauriti da tempo.

    “A partire dal 1873 Baku assistette al boom petrolifero che diede un forte impulso al suo sviluppo urbanistico e industriale, dando vita al distretto noto come la Città Nera. In un breve lasso di tempo la città vide la fioritura di rappresentanze e delegazioni di compagnie provenienti da ogni angolo del mondo: svizzeri, inglesi, italiani, francesi, belgi, tedeschi e persino americani.

    A Baku, nel 1848, venne effettuata la prima trivellazione al mondo, lo sfruttamento economico dei giacimenti iniziò nel 1872 e all’inizio del XX secolo l’area petrolifera di Baku era la più grande del mondo, se ne ricavava oltre la metà del consumo mondiale. Alla fine del XX secolo i giacimenti terrestri si esaurirono e si passò allo sfruttamento dei giacimenti marini.”

    it.wikipedia.org )

    Il picco di estrazione del petrolio dei giacimenti terrestri a Baku avvenne probabilmente nel 1941, quando vennero estratti 125 milioni di barili da parte dei sovietici. L’intenzione di Hitler nella seconda guerra mondiale era di occupare Baku per rifornire i suoi mezzi militari e proseguire la guerra.

    “Nel 1940 Baku era la gemma dell’industria petrolifera sovietica e il petrolio azero rappresentava il 72 % del petrolio estratto nell’Unione Sovietica, con il quale venivano rifornite le linee del fronte.

    Il piano di Hitler era quello di prendere Maikop (Russia) e Grozny (Cecenia ) ma soprattutto Baku ossessionato dall’idea del petrolio e dei rifornimenti che potevano avere un peso decisivo sull’esito della guerra, con il Petrolio caucasico e le fattorie Ucraine l’ impero nazista avrebbe potuto essere autosufficiente.Il piano dell’operazione fu chiamato Edelweiss e non pianificava nessun bombardamento su Baku per non danneggiare i pozzi petroliferi

    In ogni caso senza il petrolio del Caucaso in primis di Baku il sistema militare, industriale e agricolo sovietico sarebbe collassato.

    Nel luglio 1942 i tedeschi presero Rostov poi Maikop ma il petrolio che poteva essere disponibile era poco visto che i russi in ritirata distrussero pozzi e apparecchiature, l’ avanzata tedesca prosegui fino al Monte Elbrus il punto più alto del Caucaso e il 25 settembre 1942 fu decisa come data dell’attacco definitivo di Baku.

    Fortunatamente ciò non avvenne mai… La corsa si fermò con la definitiva sconfitta di Stalingrado e Baku non fu mai attaccata.”
    (jenaplissken.tumblr.com)Quando finì la seconda guerra mondiale, la manomissione dei pozzi durante il conflitto, li rese inutilizzabili. Inoltre non erano più produttivi, erano stati sfruttati fino all’ultima goccia, almeno con i metodi estrattivi di allora.

    “Carcasse di vecchi impianti petroliferi, nere per l’invecchiamento e l’uso, si stagliavano silenziosamente sull’orizzonte”  (Il petrolio e la gloria. – Di Steve LeVine books.google.it)
    I leggendari giacimenti di Baku, che ne avevano fatto la fortuna dalla fine dell’ottocento, erano esauriti.
    Nel 1947, le trivellazioni ripresero pionieristicamente nel Mar Caspio, ma il petrolio di Baku non ebbe più l’importanza per l’URSS e il mondo che ebbe fino alla seconda guerra mondiale.
    Il picco di petrolio dei giacimenti di Baku, fu quello che si manifestò con più drammaticità, a causa della guerra, ma è un fatto che tutti i giacimenti si esauriscono prima o poi. E’ sbagliato mischiare le carte come ha fatto Manbiot. Anche i giacimenti petroliferi e del gas coltivati con la fratturazione degli scisti avranno un loro ciclo di estrazione e prima o poi si esauriranno. La produzione dei giacimenti tradizionali, è già stata prolungata utilizzando tecniche estrattive sempre più innovative e costose.
    E il punto è proprio questo. Il petrolio si esaurisce non quando finisce veramente, ma quando diventa eccessivamente costoso estrarlo. Il vantaggio del fracking è quello di essere una tecnica non eccessivamente onerosa, meno di quella utilizzata per “lavare” le sabbie bituminose.
    Quindi il picco complessivo non può mai essere previsto in modo preciso, poichè può sempre sopraggiungere una nuova tecnica che permette di produrre nuovi tipi di greggio. La previsione va attualizzata al momento in cui viene fatta e dipende dalle tecniche estrattive di quel momento.
    Certo chi pensava che con il picco del petrolio tradizionale si arrivasse rapidamente al suo esaurimento, rimarrà deluso. Il petrolio è un combustibile, un tempo economico, contenente all’85% carbonio. Ma questo elemento chimico che lo rende combustibile, è presente sulla Terra sotto diverse forme. La maggior riserva di carbonio terrestre non si trova nell’atmosfera, e nemmeno nei giacimenti di idrocarburi, ma nelle rocce calcaree derivate dai gusci di miliardi di microrganismi marini che depositandosi si sono cementati in milioni di anni. Se si dovesse trovare in futuro una tecnica per estrarre il carbonio da queste rocce, altro che picco del petrolio…

    Uno degli articoli più ridicoli sul picco del petrolio, in contestazione a Manbiot, è quello scritto da C. Stagnaro, su www.chicago-blog.it, il quale sostiene che:
    “… la disponibilità fisica di greggio è una variabile rilevante ma non è né l’unica variabile né quella più importante. Ciò che guida il processo è infatti il sistema dei prezzi. Se, stante un certo livello della domanda, la quantità disponibile di petrolio a quei prezzi diminuisce, i prezzi saliranno. Ciò non sarà privo di conseguenze: da un lato i consumatori modereranno la propria domanda, dall’altro i produttori troveranno economico produrre da altre risorse e investire in ricerca per scoprirne di nuove “E’ l’idea classica della teoria liberista che si basa su beni e risorse infinite. E’ come dire che la dinamica dello scambio di Sarchiaponidipende unicamente dalla formazione del prezzo in un mercato di domanda ed offerta, e non dal fatto che il Sarchiapone esista veramente.

