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Tag: il Sirente
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“L’illusione degli ucraini sul nazismo durò solo qualche settimana”
| La Stampa | Giovedì 13 marzo 2014 | Massimiliano Di Pasquale |
Giovanna Brogi Bercoff, professore di slavistica all’Università di Milano, interviene sul tema delle politiche di russificazione dell’Ucraina Orientale intraprese dalla Russia zarista dopo la storica battaglia di Poltava del 1709: “Da allora resistono molti pregiudizi”Giovanna Brogi Bercoff, professore ordinario di slavistica presso l’Università di Milano, direttrice della rivista Studi Slavistici e presidente dell’AISU (Associazione Italiana di Studi Ucrainistici), parla della grave crisi tra Russia e Ucraina e aiuta a inquadrare le complesse vicende di queste settimane in un’ottica storico-culturale in cui grande peso hanno avuto le politiche di russificazione dell’Ucraina Orientale intraprese dalla Russia zarista dopo la storica battaglia di Poltava del 1709. (altro…) -

La verruca sul naso di Putin
| The Post Internazionale | Sabato 8 marzo 2014 | Massimiliano Di Pasquale |
L’opinione dell’autore di “Ucraina terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta”È stato l’economista russo Andrei Illarionov, ex consigliere di Putin caduto in disgrazia per aver criticato la guerra del gas voluta dal Cremlino nel 2006 contro l’Ucraina arancione di Viktor Yushchenko, ad anticipare più di un mese fa alla tivù Hromadske TV lo scenario cui si sta assistendo in questi giorni in Crimea.
Se, come aveva dichiarato Illarionov, l’allora presidente Yanukovych non fosse riuscito a fermare con la forza la protesta di piazza, allora i russi sarebbero intervenuti direttamente con i carri armati. Lo schema sarebbe stato quello già visto in Georgia nel 2008. Milizie russe avrebbero cercato di provocare un incidente ad hoc contro un cittadino di passaporto russo, avrebbero poi incolpato dell’accaduto l’esercito ucraino e, con la scusa di proteggere la popolazione russa della Crimea, avrebbero quindi invaso la penisola ucraina.
In Ossezia del Sud nell’agosto del 2008 l’allora presidente Mikheil Saakashvili, ordinando al suo esercito di intervenire per porre fine ai bombardamenti di villaggi georgiani da parte delle forze separatiste ossete, offrì infatti il pretesto ai carri armati russi per invadere la Georgia. Oggi, a meno di una settimana dalla destituzione di Yanukovych del 22 febbraio e dalla nascita di un esecutivo ad interim presieduto dal premier Arseniy Yatsenyuk e dal presidente Oleksander Turchinov, Putin ha già inviato il primo contingente militare in Crimea, penisola che dal 1954 fa parte dell’Ucraina, violando la sovranità territoriale del paese.
Motivazione ufficiale, di quella che Kiev ha definito una grave provocazione e il preludio a un possibile conflitto armato tra Russia e Ucraina, “stabilizzare la situazione in Crimea e utilizzare tutte le possibilità disponibili per proteggere la popolazione russa locale da illegalità e violenza”. L’attività diplomatica internazionale – in particolare la dura reazione del presidente statunitense Obama che ha deliberato sanzioni economiche nei confronti di Mosca, il boicottaggio del G8 di Sochi e l’interruzione di tutti i legami militari con il Cremlino incluse le esercitazioni e le riunioni bilaterali – ha scongiurato per ora lo scoppio di una guerra.
Ciononostante a Simferopoli, il parlamento della Repubblica Autonoma Crimea, di concerto con le autorità russe, senza interpellare la Rada di Kiev, ha già indetto per il 16 marzo un referendum per chiedere la secessione dall’Ucraina e l’annessione alla Federazione Russa. A nulla sono valse le scomuniche espresse venerdì 7 marzo dal Consiglio straordinario dei 28 capi di stato e di Governo della Ue e dagli Stati Uniti che hanno definito illegittima la consultazione. La crisi di questi giorni tra i due paesi, la più grave nell’area post sovietica dal crollo dell’URSS, nasce dal successo di Euromaidan, la rivolta popolare che ha sconfitto il regime di Yanukovych, il quale nelle ultime settimane aveva assunto un volto sanguinario con l’uccisione di un centinaio di manifestanti.
Le dimostrazioni di Piazza dei mesi scorsi – che, pur avendo come epicentro Kiev, hanno interessato tutta l’Ucraina – sembrerebbero testimoniare la volontà degli ucraini di lasciarsi alle spalle l’epoca post-sovietica e di aprire una nuova fase: quella della rigenerazione morale. Questo ambizioso tentativo deve fare i conti al momento con due questioni: in primis, la volontà di Mosca di ostacolare un progetto che, se vittorioso, porrebbe la parola fine sull’Unione Euroasiatica e fornirebbe linfa vitale anche all’opposizione democratica russa; in secondo luogo, le difficoltà interne legate alla situazione economica del paese.
Affinché l’Ucraina possa vincere questa sfida occorre che Europa, Canada e Stati Uniti la sostengano finanziariamente con un piano mirato di prestiti e investimenti, e che la Comunità Internazionale garantisca con ogni mezzo la sua integralità territoriale ottemperando al memorandum di Budapest. Con quell’accordo, firmato il 5 dicembre 1994 nella capitale ungherese, l’Ucraina cedeva il suo arsenale nucleare in cambio della garanzia della tutela della sua sovranità e sicurezza da parte di Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti.
Se il Cremlino riuscisse infatti a creare un’enclave separatista in Crimea, ciò potrebbe innescare pericolosi effetti domino nell’est del paese. E quella che è stata finora la rivoluzione di un popolo contro un regime corrotto potrebbe trasformarsi in una vera e propria guerra civile qualora l’opera di destabilizzazione della Russia, attraverso provocazioni militari e disinformazione mediatica, avesse successo. Nel periodo della presidenza Putin, il giro di vite sulla stampa indipendente ha favorito il progressivo ritorno a metodi di propaganda neo-sovietica in linea con una lunga tradizione di manipolazioni e distorsioni della realtà.
Non è un caso che da qualche giorno, proprio nella Crimea occupata, le reti televisive ucraine Canale 5 e 1+1 siano state oscurate, sostituite da canali russi. La macchina ben oliata della disinformacija ha favorito la diffusione di notizie false come quella che dipinge i manifestanti del Maidan come fascisti e antisemiti, o quella secondo cui il nuovo governo ad interim avrebbe negato agli ucraini il diritto di parlare russo.
“L’Ucraina è in mano a estremisti e fascisti. Chiediamo aiuto ai fratelli russi perché ci vengano a liberare”. La rozzezza di certe manipolazioni farebbe sorridere se non fosse che la situazione in Crimea, che rischia di estendersi a tutto il paese, è davvero drammatica. La verruca sul naso della Russia – così Potemkin chiamava la Crimea – è tornata a fare male. Auguriamoci non sia il preludio a una Nuova Guerra Fredda che soffochi nel sangue le aspirazioni di libertà, pace e democrazia del popolo ucraino.
L’autore, Massimiliano Di Pasquale, è membro dell’AISU, Associazione Italiana di Studi Ucraini. Autore di “Ucraina terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta” (Il Sirente). Lo scorso 5 Febbraio 2014 è stato relatore alla tavola rotonda ‘Ucraina Quo Vadis?’ organizzata dall’ISPI.
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UCRAINA: Cosa sta succedendo a Kiev? Intervista a Max Di Pasquale
| East Journal | Sabato 22 febbraio 2014 | Pietro Rizzi |
Cosa sta succedendo a Kyiv ed in Ucraina? Quali prospettive? Ne abbiamo parlato con Massimiliano Di Pasquale, esperto di Ucraina, autore di Ucraina terra di confine e collaboratore di EastJournal. (altro…) -
Ucraina, nazisti o nazionalisti? Viaggio nell’arcipelago del radicalismo
| La Stampa | Sabato 22 febbraio 2014 | Anna Zafesova |
A 55 anni dalla morte Stepan Bandera continua a spaccare il Paese. Per i russi è un ammiratore di Hitler che sta ispirando i manifestantiTra l’infinità di simboli e bandiere che sommergono il Maidan ogni tanto fa capolino il ritratto di un uomo dalla alta fronte stempiata, i tratti sottili e lo sguardo infuocato. Per molti è un volto sconosciuto, per altri un’icona, per altri ancora la prova che a muovere la protesta ucraina sono le forze più oscure della sua storia. 55 anni dopo la sua morte, avvelenato da uno spray al cianuro spruzzato da un agente del Kgb in piena Monaco, Stepan Bandera, leader dei nazionalisti ucraini, continua a spaccare in due il suo Paese. Per i russi, e per alcuni commentatori occidentali, la sua presenza in forma di ritratto è il segno che sul Maidan si consuma una vendetta storica contro la Russia, e che i militanti della piazza che oggi riesumano la sua immagine sono “nazisti”. (altro…)
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Ucraina terra di confine: un libro per scoprire l’Europa sconosciuta
| Corso Italia News | Venerdì 21 febbraio 2014 | Simona Ciniglio |
Gli eventi ucraini di questi giorni riempiono di apprensione noi e i numerosi cittadini ucraini residenti in Campania. La situazione è ancora critica, in attesa che il primo ministro Yanukovic, personaggio che si è dimostrato inaffidabile, accetti e dia prova di un reale accordo per riportare la calma.