    Le risorse naturali sono finite, il loro esaurimento segue sempre lo stesso schema. Ridurre il tutto a domanda e offerta mi pare una semplificazione eccessiva. Non sono fondamentali qui le tecniche economiche, ma le tecniche estrattive, senza le quali non si va da nessuna parte.
    Comunque, la situazione di crisi mondiale, contribuisce al risparmio di petrolio e degli altri idrocarburi, e quindi ad un prolungamento delle previsione sulla loro estinzione. Credo che dovremo fare ancora i conti con le emissioni inquinanti degli idrocarburi per molto tempo. Sulle fonti alternative, anche a causa della crisi, non si fanno più investimenti, si continuerà pertanto a bruciare petrolio, gas e carbone. A meno che uno shock provocato da una guerra in Medio Oriente non faccia aumentare nuovamente il prezzo del brent.
  • “Il labirinto di Putin” Il rilancio politico di stampo zarista

    L’Opinione delle Libertà | Mercoledì 23 marzo 2011 | Maria Antonietta Fontana |

    “Poco prima della mezzanotte del 1 novembre 2006, Alexander Litvinenko, un ex agente dell’intelligence russa che viveva in esilio politico a Londra, si svegliò che stava proprio male. Nel giro di qualche giorno, una spaventosa fotografia del suo corpo emaciato in un letto d’ospedale scioccò il mondo.
    Tre settimane più tardi era deceduto per avvelenamento da polonio-210, un isotopo radioattivo che secondo gli investigatori era stato versato di nascosto in una bevanda”.
    A volte mediocri scrittori di gialli inventano le trame più astruse per cercare di coinvolgere emotivamente i propri lettori.
    Ma quando le trame e gli intrighi sono cronaca e storia, la loro presa sulla pubblica opinione è immediata ed ha una portata assolutamente dirompente. Certo è, però, che portare alla luce del sole certe vicende implica la necessità di un grandissimo coraggio, oltre che basarsi su una conoscenza approfondita e di prima mano delle realtà su cui si pretende di fare chiarezza.
    Se poi queste caratteristiche si sposano con una grande abilità nel tenere la penna in mano, il risultato è assolutamente avvincente. E questo è proprio il caso del libro di Steve LeVineIl labirinto di Putin: spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia”, pubblicato in italiano dal Sirente a fine settembre 2010 (l’edizione originale in inglese è apparsa nel 2008) nella collana “Inchieste”, dove già era apparso il suo volume “Il petrolio e la gloria”, e di cui vi abbiamo appena proposto l’incipit prepotente ed efficacissimo.
    Il libro si apre e chiude con l’assassinio di Livtinenko, ucciso nel novembre 2006 attraverso una contaminazione di polonio 210; e analizza in dettaglio una lunga serie di altri improbabili e fantasiosi omicidi politici o di strane inettitudini nell’affrontare crisi politiche particolari.
    Nell’ordine i più significativi sono: Nikolai Khokhlov, la strage di Nord-Ost, Paul Klebnikov, Anna Politovskaya, Natalia Estemirova. I personaggi che entrano in questo dramma sono loro, le vittime illustri di un gioco al massacro, insieme ad altre personalità di primo piano, tra cui ovviamente Vladimir Putin, Dmitri Medvedev, ma soprattutto quel Boris Berezovsky che aveva fatto e disfatto le fortune di molti uomini politici russi e che tirò fuori dal nulla Putin: ma stavolta aveva sbagliato i calcoli, e nel contrasto con quest’ultimo è stato poi costretto a rifugiarsi nel proprio dorato esilio a Londra, da dove ha continuato e continua ad animare e sponsorizzare economicamente l’opposizione a Putin ed al “putinismo”.
    Non è un caso che Livtinenko, scappato dalla Russia sei anni prima della sua prematura morte, fosse sul suo libro paga. Le motivazioni che portano LeVine a scrivere questa inchiesta affondano le proprie radici nella sua missione professionale di giornalista da sempre interessato a studiare gli intrecci tra il potere derivato dalla produzione e distribuzione del petrolio e le vicende politiche mondiali, nonché dalla propria emotività personale, ed in particolare dalla commozione suscitata in lui dalla morte del collega del Wall Street Journal ed amico, Daniel Pearl, rapito ed ucciso in Afghanistan nel 2002.
    In realtà LeVine cercherà di dimostrare l’esistenza di un filo sottile e infrangibile che lega insieme tutta una serie di strani casi di cronaca nera svoltisi in Russia. La chiave di lettura che egli ci propone fa rabbrividire, anche se non costituisce certamente una sorpresa per chi si interessi di storia russa.
    Infatti tradizionalmente la Russia ha sempre riprodotto un modello di comportamento uguale a se stesso: fino a che questa ha costituito un motivo di interesse fondamentale nella strategia delle comunicazioni planetarie, ha sempre perseguito l’espansione verso il mare (fosse questo il Pacifico ad est, o il Mediterraneo a sud – con tutto quel che ne consegue quanto a coinvolgimento nelle questioni dei Balcani).
    Quando poi la questione delle comunicazioni marittime e quindi dello sbocco sugli stretti sembrava superata dallo sviluppo tecnologico, si è imposto un altro problema: quello del controllo delle vie del petrolio e del metano. Per ottenere questi scopi, gli zar prima, i dittatori sovietici poi, e adesso – secondo l’analisi di LeVine – Putin, non hanno esitato a ricorrere all’omicidio e perfino alla strage di stato.
    E ci sono più modi di agire: sia attivamente, sia –come LeVine ribadisce – passivamente. Infatti anche gli “errori” nel gestire le crisi, quando si ripetono, non possono più essere considerati casuali, ma evidentemente entrano a far parte di una strategia che ha il solo scopo di fare perseguire al governo quel che questo si propone.
    E’ molto interessante scoprire le motivazioni che sottostanno a certe scelte. Infatti, come LeVine ricostruisce attraverso un paziente lavoro di interviste, confronti tra dati, libri, testimonianze, ricostruzione di fatti, etc etc, dopo la caduta di Gorbacev in Russia si assiste ad un periodo di caos e di caduta della sicurezza personale a livelli mai stati tanto bassi (se non tornando indietro nel tempo alle lotte dei boiari dei tempi di Ivan Groznyj – quello che noi chiamiamo “Ivan il Terribile”); ma poi l’arrivo al potere di Vladimir Putin pone fine a questa situazione, perché rientra nella visione di quest’ultimo lo scopo di restituire alla Russia il suo ruolo di stella di prima grandezza nella politica mondiale.
    E questo significa intanto garantire uno stile di vita più consono ad una rinnovata grande potenza. Ma Putin, secondo LeVine, nel cercare di centrare il proprio obiettivo, non ha alternative che spazzare via qualsiasi tipo di opposizione che possa indebolire l’immagine del proprio Paese all’estero.
    Così chi si oppone deve sparire. Certo, lo si fa prevalentemente all’interno degli stessi confini russi, dove poi si può garantire la copertura a chi opera gli assassinii. E il modo scelto per operare è fantasioso, ed ha lo scopo di non consentire mai di risalire ai veri mandanti.
    Berezovsky, che da anni vive in esilio in Gran Bretagna, ha dovuto uscire dal proprio Paese come conseguenza del successo dell’ascesa di Putin, che egli stesso aveva caldeggiato e favorito in tutti i modi. LeVine analizza le manovre che hanno portato al potere l’apparatcik del KGB dagli occhi di ghiaccio, smantellando il mito di un Putin grande agente segreto assurto al potere proprio in virtù di sue personali capacità ed informazioni; Putin fu inizialmente scelto perché apparentemente tutto d’un pezzo nell’amore e nella fedeltà al servizio del proprio Paese (e, quindi, secondo Berezovsky, abbastanza semplice da convincere a stare dalla propria parte).
    Allo stesso modo, terminato il secondo mandato presidenziale, Putin ha fatto scegliere Medvedev, perché costui non presenterebbe quelle caratteristiche di decisionismo che potrebbero farne un nuovo autocrate. Putin stesso, però, nel frattempo, è riuscito a sorpresa a sostituire alle idee di Berezovsky i propri scopi, servendo a modo suo l’idea del ritorno della Grande Madre Russia sul palcoscenico internazionale.
    La Russia di Putin oggi naviga tra violenza e cultura di morte, e l’ipocrisia di stato può consentire a Mevedev di deprecare la morte della Estemirova e dichiarare che si cerca attivamente l’assassino, ma a distanza di un anno dall’esecuzione della paladina dei diritti umani dell’organizzazione “Memorial” (ben attiva ai tempi di Eltzin, e tristemente svuotata di ogni slancio a distanza di pochi anni) nessun risultato è seguito, perché il controllo degli Interni e degli apparati di sicurezza militari resta saldamente nelle mani di quello stesso Putin che ha chiaramente ingaggiato un nuovo braccio di ferro con l’Occidente e sta velocemente riportando la Russia verso i ben noti sistemi sovietici con la sola esclusione del ripristino di un sistema di visti per i viaggi – perché tornare alle limitazioni sui movimenti dei russi all’estero gli costerebbe troppo in termini di popolarità, e non può permetterselo neanche lui.
    Con molta lucidità, LeVine ci indica anche i punti in cui le proprie convinzioni personali quanto al coinvolgimento di Putin in certe vicende non incontrano l’accordo di altri studiosi, storici, o personaggi direttamente coinvolti nei fatti esaminati in questo suo libro. Resta il fatto che il ritmo incalzante degli avvenimenti, la ricostruzione di momenti di grande tensione (quale l’attentato al Teatro Dubrovka o la tristissima storia della strage di Beslan, in Ossezia, nel 2004), la citazione precisa di testimoni e documenti rendono la lettura di questa inchiesta un avvincente “must” per chiunque intenda affrontare l’esame della politica est-ovest e le sue prospettive in questo scorcio di nuovo millennio.
    Anche se, purtroppo, la conclusione che se ne trae, è che il lupo perde il pelo, ma non il vizio. E, come lo stesso LeVine conclude nella sua postfazione al libro, datata 16 luglio 2010, è che “le dichiarazioni rese e le indagini ordinate da Medvedev non hanno rappresentato una rottura convincente con il lungo passato”.