L’Ucraina, non dimentichiamolo, è il più grande Stato europeo per estensione (se si esclude la Russia), la cui identità – europea o asiatica – è sempre in discussione. Con quasi cinquanta milioni di abitanti, ricco di risorse anche naturali, l’Ucraina si trova geopoliticamente in una posizione delicatissima tra l’area di influenza europea e quella russa. (altro…) -

Colazione con Massimiliano Di Pasquale, fotogiornalista esperto di Ucraina
| Alibionline | Giovedì 12 dicembre 2013 | Saul Stucchi |
“Ukraïna tse Ukraïna!” L’Ucraina è Ucraina! Ricordate il simpatico spot che a metà degli anni Novanta reclamizzava il nuovo atlante geografico venduto a fascicoli settimanali con Il Corriere della Sera? Al cosmonauta atterrato in mezzo al suo pollaio, la contadina ucraina teneva una rapida lezione di geografia per aggiornarlo degli epocali cambiamenti avvenuti durante la sua missione nello spazio. “Ne sono successe di cose negli ultimi anni” diceva lo speaker. E non hanno smesso di succedere, vien da dire osservando (da lontano) quanto sta accadendo in queste settimane a Kiev, capitale dell’Ucraina. (altro…)
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Prima delle badanti, c’era Hollywood – L’Ucraina segreta dai cosacchi alla Ceka
| La Stampa | Mercoledì 25 novembre 2013 | Anna Zafesova |
Massimiliano Di Pasquale scrive il primo racconto in italiano di una terra vicina quanto sconosciuta: “Ucraina terra di confine” è un diario di viaggio che fa parlare i ricordi e le storie delle persone incontrate. (altro…) -
Novità collana inchieste
La passione per un luogo, per una lingua, per un’atmosfera sospesa fra sapori e colori nasce come un’amicizia e forse anche come un amore. Un incontro propizio, che non si esaurisce nello spazio di qualche suggestione, ma che impone a gran voce di essere approfondito, investigato, compreso.
Ucraina terra di confine
Massimiliano Di Pasqualeil Sirente
Inchieste
pp. 310, ill. br.
Euro 15,00 -
Graphic Novelist Magdy El Shafee Arrested Near Clashes
| Arabic Literature | Sabato 20 aprile 2013 | Mlynxqualey |
According to multiple sources, Magdy El Shafee was one of 39 arrested yesterday at Abdel Moneim Riyadh Square: Youm7 reported that El Shafee — godfather of the Egyptian graphic novel, who faced trials and other hurdles for his ground-breaking Metro – was arrested when he went down to try to stop the clashes yesterday. He was apparently arrested at random.
Dar Merit Publisher Mohammad Hashem said on Facebook that El Shafee was accused of perpetrating violence. Al Mogaz quoted author Mohammad Fathi as saying El Shafee didn’t try to escape from police “because he didn’t do anything.”
Other novelists said on Facebook that El Shafee was being interrogated today at Abdeen Court. It also appeared El Shafee may have been injured in the clashes. -

2012 — libri dell’anno, libri mancati, libri sbagliati, libri recuperati…
| Porto Franco | Venerdì 28 dicembre 2012 | Gianfranco Franchi |
Un franco 2012. Libri dell’anno:
- Umberto Roberto, “Roma Capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi”, Laterza. Un grande libro di storia, scritto per raccontare che l’eternità di Roma è terminata da un pezzo. È finito tutto nella metà del V secolo dopo Cristo: nel sangue e nella miseria. Roberto ha pizzicato uno dei veri rimossi della nostra cultura: l’ammissione della lontana morte di Roma, spogliata di tutto, tradita e abbandonata.
- Emanuele Trevi, “Qualcosa di scritto”, Ponte alle Grazie. Uno strano e seducente anfibio, metà tributo a Pasolini, metà memoir, metà romanzo iniziatico, metà grande saggio su “Petrolio”. Un libro veramente potente.
- Tommaso Giagni, “L’estraneo”, Einaudi. Un esordio tosto e promettente: un libro intriso di Zeitgeist; una leale rappresentazione del degrado e del collasso della civiltà romana moderna, a uno sbuffo dagli anni Zero.
- Jean Echenoz, “Lampi”, Adelphi. Grande opera d’arte. Biografia lirica e ispirata del misconosciuto e talentuoso Nikola Tesla, spirito slavo e nobile, generoso e mezzo matto. Un vero libro adelphi.
- Jáchym Topol, “L’officina del diavolo”, Zandonai. Grottesco, cinico, originale: romanzo del borgo di Terezín, del martirio della civiltà e della verità per mano dei totalitarismi, della speculazione sui genocidi.
- Colette, “Prigioni e paradisi”, Del Vecchio. Insperata, riuscita prima edizione italiana di questo libro di frammenti e prose brevi della scrittrice francese. Una lezione di stile, di letterarietà e di sensualità.
- Vasile Ernu, “Gli ultimi eretici dell’impero”, Hacca. Fascinosa integrazione dell’opera prima dello scrittore e filosofo rumeno, “Nato in Urss”, è una meditazione sul socialismo sovietico, sui gulag, sulla libertà d’espressione, sul futuro della civiltà. Molto coraggioso.
- Massimiliano Di Pasquale, “Ucraina terra di frontiera”, Il Sirente. È il libro di una vita: un intelligente e consapevole atto d’amore di un letterato italiano appassionato di cultura ucraina – vero ponte pop tra l’Italia e l’Ucraina. Forse l’unico.
- Diego Zandel, “Essere Bob Lang”, Hacca. Spiazzante romanzo metaletterario dello scrittore fiumano-romano Diego Zandel, filelleno, lettore forte, erede di Fulvio Tomizza. Divertissement molto snob.
- Watt Magazine, numero zero.cinque. Perché è forse la massima espressione dell’arte di Maurizio Ceccato: prima di essere libro-rivista, raccolta di racconti illustrata o raccolta di illustrazioni raccontate, Watt è un Ceccato. E Ceccato è il massimo.
Libro più sbagliato dell’anno: Tommaso Pincio, “Pulp Roma”, Il Saggiatore. Il primo libro completamente sbagliato di Tommaso Pincio: improbabile, marginale, male assemblato: indegno di lui. Un errore inatteso. È proprio brutto.
Capolavoro mancato: Emanuel Carrère, “Limonov”, Adelphi. Biografia romanzata di uno scrittore che aveva già romanzato la sua vita in tutti i suoi (molti) libri, sin dagli esordi, poteva essere una grande satira di Limonov, e dei Limonov, e una potente lezione di storia russa contemporanea, con incursioni nelle orgogliose ferite dei Balcani, à la Babsi Jones: invece Carrère si è preso molto sul serio, forte forse della consapevolezza che Limonov, in Europa, è veramente sconosciuto. E così ha sbagliato libro. Questo è un buon libro, ma è per i tanti neofiti di Limonov. Per tutti gli altri, è un discreto bignami, con qualche improbabile deriva ombelicale carrèra.
Letture rinviate: 1. Filippo Tuena, “Stranieri alla terra” [Nutrimenti, 2012]. La ragione è che punto all’operaomnia, entro due anni. 2. John Cheever, “Racconti” [Feltrinelli, 2012]. Stesso discorso, ma vorrei comunque leggerlo prima in lingua originale. 3. John Edward Williams, “Stoner” [Fazi, 2012]. Immagino possa piacermi molto, ma non è il periodo giusto. Magari tra qualche anno.
Sito letterario dell’anno: Flanerì. http://www.flaneri.com/ – sempre intelligente, particolarmente ordinato, piacevolmente frontale, piuttosto equilibrato: praticamente uno dei pochi siti letterari italiani credibili, in assoluto. Onestamente, una delle pochissime nuove proposte degne di nota, in quest’ultimo triennio caotico, fiacco e molto cialtrone. Tifo Flanerì.