  • “Il labirinto di Putin” di Steve LeVine

    Mangialibri | Mercoledì 19 gennaio 2011 | Sara Camaiora |

    Novembre 2006, Alexander Livtinenko è una ex spia del KGB, in esilio politico a Londra da sei anni, fortemente critico nei confronti del premier russo Putin: dopo aver incontrato il ricco uomo d’affari Alekandre Lugovoi e l’amico Akhmed Zakayev e aver cenato fuori con la moglie  e il figlio, torna a casa lamentando dolori addominali, nausea e vomito. Sarà l’inizio dell’agonia da avvelenamento per polonio che lo condurrà alla morte. 23 ottobre 2002, teatro Dubrovka di Mosca: è in scena il secondo atto del musical “Nord Ost” quando irrompe nell’edificio un commando di terroristi ceceni, pronti a mettere sotto sequestro il teatro in cambio della conclusione della sanguinosa guerra in atto nel loro paese ad opera della Russia di Putin. Interviene anche la giornalista Anna Politkovskaya, il cui destino è tristemente famoso, all’epoca cronista della Novaya Gazeta e unico interlocutore ammesso dal leader del gruppo armato ceceno, precedendo l’imprevedibile reazione del governo russo: all’interno del teatro viene pompato del Fentanyl, un potente oppiaceo in grado di addormentare i presenti, nell’edificio, per permettere alle forze speciali nazionali di fare irruzione. Secondo stime ufficiali 39 dei terroristi furono uccisi da agenti russi insieme assieme a oltre 100 ostaggi. L’esercizio del potere di Putin vide anche un accanimento verso chi accumulò ingenti patrimoni durante l’era Eltsin: è il caso del magnate del petrolio Mikhail Khodorkovsky condannato ad otto anni di prigione mentre la sua compagnia venne statalizzata…
    Sembrano racconti degni di un cupo noir o peggio ancora di un thriller senza lieto fine: sono invece storie dalla Russia di Putin, raccontate con precisione giornalistica da un esperto reporter come l’americano Steve LaVine, a lungo corrispondente dall’ex Unione Sovietica per svariate testate. Il suo libro racconta la “morte in Russia”: come alla morte sia data in un certo senso poca importanza, o come chi vive, chi lavora, chi fa informazione in Russia sia totalmente assuefatto a tragedie talvolta dalla portata epocale, come quella del teatro Dubrovka, che ha visto una reazione governativa improponibile per ogni democrazia che si rispetti o che si ritenga tale. È attraverso queste vicende che nel lettore prende forma una nuova idea della Russia e delle forze che si stanno muovendo in Occidente. L’immaginario raffigurato, a tratti apocalittico, si basa su testimonianze  e fatti concreti, su cui il giornalista si può appoggiare fornendo un quadro tanto verosimile quanto avvilente. C’è poca analisi politica ma non era questo probabilmente l’obiettivo dell’autore: era piuttosto far riflettere attraverso l’esposizione dei fatti reali, arrivando a eventuali conclusioni solo a partire dal dato concreto. E le conclusioni spaventano, non poco.

  • È ancora l’unico che abbiamo

    Circolo Pasolini Pavia | Sabato 5 settembre 2009 | Irene Campari |

    Parliamo del petrolio, altrimenti si rischia di capire poco delle politiche nucleari. In libreria ci sono diversi saggi che trattano l’argomento, da Steve LeVine, Il petrolio e la gloria, edizioni il Sirente, e The the epic quest for oil, money and power di Daniel Yergin, premio Pulitzer per quel saggio del 1991, tradotto in italiano con il titolo Il premio nel 1996 e ora non più in catalogo. Quest’anno l’autore lo ha aggiornato. “Foreign Policy” ha proposto un suo articolo il 24 agosto scorso dal titolo: “It’s still the one”. E’ ancor l’unico. Meritoriamente “Il Sole 24 ore” lo ha tradotto. Le posizioni circa il petrolio, il suo ruolo e quanto durerà sono all’ordine del giorno. Sono apparsi in queste ore sulla stampa internazionale articoli in cui si sottolineava l’ormai avvio del petrolio verso il tramonto. Se si dovesse applicare la teoria dei Cicli di Kondratiev, nel 2025 si dovrebbe arrivare alla saturazione del macrosistema (trasporti e industria) retto da questa fonte energetica e necessariamente il mondo produttivo dovrebbe essere pronto ad adattarsi. La guerra quindi tra il nucleare, fissione o fusione fredda, le energie verdi e rinnovabili avrebbe poco più di 15 anni di tempo per le doglie (riconversione della produzione capitalista compresa e conflitti geopolitici magari spacciati per “etnici”) dopodichè dovrebbe partorire. Di seguito è l’articolo di Yergin.

  • Il petrolio e la gloria, tutto inizò nel Mar Caspio

    | AGI | Sabato 8 agosto 2009 | Antonio Lucaroni |

    Nel 13esimo secolo Marco Polo narra di cammellieri che esportavano petrolio da Baku, la capitale dell’Azerbaigian, nella zona del Mar Caspio, una regione al centro di contese etniche e belliche gia’ dai tempi di Alessandro il Grande. Un greggio denso, odoroso, non raffinato, esportato in tutto il Mediterraneo, fino a Baghdad, per essere usato come mezzo di illuminazione e come balsamo. Un “oro nero” che in quella localita’ era ed e’ particolarmente abbondante, fino al punto di sgorgare naturalmente dal terreno. Da quel momento il petrolio entra prepotentemente nella storia dell’uomo, marchiandone ineludibilmente lo sviluppo economico. E quell’area geografica, il Mar Caspio, diventa il crogiuolo di pulsioni di grandezza e di volonta’ di dominio ma anche di grandi aspirazioni di progresso e di crescita. La storia del petrolio del Caspio, e piu’ in generale della zona del Caucaso, ha le sue origini nel diciannovesimo secolo. La “febbre del Caspio” era cominciata gia’ al tempo degli Zar; quando si scavarono i primi pozzi di petrolio vicino a Baku, nella regione dell’Azerbajan, e da quel momento fasi di ricchezza e prosperita’ si alternano a depressione e poverta’. Ma quella regione diventa anche uno scenario sul quale si confrontano e spesso si scontrano, gli interessi e le aspettative delle grandi potenze internazionali: un campo da gioco dove tutti i colpi sono ammessi. E’ questo il grande affresco che viene tratteggiato dal libro di Steve LeVineIl petrolio e la gloria. La corsa al dominio e alle ricchezze della regione del Mar Caspio“, edizioni ‘il Sirente‘. Un excursus storico, quello di LeVine, che arriva fino ai giorni scorsi, scritto con grande attenzione ai personaggi, alle storie avventurose che hanno caratterizzato, negli anni, il confronto tra le Nazioni per il controllo dell’oro nero. Una battaglia condotta spesso in modo spregiudicato, caratterizzato da un clima da spy-story di inizio secolo, poi da ‘guerra fredda’, infine dall’ingresso sulla scena del mondo dell’alta finanza e delle superpotenze economiche.
    Un libro avvincente, che squarcia il velo su un mondo duro e senza scrupoli e che mostra – guardando con una lente d’ingrandimento le vicende legate al Mar Caspio – quanto la ricerca del petrolio e, ancor di piu’, i tentativi di appropriarsene, abbiano influenzato il destino dell’umanita’. In questo senso LeVine sfrutta la sua formazione professionale – giornalista di lungo corso che ha lavorato proprio in quelle zone – per ricostruire, come in un giallo, la scena del delitto, i protagonisti, i retroscena e i segreti che muovono i tanti ‘attori’ di questo libro, a meta’ strada fra l’inchiesta e il romanzo. Forse l’unico appunto che si puo’ muovere, e’ che l’autore propone una visione ‘anglocentrica’ dell’intera vicenda, mettendo sullo scacchiere il ruolo della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e di una Russia all’affannosa riconquista di un ruolo da superpotenza sfruttando le risorse energetiche. Nel libro, insomma, manca un po’ il ruolo esercitato dagli altri Paesi grandi produttori di petrolio, o dai grandi Paesi consumatori di energia – come la Cina e l’India, la cui immensa domanda di petrolio e gas modifica e modifichera’ sempre di piu’ il mercato dell’energia – o, ancora, dagli outsider che, tuttavia, avevano capito le potenzialita’ di sfruttamento di quella regione. E’ il caso di Enrico Mattei che fin dagli Anni ’50 – attraverso l’Agip – aveva allacciato rapporti e sottoscritto contratti con l’allora Urss. E non a caso l’autore conclude la sua opera con un esplicito richiamo – che sa un po’ di nostalgia o di visione schematica del mondo – al ‘duello’ Russia-Usa per il dominio politico ed economico.

  • Titusville, la città-fantasma che inventò l’oro nero

    La Repubblica | Domenica 26 luglio 2009 | Vittorio Zucconi |

    TITUSVILLE (Pennsylvania). Tutto quello che resta del fiotto che allagò la Terra è un’ ampollina di liquido scuro, esposta ai fedeli dietro una vetrina, come la reliquia di un santo. «Petrolio», mi addita senza toccare l’ ampolla la signora Zolli, direttricee sacerdotessa di questo tempio-museo costruito fra le quiete colline della Pennsylvania, accanto a un bosco di larici e di cervi, esattamente sopra il terreno dal quale, il 27 agosto del 1859, un avventuriero che si faceva chiamare «colonnello» fece sgorgare il greggio dalla terra perforata. E lanciò, senza neppure rendersene conto, quella rivoluzione e quella industria che oggi muovono il pianeta Terra e che lo stanno asfissiando. Se nell’ Inghilterra del carbone e del vapore cominciò la rivoluzione industriale, fu da qui, dalla terra che un tempo apparteneva alle sei nazioni degli Irochesi che raccoglievano col cucchiaino il «succo delle rocce» in superficie per usarlo come medicinale, che si avviò quella carovana di barili, oleodotti, petroliere, raffinerie, stazioni di servizio, catene di montaggio e armi che raggiungono sei miliardi di esseri umani, poveri o ricchi, ovunque un sacchetto di plastica arrivi. ( segue dalla copertina) Eppure luogo meno trionfale, meno pomposo, più timido, con la scontrosità della Pennsylvania che Michael Cimino raccontò nel suo Cacciatore, potrebbe essere immaginato di questa languida cittadina di seimilaquattrocento abitanti, molti dei quali studenti in un campus della Università di Pittsburgh. Un villaggio qualsiasi, nel «grande ovunque americano», che sta nascosto tra le infinite valli degli antichissimi monti Appalachiani, la spina di roccia logorata dalle ere geologiche fra l’ Alabama e Terranova. Ironicamente, per il Paese che inventò l’ industria del petrolio, nessuna autostrada lo raggiunge, nessun viandante lo attraversa se non smarrisce la strada, e rari turisti transitano avanti e indietro lungo una Main Street rimasta intrappolata nel tempo, dove non ti sorprenderebbe vedere Superman bambino sulla Ford Modello T del padre. Soltanto perché io sono l’ unico passeggero, e visibilmente adulto, sul finto tranvaino turistico che offre per cinque dollari il giro della città, la guida mi addita, con pudore, un palazzetto di mattoni rossi a tre piani che negli anni della “corsa al petrolio” era il più vivace e frequentato bordello della contea. E oggi ospita, per pura coincidenza, un negozio di abiti da sposa che quelle povere ragazze di fine Ottocento costrette ad amplessi fetidi coni trapanatori del petrolio avrebbero sognato invano. Tutto quello che rimane del fiotto che sgorgò dal campo dove ora sorge il museo è appena abbastanza greggio per alimentare la riproduzione (autentica, come si dice qui) della prima trivella del finto colonnello Edwin Drake, un secolo e mezzo fa, e per mostrare ai visitatori delle scuole come funziona l’ estrazione del petrolio che non c’ è più. Se Titusville, battezzata con il nome del fondatore, non è diventata una città fantasma come le città minerarie del C o l o r a d o , d e l Klondike, della California quando le vene aurifere si esaurirono, è per il campus universitario e per la presenza di una fabbrica di plastica, alimentata con il petrolio importato dall’ Arabia Saudita. Due motel a una stellina, l’ immancabile grande magazzino di ciarpame made in Cina, il Wal Mart, quattro saloone una dozzina di ristoranti alla svelta sono tutto quello che rimane di una scoperta che avrebbe prodotto, centocinquanta anni più tardi, una ricchezza mondiale da milletrecento miliardi di dollari annui per le nazioni produttrici di petrolio. E che qui, nella terra spompata, è un ricordo. Il petrolio greggio, per chi non lo avesse mai visto da vicino, è una cosa che fa schifo, come è ovvio che sia un distillato di putrefazioni organiche millenarie. Ma qui non si avverte più nell’ aria quell’ odore di corruzione sulfurea che mi rimase per sempre nelle narici dai giorni della Prima guerra del Golfo, quando Saddam Hussein nel febbraio del 1991 allagò il Kuwait per la rabbia di averlo perduto. Sono ormai solo i nomi dei paesi e dei luoghi che si attraversano nel labirinto degli Appalachiani per raggiungere Titusville da Pittsburgh che ricordano che cosa esplose qui, nomi come Oil City, Pithole (il buco del pozzo, oggi villaggio fantasma) e Oil Creek, il torrente del petrolio, nel quale ancora affiorano striature luminescenti di greggio. Alla metà dell’ Ottocento, quando arrivò il “colonnello” Drake, che si era attribuito il grado fasullo, il fetore di petrolio era pungente. Furono quell’ odore, la tradizione dei nativi che lo scucchiaiavano dalle pozzanghere e il traffico dei pochi barilotti usati per accendere