Altre cose franche. Recuperi [italiani] dell’anno. 1. Fulvio Tomizza, “Il sogno dalmata”, Mondadori, 2001. 2. Babsi Jones, “Sappiano le mie parole di sangue”, Rizzoli, 2007. 3. Fulvio Tomizza, “Materada”, Mondadori, 1960. 4. Tommaso Pincio, “Hotel a zero stelle”, Laterza, 2011. 5. Ornela Vorpsi, “Il paese dove non si muore mai”, Einaudi, 2005.
Recuperi [stranieri] dell’anno. 1. Patrick Leigh Fermor, “Mani”, Adelphi, 2006. 2. Dimitri Obolensky, “Il commonwealth bizantino”, Laterza, 1974. 3. Dragan Velikić, “Via Pola”, Zandonai, 2009. 4. Robert Mantran [a cura di], “Storia dell’impero ottomano”, Argo, 2000. 5. Agostino Pertusi [a cura di], “La caduta di Costantinopoli”, Fondazione Valla, 1976. 6. Nicholas Valentine Riasanovsky, “Storia della Russia”, Bompiani, 7. David Foster Wallace, “Il tennis come esperienza religiosa”, oggi in Einaudi, 2012.
Lettura critica fondamentale, in assoluto: “Narratori degli Anni Zero” di Andrea Cortellessa, Ponte Sisto, 2012, 650 pagine. E via andare.
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Egitto: Al Khamissi, Usa e Ue frenino colpo di stato Morsi
| ANSAmed | Mercoledì 5 dicembre 2012 | Luciana Borsatti |
”Gli Stati Uniti e l’Europa, che hanno sostenuto Morsi, devono ora mandargli un messaggio chiaro: che sono contrari ad un colpo di stato come quello che sta compiendo”. Khaled Al Khamissi – scrittore noto per il suo best-seller ”Taxi”, tradotto in più’ lingue – non usa mezzi termini sulle responsabilità dell’Occidente nella deriva che l’Egitto ha preso in questi mesi, con gli ultimi colpi di mano del presidente Mohamed Morsi sul piano istituzionale ed i sanguinosi scontri di piazza tra suoi oppositori e sostenitori.
Gli Stati Uniti in particolare, sottolinea in un’intervista ad ANSAmed, hanno grandi responsabilità nell’aver sostenuto il presidente espresso dai Fratelli Musulmani. La sua elezione e’ stata il punto di arrivo, osserva, di una transizione affidata all’esercito e rivelatasi ”disastrosa” per l’Egitto. Negli ultimi mesi Morsi ha infatti portato avanti ”un coup d’etat”, denuncia, contro gli altri poteri dello stato e le altre forze politiche. Insieme ai Fratelli Musulmani, ”ha preso tutti i poteri nelle sue mani e provocato una vera e propria battaglia nelle strade del Paese. Il regime ha perso ogni legittimità e quella di questi giorni e’ una situazione di vero e proprio scontro con il popolo egiziano”. Uno scontro in cui vi sono stati anche i morti di stasera, ma anche gesti come quelli di un attivista dei Fratelli Musulmani che – riferisce dalla sua casa del Cairo, mentre si prepara a tornare anche lui a manifestare – avrebbe addirittura tagliato un orecchio ad un oppositore.
Eppure vi sono state delle aperture da parte dell’entourage di Morsi alle istanze dell’opposizione, come si possono valutare? ”Noi vogliamo fatti, non parole – risponde al Khamissi, che in Taxi raccolse gli umori dell’uomo della strada del Cairo prima della rivoluzione -. Anche prima Morsi aveva promesso che ci sarebbe stata una nuova Costituzione condivisa da tutti, e cosi’ non e’ stato”. Eppure, Morsi ha avuto l’appoggio del voto popolare alle elezioni. ”Dovete riconsiderare questa idea del voto – rilancia – io non ho votato, e cosi’ molti altri, perché non potevamo accettare di dover scegliere tra un candidato dei Fratelli Musulmani ed un uomo come Shafik, del vecchio regime di Mubarak”. E chi ha votato per Morsi lo ha fatto proprio perché’ non voleva Shafik, aggiunge, oppure per avere il ”denaro” che i Fratelli Musulmani potevano garantire loro.
Ma ora Europa e Stati Uniti non possono stare a guardare e ”devono parlare chiaro – conclude lo scrittore -. Deve ripartire il dialogo con gli altri partiti politici per una transizione pacifica e per una nuova Costituzione di tutti”.
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Ucraina terra di confine. Intervista a Massimiliano Di Pasquale
| Welfare Cremona Network | Lunedì 25 giugno 2012 | Alessandra Boga |
Poco l’Europa occidentale sa dell’Ucraina, questa repubblica dell’ex URSS, che tra l’altro è il più grande Paese d’Europa per estensione geografica; ma Massimiliano Di Pasquale, classe 1969, fotoreporter e scrittore pesarese, nel suo “diario di viaggio”Ucraina. Terra di confine, edito da Il Sirente, ci dà un quadro complessivo e affascinante di questa terra ancora prigioniera ai nostri occhi del grigiore post-sovietico, e che tuttavia è ricca di vita, storia e di cultura proprie, che il comunismo ha cercato di assimilare e soffocare.
Allora, Massimiliano, partiamo dal titolo del tuo libro: perché la definizione dell’Ucraina come “terra di confine”?
Premesso che non è mai facile scegliere il titolo di un libro, visto che dovrebbe sintetizzare i tanti temi trattati al suo interno, ritengo che Ucraina terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta enfatizzi due concetti che mi stanno particolarmente a cuore perché costituiscono un filo rosso che unisce tutti i capitoli. Il primo è l’idea che l’Ucraina è tuttora una terra di confine dato che al suo interno si incontrano/scontrano culture diverse e visioni geopolitiche contrastanti. L’eterno oscillare tra Est e Ovest, tra Russia e UE, che ha caratterizzato storicamente questa terra e continua a caratterizzarla ancora oggi dice di un paese sicuramente europeo, perché europee sono le sue radici, ma di “confine”. Il secondo è che nonostante l’Ucraina sia il paese più esteso dell’Europa molte persone ancora la confondono con la Russia o la associano a una stereotipata immagine di grigiore post-sovietico. Il libro nasce anche per combattere questi stereotipi.
Che chiesa è quella bellissima dalle cupole dorate ritratta sulla copertina del libro?
È la Chiesa di Santa Caterina di Chernihiv, città a circa 100 km da Kyiv. Fu fondata da un colonnello cosacco nel 18° secolo in segno di gratitudine per la vittoria conseguita contro i Turchi. Sorge sotto il Val, la cittadella che costituiva il nucleo centrale dell’antica Chernihiv. Le sue cinque cupole dorate, che luccicano in lontananza, danno il benvenuto a chi arriva qui venendo dalla capitale.
Cos’è rimasto dell’epoca comunista in Ucraina, e puoi dirci se gli ucraini si sentono vicini all’Occidente?
Sono tante le eredità dell’epoca comunista che gravano tuttora sull’Ucraina. Alcune di carattere puramente estetico, come gli edifici in stile costruttivista o le statue di Lenin presenti nell’Ucraina centrale e orientale, altre più profonde, di carattere antropologico che continuano a permeare la mentalità di molte persone, rappresentando a tutti gli effetti un freno all’emancipazione e alla modernizzazione del paese. Ciò detto, la coscienza europea e il senso di appartenenza al mondo occidentale si stanno sempre più diffondendo nelle città dell’Ovest di ascendenza polacco-lituana-asburgica e più in generale, un po’ in tutto il paese, tra le nuove generazioni.
Una delle città più caratteristiche dell’Ucraina è Leopoli: perché è cosi importante?
Leopoli è forse l’unica città in cui la transizione dall’Ucraina post-sovietica all’Ucraina europea è già avvenuta. Prova ne è l’efficienza dei servizi che non ha eguali nel resto del paese. Ovviamente ci sono delle precise motivazioni di ordine storico-culturale che spiegano questa ‘eccezionale diversità’. In primis la legacypolacco-asburgica e l’impermeabilità o quasi – impermeabilità della Galizia al processo di russificazione-sovietizzazione, che ha interessato questa regione nel secondo dopoguerra. Come scrivo in un passo del libro “chi si avventurasse a Lviv alla ricerca di scampoli di Unione Sovietica rimarrebbe profondamente deluso”.
Quali culture e popolazioni hanno convissuto nei secoli in Ucraina?
Davvero tante: armeni, greci, russi, serbi, tatari, ebrei… Storicamente si parte dagli Sciti, popolazione nomade precristiana della steppa tra il Don e il Dnipro fino ad arrivare alle comunità italiane di Kerch in Crimea nell’800. Leopoli, Odessa e Chernivtsi sono forse le città più rappresentative di questo eccezionale melting pot. Proprio a Chernivtsi, dove tra l’altro nacquero gli scrittori Gregor Von Rezzori e Paul Celan, ancora oggi convivono ben sessantacinque diverse nazionalità!