i lumi a petrolio ad attirare il “colonnello” e a spingerlo a chiedere i diritti di esplorazione al proprietario dei terreni, che neppure immaginava di essere seduto sopra il futuro del mondo. Drake arrivò a Titusville quando il paese era un grumo di casette di legno attorno a un “trading post”, un emporio per il commercio con gli indiani della vicina valle dell’ Ohio, con una borsa di pelle, un cambio di mutandoni, duemila dollari in contanti ottenuti da finanziatori di Wall Street e lo spazzolino da denti con le setoline logore che la badessa del tempio, la signora Zolli, figlia di generazioni di immigrati italiani piovuti sulla Pennsylvania, mi mostra compiaciuta. Ai geologi, come agli abitanti originali degli Appalachiani, la presenza di petrolio nel sottosuolo era evidente,e la nafta, da esso derivata, era conosciuta all’ umanità da secoli, probabilmente parte della inestinguibile miscela infernale che le navi di Bisanzio lanciavano sulle flotte nemiche, il fuoco greco. Ma quando, dopo ripetuti fori nella terra, e debiti per rifinanziare la ricerca, il primo “gusher”, il primo fiotto uscì dal praticello fangoso, la sua intuizione non fu la materia oleosa succhiata ai sedimenti lasciati dall’ oceano tiepido che aveva inondato questa valle per milioni di anni. Fu nella visione della domanda insaziabile che il mondo avrebbe sviluppato per quella schifezza maleolentee fino ad allora quasi inutile, perché il petrolio in quel 1859 era una soluzione alla ricerca di un problema. Un carburante senza un motore. Mancavano ancora diciassette anni alla messa a punto del primo motore a quattro tempi e a combustione interna, creato da Daimler, Otto e Maybach nella lontanissima Germania. E decenni alla scoperta della superiorità del motore diesel sulle caldaie a carbone per le navi da battaglia, insaziabili divoratrici di nafta. Ma qualcun altro, anche meglio del finto colonnello, aveva capito quale inimmaginabile ricchezza la sua trivella in Pennsylvania aveva stappato. Il suo nome era John D. Rockefeller, piccolo commerciante di Cleveland, che dieci anni dopo la scoperta del giacimento nel cuore dei monti della Pennsylvania già si era impadronito del controllo dell’ ottanta per cento di tutte le raffinerie della regione, necessarie per trasformare il brodo nero in carburanti, con la sua Standard Oil. La reazione a catena che avrebbe travolto l’ intero pianeta era partita. In tre anni, le catapecchie di Titusville sarebbero cresciute per ospitare quindicimila persone, il doppio di oggi, diecimila nella vicina Pithole, ventimilaa Oil City, con tralicci fitti come oggi i larici e i pioppi che hanno misericordiosamente ricoperto e risanato la terra trasformata in fango dalle ruote dei carri e dagli zoccoli dei cavalli F che trasportavano le botti. Pozzi e trivelle spuntarono a caso, senza regole o norme di sicurezza, comei cercatori d’ oro coni pentolini nel Klondike, talmente vicini e fitti da scatenare incendi ed esplosioni che in un solo giorno avrebbero incenerito ottanta persone, cremate e raccolte in una fossa comune senza crocio nomi. Sgorgarono marche di lubrificanti e carburanti destinate a stamparsi sulle pareti di ogni garage, Quaker Oil, dalla setta di quaccheri che qui erano emigrati, Pennzoil, Kendall, Sunoco, e la più celebre, la Exxon, partorita dalla Standard Oil dei Rockefeller,a sua volta figlia della Pennsylvania Rock Oil Company. Titusville era diventata la città del fango, dove era più faticoso estrarre i carri dalla terra collosa che estrarre il petrolio. Una vampata che, come quella che consumò la vita di ottanta uomini, cominciòa spegnersi nei primi anni del Ventesimo secolo, quando un oceano incomparabilmente più vasto e facile da estrarre fu scoperto sotto la prateria del Texas. Il regno di Titusville, i suoi sontuosi bordelli e saloon, le fonderie che erano spuntate nelle valli vergini degli altri fiumi vicini, il Monogahela, il fiume della luna, l’ Ohio, l’ Allegheny, conobbero una seconda, fuligginosa primavera nella Seconda guerra mondiale, quando si dissanguarono per alimentare la mobilitazione bellica. Mentre Detroit era l’ arsenale della democrazia, Titusville e la sua regione fornivano il carburante per far funzionare le macchine da guerra. Oggi il “jurassic park” della rivoluzione nera sta esausto, come se il parto di quella mostruosità l’ avesse sfiancato. I sedicimila pozzi ancora attivi in queste valli producono 4.027 barili al giorno, appena un cucchiaio di “olio di roccia” rispetto agli otto milioni di barili pompati – ogni giorno – soltanto dai deserti d’ Arabia. Resta, sotto l’ occhio affettuoso della signora Zolli, la reliquia di un santo che li ha sedotti e abbandonati. Il tranvaino per turisti che non ci sono funziona a batterie elettriche, per non inquinare la città fossile di un combustibile fossile.