Quali sono i personaggi storici e della cultura più rappresentativi dell’Ucraina e di cui anche l’Europa è debitrice?
L’Ucraina è un paese complesso e stratificato con una grande tradizione culturale per cui non è facile rispondere a questa domanda. Se limitiamo il discorso solo agli intellettuali di lingua e cultura ucraina farei tre nomi su tutti: Taras Shevchenko, Ivan Franko e Lesya Ukrayinka. Ciò che li accomuna, pur nella diversità dei percorsi, è l’avere fatto conoscere attraverso la letteratura il loro paese, cercando di ancorarlo alle avanguardie culturali dell’epoca. Taras Shevchenko, poeta ed eroe nazionale, è unanimemente considerato uno degli esponenti più autorevoli del romanticismo europeo.
Cos’è stata la tragedia dell’Holodomor?
Nel terribile biennio 1932-1933 l’Ucraina – come testimoniano anche i dispacci inviati a Roma da Sergio Gradenigo, console italiano nell’allora capitale Kharkiv – fu colpita da una ‘carestia artificiale’ pianificata dal regime stalinista per collettivizzare le campagne sterminando i kulaki (piccoli proprietari terrieri) e l’intellighenzia nazionale. Il termine ucraino Holodomor, che significa morte per fame, è composto di due parole holod – carestia, fame – e moryty – uccidere. Questo vero e proprio genocidio, occultato anche grazie alla complicità dell’Occidente, venne alla luce solo cinquant’anni più tardi per la pressante opera di sensibilizzazione della Diaspora ucraina. Nel 1986, con l’uscita del libro The Harvest of Sorrow dello storico americano Robert Conquest, il grande pubblico e le cerchie governative occidentali vennero a conoscenza di questa terribile tragedia.
In Ucraina è avvenuto un altro sterminio sconosciuto, il “genocidio dei Tatari”: di che cosa si tratta?
Quella dei tatari, così come quella che aveva interessato due anni prima, nel 1942, la comunità italiana di Kerch, è una delle tante tragedie sconosciute dello stalinismo. Con il decreto n. GKO5859 firmato da Josif Stalin l’11 maggio 1944 – un documento riservato venuto alla luce recentemente dall’archivio del KGB – il dittatore georgiano dà inizio alla seconda fase della pulizia etnica della Crimea. I metodi usati sono più o meno gli stessi adottati undici anni prima nei confronti dei contadini ucraini durante la Grande Carestia del ’32-’33. L’unica differenza rispetto al Holodomor è la rapidità con cui si consuma questa seconda tragedia. Nel corso di un solo giorno, il 18 maggio 1944, senza alcun preavviso, donne, bambini e anziani vengono gettati fuori dalle loro dimore, caricati su dei camion e condotti alla più vicina stazione ferroviaria. Accatastati come bestie dentro vagoni merci, sono spediti in Asia Centrale, sugli Urali e nelle aree più remote dell’URSS. Quasi la metà dei deportati – si parla di cifre intorno al 46% – non giungerà mai a destinazione. Falcidiati da fame, sete e malattie, moriranno lungo il tragitto.
Com’è nata la Rivoluzione Arancione?
La Rivoluzione Arancione nasce come risposta ai brogli elettorali nelle elezioni presidenziali del novembre 2004, in cui si confrontavano il candidato dell’opposizione Viktor Yushchenko e l’attuale presidente Viktor Yanukovych, sponsorizzato dal Cremlino e dal presidente uscente Leonid Kuchma. Sul Maidan Nezalezhnosti di Kyiv una popolazione composita, fatta di studenti, professionisti, preti uniati e ortodossi, manifestava pacificamente per la democrazia chiedendo la ripetizione del voto. Il 3 dicembre la Corte Suprema Ucraina accolse la tesi del candidato dell’opposizione Yushchenko e annullò la consultazione del 21 novembre ordinando la ripetizione del ballottaggio per il 26 dicembre. Yushchenko vinse, fu eletto Presidente e si aprì una nuova stagione carica di aspettative in parte purtroppo disattese.
Perché a tuo avviso la stagione arancione non ha prodotto i cambiamenti che la gente si aspettava?
Le motivazioni alla base del parziale fallimento della Rivoluzione Arancione, dico parziale perché comunque quella stagione è stata caratterizzata da libertà di stampa, pluralismo ed elezioni trasparenti – è ovviamente oggetto di dispute e studi tra gli storici.
Sicuramente Viktor Yushchenko si è rivelato un presidente debole, che non è riuscito a imprimere il necessario cambio di marcia per rigenerare moralmente ed economicamente il Paese.
Dovessi evidenziare tre cause su tutte citerei l’accesa rivalità con l’ex alleata Yulia Tymoshenko, il perimetro costituzionale, voluto dall’ex Presidente Kuchma come conditio sine qua non per la ripetizione del voto, che ha limitato fortemente i poteri di Yushchenko una volta in carica e last but not least l’incapacità del Presidente di scegliersi consiglieri leali e capaci. -

I luoghi di Schulz
| L’indice di libri del mese | Sabato 1 dicembre 2012 | Donatella Sasso |
La passione per un luogo, per una lingua, per un’atmosfera sospesa fra sapori e colori nasce come un’amicizia e forse anche come un amore. Un incontro propizio, che non si esaurisce nello spazio di qualche suggestione, ma che impone a gran voce di essere approfondito, investigato, compreso. Massimiliano Di Pasquale, fotogiornalista e scrittore freelance, viaggia per la prima volta in Ucraina nel 2004. È la curiosità a chiamarlo, ma sarà solo l’inizio di numerose altre spedizioni in terra di confine, perché Ucraina significa proprio questo: confine. Terra di mezzo e di conquista, contesa tra Russia, regno di Polonia, granducato di Lituania, imperi asburgico e sovietico, è spesso stata confusa, attribuita ad altri mondi e ad altri destini nazionali. Che Gogol’ e Bulgakov siano originari di li non è dato universalmente acquisito, che in Ucraina non si parli solo il russo, ma anche l’ucraino, idioma autonomo più simile alle lingue slave del Sud che al russo, non sempre si rammenta.Ed è proprio su questo equivoco di indeterminatezza che si sono giocate, in passato come oggi, rivendicazioni di autonomia e pretese egemoniche provenienti da lontano. La rivoluzione arancione del 2004 con la vittoria di Yushchenko aveva indotto a pensare a una democratizzazione del paese e a un avvicinamento all’Europa e alle sue istituzioni. La Speranza è durata poco, il presidente è stato soppiantato da Yanukovych, alleato della Russia di Putin è grande sconfitto nel 2004, che alle elezioni del 2010 ha conquistato il potere consumando le proprie rivincite. In primo luogo con il processo per abuso di potere e la condanna all’ex premier Yulia Tymoshenko, un processo definito a livello locale e internazionale “politico”, privo di garanzie e con gravi violazioni dei diritti umani. Di Pasquale tratta anche di questo, ma non offre ne un saggio di storia, ne una riflessione politica. Le sue sono impressioni di viaggio, ricerche e scoperte che si scambiano cronologicamente l’ordine di apparizione, incontri fugaci e lunghe interviste con scrittori, giornalisti e imprenditori, notti in hotel fatiscenti, ma fascinosi, viaggi in marshrutky, minibus per il trasporto pubblico, lenti e obsoleti. Ogni capitolo è dedicato a una città, da ovest verso est e ritorno. Ne esce il ritratto di un paese ammaliante: alle architetture mitteleuropee di Leopoli si alternano le grigie periferie nel perfetto stile del realismo socialista, Bruno Schulz e Vasily Grossman mostrano i luoghi delle loro scritture, le note gastronomiche sanno di Oriente, le cupole delle chiese ortodosse sono dorate.
Come in altri paesi dell’ex Unione Sovietica, anche qui le contrapposizioni politiche e culturali si muovono spesso sui recupero o sull’occultamento di avvenimenti storici, miti fondatori ed eroi contesi. E l’Ucraina gronda storia da ogni zolla di terra. Di Pasquale rievoca i movimenti autonomisti dell’Ottocento, la tragedia dello Holodomor, la carestia indotta da Stalin negli anni trenta, le occupazioni nazista e sovietica, la Shoah, Chernobyl. L’Ucraina è tutto questo: dolore, poteri forti concentrati in poche mani, povertà diffusa, ma soprattutto terra da scoprire, estremo lembo d’Europa che chiede di essere riconosciuto.