  • Sole, atomo, idrogeno Cosa c’ è dopo Big Oil

    La Repubblica | Domenica 26 luglio 2009 | Maurizio Ricci |

    L’ossessione del mondo per il petrolio non è irragionevole. Al contrario, è assolutamente ragionevole: niente contiene così tanto in così poco. Un solo litro di benzina vale 9 kilowattore di energia, il 30 per cento in più di un litro (per dire) di bioetanolo. Non c’ è da stupirsene: quel litro di benzina è figlio di 25 tonnellate di antiche piante, lasciate a cuocere nel sottosuolo per decine di milioni di anni, fino a diventare petrolio. L’ uomo, per ora, non è in grado di replicare un simile concentrato di energia, prontamente usabile e trasportabile. Peraltro, ci vorranno oltre quarant’ anni, dalla prima trivellazione del colonnello Drake, perché il mondo si renda conto della portata rivoluzionaria di quella scoperta. Alla fine dell’ Ottocento, il petrolio, oltre che per le ultime lampade pre-Edison, veniva usato sempre più per le prime automobili, ma in concorrenza con un ventaglio di altri carburanti. All’ Expo di Parigi del 1900, Rudolf Diesel esibì, con orgoglio, il primo motore, appunto, diesel. Che funzionava, però, a noccioline: il carburante era olio di arachidi. In quel momento, in tutti gli Stati Uniti, c’ erano complessivamente quindicimila automobili. ( segue dalla copertina) Tutto cambia, solo pochi mesi dopo: il 10 gennaio 1901, l’ ex capitano della marina austriaca Anthony Lucas, esperto di miniere di sale, trova il petrolio sotto la collina di Spindletop, nel Texas orientale. Spindletop non è il primo pozzo. Ma è il primo megapozzo. Fino ad allora, i giacimenti producevano, in media, fra i 300 e i 1000 barili al giorno. Spindletop ne sputa 110mila al giorno. Una eruzione immane: il più grosso problema per Lucas fu capire come contenere quel getto che stava inondando ettari e ettari di terreno. Era la dimostrazione che il petrolio era una fonte d’ energia abbondante e facilmente disponibile. Presto, la rivoluzione sarebbe diventata mondiale. Nel 1908, l’ Anglo Persian Oil Company (poi Bp) trova in Iran alle pendici dei monti Zagros, un giacimento con riserve per un miliardo e mezzo di barili, cambiando, di colpo, la storia del Medio Oriente. Ma la rivoluzione ancora non è compiuta: gli ingegneri devono aggiustare il giovane motore a scoppio per poter utilizzare la benzina invece di un altro (e più costoso) distillato del petrolio, il kerosene. Solo nel 1919, chiusa la Prima guerra mondiale, nelle 667mila auto in circolazione negli Usa il numero di quelle a benzina supererà quelle a kerosene.E bisognerà aspettare la fine della Seconda guerra mondiale perché il petrolio invada il mondo. A questo punto, infatti, i passaggi chiave, nel romanzo dell’ oro nero, sono due. Il primo avviene nei deserti dell’ Arabia saudita, dove la Standard Oil (poi insieme alla Texaco) trova un oceano di petrolio. È vicino alla superficie, vicino al mare. Estrarlo costa pochi spiccioli: due dollari a barile. L’ energia a prezzi stracciati diventa il volano di un imponente sviluppo economico, che le auto sempre più grandie potenti simboleggiano ai quattro angoli del mondo industrializzato. Attenzione, però: l’ equazione petrolio uguale auto è sbagliata. Solo il 50 per cento dell’ oro nero viene bruciato nei trasporti. Guardate questa lista: microchip, telefoni, detersivi per lavapiatti, piatti infrangibili, sci, lenti a contatto, anestetici, carte di credito, ombrelli, dentifrici, valvole cardiache, paracadute e si potrebbe continuarea lungo. Sono tutti derivati del petrolio. Il secondo passaggio chiave è l’ invenzione della plastica. Non ci muoviamo solo con il petrolio. Ci nuotiamo dentro: il petrolio è tutto intorno a noi (nel caso delle valvole cardiache, anche dentro). Farne a meno sarà doloroso e difficile. Ce ne siamo resi conto, una prima volta, negli anni Settanta, quando l’ embargo dell’ Opec (i paesi produttori) lo rese scarsoe costoso. E, ancora di più, negli ultimi anni, con il prezzo del barile in ascesa, apparentemente, irrefrenabile. Cosaè successo? Di fatto nessuno nega che sia finita l’ era del petrolio facile, abbondante e poco caro. Ma sul perché esistono due interpretazioni. La prima è politica. Il petrolio c’ è, e in quantità adeguate, peccato che sia nei posti sbagliati. Nel 1954, con un colpo di Stato, la Bp riuscì a rovesciare la nazionalizzazione del petrolio iraniano, ma, negli anni Ottanta, quando a nazionalizzare furono i sauditi e poi tutti i paesi del Golfo Persico, le multinazionali si ritirarono in buon ordine. Oggi, il grosso del petrolio rimasto nel sottosuolo è di proprietà di compagnie nazionali che, dicono i sostenitori di questa tesi, non investono nella ricerca di nuovi pozzi e hanno di fatto interesse a tenersi stretta, finché dura, questa fonte di ricchezza. La seconda interpretazione è geologica. Qui, la data cruciale nonè il 1980e la nazionalizzazione del petrolio saudita, ma dieci anni prima, nel 1971, quando la produzione americana di petrolio ha raggiunto il suo picco e ha iniziato inesorabilmente a scendere, trasformando gli Usa nei maggiori importatori di petrolio al mondo. Lo stesso processo, dicono questi geologi, è destinato a ripetersi via via in tutto il mondo. Il petrolio diventerà sempre di meno, sempre più difficile e costoso (sotto la banchisa artica, in fondo all’ oceano) da estrarre. Da due anni a questa parte è lo schieramento dei geologi che guadagna consensi. Gli organismi internazionali rivedono al ribasso le stime sulla disponibilità di petrolio nei prossimi decenni. Gli uomini delle multinazionali sono anche più bruschi: Cristophe de Margerie, boss della Total, uno dei grandi di Big Oil, ha detto recentemente che «il mondo non riuscirà mai a produrre più di 89 milioni di barili al giorno». Oggi, siamo già a 85 milioni. E poi? La rivoluzione del colonnello Drake e del capitano Lucas l’ abbiamo bruciata in centocinquant’ anni. Nessuno sa se il futuro sarà il sole, l’ atomo o l’ idrogeno. L’ era del dopo-petrolio si apre con molte domande e poche risposte.

  • Perché nel labirinto di Zar Vlad la sola parola d’ordine è “Bespredel”

    Il Foglio | Domenica 12 ottobre 2008 | Amy Rosenthal |

    La Russia è sempre la Russia, con un lato oscuro tollerato dalla maggioranza della popolazione”. Steve LeVine, giornalista di Business Week e corrispondente in Russia, Asia centrale e Caucaso per oltre un decennio del Wall Street Journal e New York Times, ha appena scritto un libro sul “labirinto di Putin” – “Putin’s Labyrinth: Spies, Murder, and the Dark Heart of the New Russia” (Random House, 2008) – in cui arriva alla conclusione che lo zar Vlad, ex presidente e attuale premier a Mosca, abbia ereditato una terra nella morsa di una storia brutale che mostra pochi segni di affievolimento. Il motto nazionale russo – dice al Foglio – “è ‘bespredel’, che significa ‘senza limiti’, o ‘tutto passa’. E’ ‘il continuum russo’, che in parte si riferisce all’indifferenza della classe dirigente tradizionale nei confronti della vita e della morte del popolo”. Secondo LeVine i collegamenti tra vecchia e nuova Russia sono tantissimi. “Sotto gli zar e nel periodo sovietico lo stato decideva chi doveva vivere e chi morire. Con Boris Eltsin lo stato ha smesso di uccidere i suoi cittadini e gli assassini si sono riversati nelle strade. Con Putin la situazione è un ibrido”. Resta il mantra “tutto passa”, applicato al perseguimento di un interesse: “Quando nel 2002 ottocento russi furono presi in ostaggio in un teatro moscovita da 41 terroristi ceceni, Putin ordinò di usare i gas e morirono anche 129 ostaggi. Perché la priorità di Putin era uccidere i terroristi, non salvare gli ostaggi”. Secondo LeVine l’attacco alla Georgia è in linea con la tradizione russa di controllo sulle ex Repubbliche sovietiche, e anche di alcuni paesi dell’Europa orientale o centrale. “Putin e Medvedev si sono difesi con forza sostenendo di dover cacciare i georgiani dalla regione separatista. Ma quando i soldati e i carri armati russi hanno sconfinato in territorio georgiano, hanno bombardato Poti e preso anche l’Abkhazia, era la vecchia Russia all’opera”. Cosa c’è in gioco per l’Europa e gli Stati Uniti in questo conflitto? “Per entrambi ora il campo è aperto a crisi strategiche determinanti”, dice LeVine. “Un attacco come quello della Nato alla Serbia di Milosevic non potrebbe più accadere nelle circostanze attuali. Alcuni paesi dell’Europa sono intimoriti, o hanno preso barbiturici, comunque vanno a letto con Putin. Credo che Mosca influenzi a diversi livelli tutti gli stati del corridoio energetico fra est e ovest, ma anche Francia, Germania e Italia. Con loro ora la Russia è in una posizione contrattuale più forte di prima: è ben chiaro adesso che Mosca è pronta ad arrivare quasi ovunque per raggiungere i suoi scopi”.
    LeVine ha scritto che “il tallone d’Achille russo è il petrolio” e ha sottolineato come gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero giocare sulla vulnerabilità russa, ancora più palese in questi giorni di crisi mondiale, in cui la Borsa di Mosca ha pagato fin da subito tantissimo. “Per guadagnare il rispetto della Russia – spiega LeVine – non serve la retorica, ma i fatti. Appartenere o no al Wto o al G8 non smuoverà Mosca di un millimetro. La giugulare russa è la sua industria energetica: minaccia la sua strategia in quel campo e otterrai la sua attenzione. Come negli anni Novanta, quando Mosca non ha potuto fermare la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che la bypassava”. Lo storico Richard Pipes nel 2007 disse al Foglio che “l’occidente non deve illudersi sulla possibilità di far collaborare la Russia”, e molti governi occidentali cominciano a convincersi di quest’idea. “L’occidente – ribatte LeVine – può imporre un dialogo su temi che la Russia considera di proprio interesse. I trattati per il controllo bilaterale delle armi, ad esempio, sono possibili. Ma Pipes ha ragione: la Russia agirà come meglio crede. Putin è un avversario formidabile, persegue soltanto quello che crede essere l’interesse russo”. Il presidente Dmitri Medvedev ha ribadito che “non ha paura di niente, nemmeno della Guerra fredda”, anche se poi su certi dossier – come quello afghano – ha continuato la sua collaborazione. Per LeVine non c’è il pericolo di una nuova Guerra fredda, o almeno non di una analoga all’originale. “Potrebbe essere regionale,ma non globale: non è alla portata della Russia. Penso che ci siano speranze per il paese, in termini di democrazia, ma i governi occidentali devono restarne fuori. Non hanno alcun tipo di impatto”. Intanto i 200 peacekeeper europei sono arrivati nella zona cuscinetto tra Georgia e Ossezia del sud, dove è cominciato il ritiro delle truppe russe, come concordato nel piano siglato dal capo del Cremlino con il capo dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy. Il 15 ottobre si tiene un incontro tra Europa e Russia, che nelle intenzioni doveva essere decisivo per il futuro delle relazioni ma che già a oggi pare poco incisivo. “Si è visto nella storia recente – conclude scettico LeVine – quanto possano essere efficaci gli osservatori europei”.