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“Ucraina, Terra di Confine. Viaggi nell’Europa Sconosciuta” di Massimiliano Di Pasquale
| Ucraina Cisalpina (con l’accento sulla i) | Mercoledì, 24 ottobre 2012 | Gabriele Papalia |
Ucraina terra di confine o Ucraine terre di confine? Questo è ciò che mi è venuto in mente finendo il bel libro di Massimiliano Di Pasquale.
Un libro che è resoconto di viaggio, dichiarazione di amore e di speranza verso il paese “maledetto dalla steppa”: un’opera che svela realtà, vite e destini inediti all’interno di quel paese conosciuto ad occidente come Ucraina.
Chi pensa all’Ucraina in genere ha in mente la Russia, facendo un paragone inesatto e fuorviante ma inevitabile, dato che in questo modo il paese ci è sempre stato rappresentato dalla televisione generalista e dall’istruzione obbligatoria.
E questo ha fatto apparire l’Ucraina come un eterno stato periferico, una terra “appartenente al confine” russo, una porzione geografica senz’anima con qualche città famosa perché orbitante intorno al mondo dei grandi russi.Ma che paese è l’Ucraina?
Ce lo racconta Di Pasquale con i suoi appunti tracciati nel corso di questi anni a bordo di mashrutke sgangherate (i mitici pulmini che fanno da taxi nei paesi dell’ex URSS), treni che per l’atmosfera ricordano tempi andati (solo per noi occidentali) con gente accogliente e talora imprevedibile, in hotel dal gusto mittleuropeo dell’Ucraina occidentale fino agli alberghi più insperati e “squallidamente sublimi” diDnipropetrovsk e qualche altra città che puzza di carbone e acciaio.
Per chi ha visitato questi posti – ma anche per chi non lo ha mai fatto – sembrerà di entrare nel vivo della scena di questi racconti di viaggio.Dopo la lettura di “Ucraina Terra di Confine”, a molti verrà voglia di visitare questo paese; i profani si stupiranno di quanta cultura, civiltà, bellezza e profondità sia parte integrante del popolo ucraino. Ma anche di quante tragedie e di quanti destini di vita siano stati dimenticati, opportunamente celati all’Europa e talora anche all’Ucraina stessa da parte dell’ingombrante e parziale propaganda russa.
Ucraina terra di confini: soprattutto mentali
L’Ucraina è Europa ma per alcuni è ancora troppo lontana, troppo inesplorata, troppo “ma una volta questa parte del mondo apparteneva all’Unione Sovietica”: geograficamente conquistata con violenza dai russi – lo si dovrebbe ammettere senza difficoltà al giorno d’oggi – questo confine mentale di equiparare Russi e Ucraina, non è ancora stato superato.
E allora leggendo e meditando intorno a questo paese, ci si pone delle domande anche sulla propria identità: che cos’è Europa, dov’è il confine? Dove inizia e quando finisce? Che cos’è che determina il territorio comune tra noi e l’Ucraina?
L’autore implicitamente ci dà la risposta portando alla conoscenza, per chi è digiuno di questi luoghi, che un tempo Lviv fu anche Leopoli e Lemberg sotto il dominio asburgico, e italiani e armeni erano soliti visitare e abitare queste terre; che città comeLutsk e Kamyanets Podilsky godevano del Diritto di Magdeburgo ma anche della benedizione del Pontefice di Roma e per secoli territorio conteso tra regnanti polacchi all’ultima frontiera col nemico ottomano.
Permangono però molte cose in Ucraina che non appaiono “europee” e hanno più il gusto mistico estremista che, in alcuni casi, contraddistingue certi modi di pensare slavo orientali: dal movimento di Asgarda, efficacemente riportato dall’autore, all’uso inutilmente autoritario delle istituzioni governative e dei portinai degli alberghi ai proclami continui che ogni cosa è “nasha” (nostra): nasha piva (nostra birra), nasha Ucraina, nasha stranà (nostro paese).
E però a Lviv non si respira l’aria autoritaria di Mosca ma nemmeno a Donetsk.
Donetsk non si sente Russia e questo è ribadito da Di Pasquale, sebbene i legami tra questa città del Donbas e la Federazione Russa siano tradizionalmente e culturalmente molto stretti.
Ucraina come confine tra due realtà ed entità culturali (una occidentale, mittleuropea e l’altra russa e ortodossa): è un paese ibrido, come un colore mischiato che parte da colori puri e si dissolve in sfumature del tutto particolari.
A questo è dovuto l’innegabile fascino di questo paese: di non essere monotono e predeterminato.
Si rischia il manicomio ad affrontare tematiche identitarie su questo paese ma senz’altro si può dire che Massimiliano abbia colto il punto essenziale della questione identitaria di questo popolo:il popolo ucraino è “contaminato” nel bene e nel male
Ucraina terra invasa, terra di convivenza pacifica ma anche di massacri, terra liberata e da liberare, terra inquinata dal nucleare e dalle fabbriche del suo lato orientale.
Una contaminazione chiara e resa evidente nelle pagine del libro attraverso diversi aspetti su cui l’autore si focalizza: la letteratura, l’architettura e le etnie che in questa terra abitano, hanno abitato il suolo ucraino e l’hanno indelebilmente condizionato.
Ebrei, tedeschi, armeni, ucraini, polacchi, ungheresi, sciti, russi, tatari, genovesi, caucasici: tutti a loro modo hanno contribuito alla formazione di quello che è il più grande paese di Europa per estensione geografica.
Di Pasquale rende onore alle vittime del disastro di Chornobyl, l’ultima (e maledetta) contaminazione di questa terra, il lascito più terribile che l’URSS abbia mai potuto trasmetterci.Creazione che risveglia dall’oblio e che ci avvicina a un popolo.
Chi è digiuno della storia di questo paese troverà modo di comprendere meglio il complessissimo mosaico di cui si compone questa terra.
Il libro di Di Pasquale è anche un modo per non dimenticare le tragedie del popolo ucraino (e lo fa sapientemente, in modo da non incorrere nel rischio di raffigurare l’Ucraina come un paese vittimista che si piange sempre addosso e parla solo delle sue disgrazie).
Tra le tragedie del passato di cui si parla – e che è comunque d’obbligo citarle – non c’è solamente quella del popolo ucraino (holodomor) e del popolo ebraico ma anche quella dei tatari e degli italiani di Crimea avvenuta ai tempi di Stalin.
Anche la Crimea, infatti, è Ucraina e confine dell’Europa soprattutto per un motivo: si possono trattare le tematiche della deportazione dei tatari e degli italiani di Crimea dal momento in cui la penisola è controllata e gestita da Kiev e non da Mosca.
Difficilmente sarebbero state possibili delle indagini così approfondite se la Crimea al giorno d’oggi fosse appartenuta ai russi (a loro è dovuta la conquista di questa penisola, un tempo appartenuta ai Khan di Crimea), assai poco inclini ai mea culpa.
Viene riportato anche come la penisola resta contesa tra una diaspora riappropriatasi della sua patria e una parte di Russia di stampo bellicista che la rivorrebbe territorio coloniale panrusso (nasha).
La presenza del popolo ucraino e la proprietà odierna della penisola a Kiev, fortunatamente, non permette la realizzazione di questa scemenza.Un omaggio all’ucrainicità
Di Pasquale non nasconde le sue passioni nella narrazione: la giusta attenzione dedicata alle belle ragazze del luogo, il suo interesse per il folclore e i costumi della gente locale, lo strano gusto estetico – da me condiviso – per le orrorifiche architetture sovietiche di molte città.
Con la sua predilezione per il mondo della letteratura poi, viene resa giustizia a poeti ed intellettuali nazionali come Ivan Franko, Anna Ahmatova, Lesya Ukrayinka, Taras Shevchenko e altri autori importanti ma a noi poco conosciuti (uno su tutti l’ebreo Bruno Schulz).
Vengono esaminati in modo del tutto particolare i luoghi sacri dell’ortodossia come ilavra di Pochayiv e Kyiv (Kiev) e a queste tematiche impegnate ci sono sempre degli agevoli intermezzi in cui l’autore fa le sue considerazioni, suda, si irrita per i prezzi esagerati dei taxi e contratta o si riposa assaporando i gustosi ed eccellenti cibi ucraini, tatari e georgiani.
Massimiliano Di Pasquale ha reso omaggio e onore, con il suo libro, al popolo ucraino ma anche a noi italiani: agli ucraini ha dato una carta in mano per essere capiti e rispettati, ad essere considerati come un popolo di una nazione a tutti gli effetti, con una loro storia, una loro lingua e una loro peculiare visione del mondo distinta dai vicini di casa (siano essi russi, polacchi o rumeni).
Così poco si è voluto far sapere di questa parte del mondo in cui è l’Ucraina che ogni pubblicazione divulgativa, per la nostra società, è come una manna dal cielo per tutti noi.
Agli italiani, invece, con questa pubblicazione viene data la possibilità di uscire dai soliti luoghi comuni che su questo paese abbondano e sono sempre gli stessi (inutile elencarli, il lettore gli ha già nella sua testa).
Consiglio a tutti questa lettura per comprendere meglio l’Ucraina, un paese che ha grandissima importanza per l’Europa tutta: dal punto di vista culturale nonché geopolitico (e quest’ultimo punto è assai chiarito da Di Pasquale in alcune sezioni dedicate alla politica ucraina contemporanea).
Quello che però mi affascina di più dell’opera del giornalista pesarese è come, in modo divertente, intelligente e appassionante, sia stato in grado di portare a far comprendere al lettore cosa significhi trovarsi in una terra irrisolta che è al tempo stesso un confine culturale e territoriale.
l’Ucraina contiene due anime ma vuole essere un unita e indipendente in una Europa rispettosa e che tuteli la sua caleidoscopica sovranità e identità nazionale: occidentale, cattolica, middeleuropea, slava orientale, ortodossa, ucrainofona, russofona, tatara, ungherese…..Mi fermo qui, sarebbe inutile continuare: a voi il piacere di assaporare la lettura di questo meraviglioso e indispensabile libro per una più agevole comprensione di questo grande e intricato paese che è l’Ucraina!
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Libri: ‘Qui finisce la terra’, antologia dalla Palestina
| AnsaMED | Martedì 25 settembre 2012 |
ROMA, 24 SET – Disoccupazione e marginalita’, condizione della donna araba nello spazio israeliano, ma anche sesso, religione, terrorismo e detenzione nelle carceri israeliane, pacifismo e costruzione del muro. Sono i tanti temi affrontati da Ala Hlehel, Muhammad Ali Taha, Hisham Naffa’, Suheir Abu Oksa Daoud, Raja’ Bakriyyah, Bashir Shalash – sei giovani scrittori palestinesi con cittadinanza israeliana – in ”Qui finisce la terra” (il Sirente, pp. 116, 10 euro). In questa antologia tradotta dall’arabo e curata da Isadora D’Aimmo, sono raccolte le voci di giovani autori le cui famiglie non hanno mai lasciato la propria terra, la Palestina. Anagraficamente divenute israeliane, le loro famiglie vivono la lacerante condizione di chi non puo’ dirsi esule perche’ tecnicamente mai andato via, ma e’ la sua patria, la Palestina, a non esserci piu’, essendo subentrato nello stesso territorio lo Stato di Israele. Eppure la Palestina continua a vivere nelle storie personali e collettive della minoranza palestinese.
Il volume sara’ presentato alla Feltrinelli di Milano, il 3 ottobre ore 18.00, nell’ambito di ‘Philastiniat‘, ovvero cose della e dalla Palestina: una finestra sul mondo dell’arte e della cultura palestinese, dalla letteratura alle arti visive, dal cinema alla fotografia, dalla poesia alla musica, che dal 3 al 6 ottobre prossimi sara’ ospitata in vari luoghi del capoluogo meneghino.
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“Ucraina terra di confine”, il nuovo viaggio di Massimiliano Di Pasquale
| affaritaliani.it | Venerdì 14 settembre 2012 |
Leggendo Ucraina terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta di Massimiliano Di Pasquale – scrive Oxana Pachlovska, docente di Ucrainistica all’Università “La Sapienza” di Roma – mi venivano sempre in mente certe figure storiche più o meno note degli instancabili viaggiatori italiani grazie ai quali noi abbiamo resoconti affascinanti dell’Est europeo o dell’Asia. In quei racconti di diversi Marco Polo degni di miglior fortuna ci potevano essere inesattezze o incompletezze, ma non mancava mai la volontà sincera di capire l’Altro, di instaurare con lui un dialogo.
Lo spirito che informa Di Pasquale – che fa propria la lezione di grandi narratori di viaggio come Chatwin, Kapuściński e Terzani – scrive ancora Pachlovska è quello di “un Marco Polo modernizzato che non manca mai di stupirci in questa sua opera disinvolta e accattivante, sempre lontana come non mai dalla banalità di tante guide turistiche che vanno per la maggiore”.
Il testo, intriso di rimandi letterari, di discorsi con personaggi noti e anonimi, di interviste e mere chiacchiere coi passanti, è un patchwork fascinoso capace di restituire la cifra ’sincopata’ di un paese poliedrico e dalle infinite sfaccettature. L’Ucraina raccontata dall’autore in un libro impreziosito da un inserto fotografico di ben 16 pagine curato dallo stesso Di Pasquale, è un paese nuovo e dinamico che tra accelerazione e fermate, stop and go, sta cercando, non senza difficoltà, di lasciarsi alle spalle la patina brumosa del post-totalitarismo per diventare soggetto della Storia.
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Il cambiamento è irreversibile presto toccherà anche la politica
| La Repubblica | Sabato 16 giugno 2012 | Donatella Alfonso |
LA LIBERTÀ ha sempre un prezzo ma, avverte Khaled al Khamissi, scrittore e regista cairota che con il suo bestseller Taxi (tradotto in Italia da “il Sirente“) ha dato voce a proteste, sentimenti, desideri del popolo egiziano negli ultimi anni del regime di Hosni Mubarak, «ormai è iniziato un processo irreversibile, in Egitto come negli altri Paesi arabi. Possono anche venire i militari, può governare Shafiq, ma quella che è già una forte trasformazione sociale diventerà, nell’ arco di due o tre anni, anche politica. È una rivoluzione senza partiti, programmi, leader, ma è un percorso di libertà. La strada è lunga, aspettateci: tra dieci anni ci vedrete». Khaled al Khamissi, si può parlare di un golpe in Egitto? «La stampa occidentale adora i termini forti, ma io non la penso così. Se devo dire la verità, non me ne importa nulla di quello che accade sulla cima della piramide, perché io guardo alla base della piramide. Non interessa a me e non interessa alla gente. Che torni Shafiq, che i militari prendano il potere… sarà solo un problema di vertice. I cambiamenti sociali ormai sono irreversibili». Ritorno dei vecchi governanti, vittoria dell’ Islam radicale un po’ dappertutto: la primavera arabaè finita? «Lo ripeto dal gennaio del 2011: non c’ è nessuna primavera araba, ma un cambiamento sociale che continua e porterà a una vera trasformazione di tutti i nostri Paesi entro una decina d’ anni. La gente sa che ci vuole tempo, ma ha fiducia nel lungo periodo. Non teme né Shafiq, né i Fratelli musulmani perché crede nella libertà, che gli islamisti invece combattono. Shafiq vuole venire? Bene, che venga. Non cambierà quanto sta accadendo alla base della società». Da quanto lei dice sembra che i militari siano quasi dei garanti della trasformazione: non teme invece una guerra civile come ci fu in Algeria? «No, è passato molto tempo, la storia è diversa, c’ è Internet, c’ è la possibilità di esprimersi e il coraggio di farlo. Inoltre, non c’ è un nuovo potere islamico, i movimenti radicali, negli anni, sono stati sostenuti e finanziati sia da Sadat che, soprattutto, da Mubarak. E, per quanto riguarda il Consiglio supremo delle Forze armate, non vedo la possibilità di una sfida tra il ritorno al potere dell’ Ancien régime e un nuovo potere islamico. Ci sono interessi politici e finanziari da difendere, serve una stabilità». Pensa a un ruolo degli intellettuali in questo percorso di crescita democratica? «No, gli intellettuali non hanno un peso sufficiente. È la classe media, e soprattutto sono i giovani, perché il 60 per cento degli egiziani ha meno di 25 anni, che non intendono accettare né la formalità del sistema di Mubarak né di quello dei Fratelli musulmani. Si andrà progressivamente verso una concretizzazione politica di quanto si sta già facendo sotto il profilo sociale». Lei, quindi, che futuro vede per il suo Paese? «Io sono ottimista. Il cambiamento e la libertà saranno al potere tra una decina d’ anni. Aspettateci».
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Ridere a Beirut: nuvolette di guerra
| Avvenire | Lunedì 2 gennaio 2012 | Riccardo Michelucci |
Una vignetta come terapia per i problemi della vita quotidiana in un Paese complesso, ma anche come mezzo per sollevare istanze politiche e sociali di cui la gente preferisce non parlare. Dopo essere diventate un fenomeno editoriale in Libano e in Francia, le storie illustrate della giovane blogger libanese Maya Zankoul sono state tradotte anche in italiano dalla casa editrice il Sirente, che ha dato alle stampe i suoi volumi Amalgam e Amalgam 2 (quest’ultimo uscirà in gennaio), nei quali l’artista racconta in modo ironico e spregiudicato le contraddizioni e i tabù del Paese dei cedri.Graphic designer di talento nata in Arabia Saudita 25 anni fa, Zankoul è arrivata in Libano nel 2005, in tempo per respirare a pieni polmoni l’atmosfera della Primavera di Beirut e il suo impatto sui giovani. Le sue vignette minimaliste, dal tratto quasi infantile, raccontano i problemi di una gioventù vittima della disoccupazione, della crisi degli alloggi e di un autoritarismo familiare legato alla tradizione, ma parlano con arguto sarcasmo anche di corruzione, maschilismo e disparità sociali. «La vita in Libano è difficile, ma la complicazione ha anche un risvolto divertente», ha spiegato nei giorni scorsi, durante un giro di presentazioni del suo lavoro in varie città italiane.La sua esperienza è nata quasi per caso, un paio d’anni fa, grazie allo straordinario successo riscontrato dalle vignette pubblicate sul suo blog, dal quale sono poi nati i libri. Viene quasi automatico un accostamento con l’iraniana Marjane Satrapi: Amalgam non ha l’intensità emotiva di Persepolis, ma servendosi dell’ironia riesce comunque a raccontare la realtà quotidiana di un Paese pieno di contraddizioni, disordinato, esuberante, talvolta anche disinibito. Il primo volume, autobiografico, è una raccolta di episodi realmente accaduti all’autrice, che fotografano in modo originale la società libanese, usando la satira per parlare anche di eventi drammatici. Il secondo, più incentrato sui temi sociali, dà invece uno spaccato inedito del Libano odierno.
La gioventù raccontata da Zankoul è disincantata e ironica, capace di scherzare anche in tempo di guerra («Scommettiamo quale sarà il prossimo ponte che salterà in aria?», si chiedeva con gli amici durante l’ultimo conflitto con Israele), di ironizzare su problemi quotidiani come l’elettricità razionata («Quasi vent’anni dopo la fine della guerra civile il razionamento è ancora una realtà quotidiana»). Oppure di giocare con i paradossi dell’emancipazione femminile, ricordando che una donna libanese su tre si è sottoposta a chirurgia plastica e che molte donne vanno a fare jogging truccate («Ma il mascara non va via con il sudore?», si chiede).
Eppure il sistema sociale libanese ha ancora una base patriarcale e riconosce piena cittadinanza soltanto agli uomini. «Il velo e la minigonna non sono indicatori attendibili di sottomissione o libertà – spiega –. La donna libanese è più libera rispetto ad altri Paesi arabi ma mancano ancora alcuni diritti effettivi. Per esempio non possono ancora aprire un conto in banca al figlio o dargli la nazionalità». A complicare ulteriormente la vita alle donne, poi, c’è anche un diffuso pregiudizio sociale: «In Libano, prima dei ventun anni nessun genitore ti parla di ragazzi. Dopo vogliono che tu ti sposi.
Dopo il mio successo con il blog, mia nonna mi ha chiesto: hai delle buone notizie per me? E io le ho detto: ho un libro, un blog e sta andando tutto davvero bene». Ma lei ha risposto: «L’unica buona notizia per me sarebbe il tuo matrimonio». La religione è un altro tema ricorrente. Amalgam insiste sui paradossi di un Paese tra i più ricchi e liberi del mondo arabo, dove però le differenze religiose – con ben 18 confessioni religiose per soli 4 milioni di abitanti – rappresentano ancora la principale causa di tensione politica.
Oggi, la gioventù libanese è tormentata anche dal dilemma esistenziale sul «restare o partire»: molti ritengono che il Paese non offra niente e per questo se ne vanno in Europa o in America. Maya non ha dubbi. Sull’onda del successo dei suoi libri viene invitata in tutto il mondo e se volesse, potrebbe andarsene a vivere in Occidente. «Ma andar via vorrebbe dire aver perso la speranza – dice –. Io invece ho deciso di non scappare perché se tutti se ne vanno il mio Paese non cambierà mai. Gli ostacoli vanno superati e disegnare, per me, è un modo di resistere».
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Amalgam, difesa dei diritti in… fumetto
| Combonifem | Lunedì 19 dicembre 2011 |
Maya Zankoul attraverso le sue illustrazioni vuole diffondere la sua visione della società libanese, piena di contraddizioni in particolare nei confronti del mondo femminile. Grazie a un blog e alla pubblicazione di un libro sta diffondendo un modo di fare informazione giovane e pieno di humor.
«Se ho un problema, ne faccio una vignetta. E mi sento meglio». Fare fumetti e scrivere è molto più di una passione per la giovane Maya Zankoul. Classe 1986, ha studiato a Jeddah in Arabia Saudita fino al 2005. Ritornata a Beirut, sua città natale, decise a ventitre anni di aprire un blog per raccogliere tutte le sue illustrazioni che descrivevano la sua vita quotidiana, i suoi pensieri, ma soprattutto le sue denunce contro una società spesso piena di contraddizioni.
Da un’idea, nata per gioco, Maya ha così creato lo spazio online Amalgam da subito molto seguito, anche grazie alla pubblicazione di vignette politiche in occasione delle elezioni del 2009. Il passo successivo è stato la realizzazione di un libro, che raccoglie il suo lavoro in due volumi. Il testo in Italia è edito da il Sirente. Uno dei temi a lei più cari è la condizione della donna libanese, da un lato vittima molto spesso di violenza domestica e sottomissione patriarcale e dall’altro ossessionata dall’apparenza e dal raggiungimento della perfezione attraverso la chirurgia plastica.
Linguaggio giovane, immediato e pieno di sarcasmo è l’ingrediente con cui l’autrice cerca di denunciare corruzione, maschilismo e disparità sociali. Di sé stessa dice di essere ogni giorno una vittima del sistema in cui vive, per questo è suo diritto portare avanti, anche solo grazie ad un fumetto, un messaggio fermo e in controtendenza per non cadere in un’esistenza passiva. -

Il successo di “Amalgam”, blog e fumetto della libanese Maya Zankoul
| Controcampus | Lunedì, 19 dicembre 2011 | Benedetta Michelangeli |

Si chiama Amalgam ed è uno dei blog più seguiti del mondo arabo. L’autrice è la venticinquenne libanese Maya Zankoul: ha studiato Graphic Design e seguendo la sua passione per il disegno ha creato questo blog nel quale da due anni condivide vignette che parlano della società libanese, sulla scia di Marjane Satrapi che con Persepolis ha fatto il suo racconto della vita in Iran.
La giovane autrice libanese non aveva pensato ad un libro: inizialmente l’idea era quella di sfruttare le potenzialità del web per condividere le vignette che faceva, inseguendo la passione del disegno che ha dall’età di cinque anni. Non soltanto immagini che potessero dar sfogo alla frustrazione causata dalle contraddizioni e ingiustizie della società del suo paese, ma anche semplici racconti di vicende quotidiane.
Maya si è fatta conoscere nel 2009 quando in occasione delle elezioni in Libano ha realizzato delle vignette “politiche” che hanno incuriosito media e giovani utenti del web. Sono stati gli amici di Maya a stampare tutte le vignette del suo blog come regalo di compleanno. Successivamente l’autrice ha autoprodotto il suo libro, stampandone 1000 copie. Contro ogni aspettativa il libro “Amalgam“ ha raggiunto il quinto posto nelle classifiche di vendita del Virgin Megastore di Beirut. Adesso il fumetto in due volumi è stato tradotto in italiano ed è edito da il Sirente.
Maya è nata a Beirut ed è cresciuta a Jeddah in Arabia Saudita dove ha frequentato la scuola francese. Per i suoi primi disegni usava il dialetto libanese. Scelta sostituita presto dall’inglese. Non ha avuto problemi di censura in quanto Internet in libano non sembra attualmente essere soggetto a controlli, come accade in molti altri paesi arabi.
Queste vignette parlano delle gravi ingiustizie sociali, della corruzione, del maschilismo della società libanese. Ma lo fanno con una giusta dose di humor, chiave del successo di Maya. Tanti disegni sono dedicati alla contraddittoria condizione delle donne libanesi: la libertà di indossare qualsiasi capo di abbigliamento, l’ossessione dell’apparire perfette soprattutto grazie alla chirurgia plastica e parallelamente la loro posizione di sottomissione nella società. Dalla struttura patriarcale in cui sono inserite, alla violenza domestica che spesso subiscono e dalla quale è difficile uscire anche a causa della mancanza di una rete di protezione femminile. Insomma, una donna che appare ma che non può decidere nulla, privata anche del diritto di trasmettere la nazionalità ai propri figli. -
Intervista a Maya Zankoul
| Mangialibri | Martedì 13 dicembre 2011 | Elena Torre |
Il Pisa Book Festival 2011 è l’occasione adatta per incontrare Maya Zankoul, promettente fumettista libanese, anche scrittrice e blogger. In Italia è arrivata grazie alla casa editrice il Sirente che di lei ha pubblicato una serie di graphic novel che raccontano con un’ironia accattivante cosa sia realmente il mondo arabo. Maya è giovane, sorridente, contagiosa nel suo entusiasmo. E soprattutto ha voglia di raccontarsi.
Qual è il modo migliore per raccontare i contesti in cui si vive?
Trovo che il modo migliore per trasmettere i contesti sia il disegno, in grado di farsi comprendere da molte persone perché ognuno lo può interpretare secondo la sua immaginazione e il suo essere. E quindi trovo che è un mezzo di comunicazione universale, che non ha per forza bisogno di un testo per essere trasmesso.Quanto la componente ironica fa parte della tua scrittura?
Non è una parte della mia scrittura, ma è una parte di come sono io, di come io penso. Quando scrivo sono molto trasparente, i miei lavori sono autobiografici, le persone di cui parlo sono quelle vere, che sono o sono state parte della mia vita.Quali sono possibilità e difficoltà del comunicare in un mondo globalizzato?
Visto che il mondo è globalizzato credo che sia più facile comunicare perché il mondo è esposto a un gran numero di culture differenti e questo gli permette di comprendere un libro straniero e quindi dà una possibilità di conoscere l’altro. Qualche volta però la cultura – a causa della globalizzazione – perde la sua identità.C’è il rischio di stare a guardare alla finestra i mondi che non si conoscono senza approfondire e viverli in prima persona?
Penso che il rischio che tu paventi sia reale. Le domande che mi sono state poste anche prima di questo incontro sono state molto ‘orientaliste’, rispecchiano la visione che i media hanno del mondo arabo. Come di persone che stanno a guardare dalla finestra, come un qualcosa di esotico, senza conoscere veramente la mia realtà.Oggi si è parlato ancora una volta di cultura femminile. Non è discriminante secondo te?
Sì, lo è. Perché alla fine le donne scrivono esattamente come gli uomini, ma questo è difficile da far capire.Come decidi se una storia è una storia da scrivere oppure invece da disegnare?
Mi pongono molto spesso questa domanda, ma in realtà le due cose non sono separate. Scrittura e disegno vanno insieme, io non scelgo, è un’ispirazione che mi viene da dentro e le due cose sono complementari.Che cosa ci dobbiamo aspettare da te?
Non ho mai fatto dei piani, mai ho pensato che i miei libri per esempio sarebbero stati tradotti in italiano. Il progetto che si apre adesso è quello di trasformare i miei fumetti in cartoni animati, in modo da poter raggiungere un pubblico ancor più vasto. -
Il libro consigliato è ”Amalgam” di Maya Zankoul, Editrice il Sirente
| TGR Mediterraneo | Domenica 11 dicembre 2011 |
Il libro consigliato è ”Amalgam” di Maya Zankoul, Editrice il Sirente.
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Benvenuti nella “nostra” Hillbrow. Parola di Phaswane Mpe
| L’Opinione delle libertà | Mercoledì 24 agosto 2011 | Maria Antonietta Fontana |
Il libro mi ha sorpreso e sconvolto al tempo stesso. Sorpreso perché avevo vissuto personalmente ad Hillbrow tra novembre e dicembre 1984, quando mi trovavo in Sud Africa per effettuare una ricerca di mercato per conto dell’ICE. A quell’epoca Hillbrow, quartiere residenziale posto sulla collina che sovrasta l’altopiano su cui si erge Johannesburg, era una sorta di punto di incrocio di etnie diverse, a prevalenza bianca: erano ancora gli anni dell’apartheid, ma ad Hillbrow – che era sorta negli Anni Settanta come zona residenziale “borghese” – già si leggevano i segni di un cambiamento.
Personalmente alloggiavo nella parte ebraica del quartiere, e per raggiungerla a piedi avevo vissuto anche le mie brave disavventure (un inseguimento da parte di un criminale a scopo di rapina? Di stupro? Di tutt’e due? Chissà… Fortunatamente riuscii a raggiungere il mio alloggio prima che egli raggiungesse me).
Il quartiere che manteneva ancora, oltre al suo cosmopolitismo, una caratteristica progressista e anche intellettuale, era già sottoposto a quel processo di degrado, dovuto soprattutto a una pianificazione miope e carente, che nel corso del tempo lo ha trasformato in una zona pericolosa, decaduta, intrisa di criminalità, abitata da una popolazione invisibile, se non per la propria abietta povertà.
Eppure, la Hillbrow post-apartheid descritta da Phaswane Mpe nel suo libro resta un luogo affettivamente attraente: non è un caso che il titolo in inglese del libro suoni “Welcome to our Hillbrow”: quell’ “our”, “nostro”, ci dice tutto a proposito del rapporto tra il quartiere e i suoi abitanti.
Che poi nell’Hillbrow di Mpe si evidenzi il profondo odio xenofobo, l’intolleranza razziale che era tipica dei rapporti inter-razziali all’interno del Sud Africa, perfino tra le diverse etnie di colore originarie del luogo, anche prima del crollo del regime di segregazione; o ancora il devastante diffondersi dell’AIDS facilitato dalla promiscuità sessuale; tutto questo non influisce minimamente sull’affetto per Hillbrow, che non è più solo luogo geografico, ma che diventa luogo dell’anima.
Su tutto, l’arte di Mpe : una sorta di canto dispiegato, una ballata cantilenante, che culla il lettore con amara dolcezza, fa fiorire sotto il suo sguardo i vari personaggi, li accompagna mano nella mano fino alla loro morte annunciata: il suicidio di Refentše e la preannunciata morte di Refilwe a causa dell’AIDS che pure si “respirano” attraverso tutte le pagine del libro, e ne costituiscono il fil rouge, sono vissute senza il pathos del dramma.
Dalla prima pagina del libro sappiamo che il protagonista non è più tra noi, ma continua a costituire l’interlocutore cui idealmente l’io narrante dello scrittore onnisciente (che pure c’è e non c’è, non assurge mai al rango di giudice, ma si limita a un dialogo continuo con i suoi personaggi) si rivolge.
Non è soltanto un libro coraggioso, quello di Mpe: è un piccolo grande libro, la cui prosa originale e leggera cela una considerevole forza, un messaggio dirompente, un grido di allarme.
Mpe si ribella alla realtà decadente della Hillbrow, mostro tentacolare, in cui vive soltanto sette anni prima del proprio suicidio gettandosi dal ventesimo piano del palazzo in cui abita, ma di cui ama l’aspetto cosmopolita e gli spunti continui di riflessione.
Mpe porta avanti la propria campagna contro gli stereotipi e i pregiudizi, di qualsiasi tipo essi siano. E che Refilwe trascorra un periodo tra la morte di Refentše e il ritorno alla nativa Tiraganlong (ritorno per morirvi, appunto) ad Oxford è emblematico di quel che Mpe vuole dirci: ciascuno di noi ha la propria personale Hillbrow con cui fare i conti, e il rischio dell’umanità del ventunesimo secolo è quello di vivere estraniandosi dalla propria realtà.
Il nostro pericolo, insomma, è quello di non riconoscere le nostre stesse radici, di fermarci alle apparenze, di non sapere andare oltre.
Grazie all’editore, dunque: bella iniziativa, questa traduzione, e bella edizione seppure con qualche refuso di troppo.
Mi resta un dubbio però.
Perché, nella pur pregevole traduzione in italiano, è sparito dal titolo proprio quel riferimento così prezioso alla “nostra” Hillbrow? -
Il Libano amaro e sorridente di Maya Zankoul
| Il Manifesto | Venerdì 11 novembre 2011 | Anna Gabai |
Raccontare sé stessi e la propria quotidianità è un genere molto presente nella blogosfera, nei blog narrativi come in quelli grafici. In particolare, i fumetti autobiografici sono amati dal pubblico adulto, perché permettono di coltivare il proprio interesse per la letteratura grafica senza perdersi nei mondi fantastici dei supereroi o dei fumetti d’avventura: c’è possibilità di ritrovarsi in quello che si legge – se da piccoli sognavamo di fare gli astronauti e adesso lavoriamo in ufficio, siamo comunque interessanti e divertenti. E interessante e divertente è il blog della giovane graphic designer libanese Maya Zankoul di cui la casa editrice il Sirente propone una selezione delle strisce a fumetti in due volumi, Amalgam e Amalgam 2 (introduzione di Donatella Della Ratta, euro 15 ciascuno).
Attualmente in pausa, il blog di Maya era uno di quelli che si consultavano volentieri appena arrivati in ufficio o alla prima pausa caffè, perché infondeva una dose di buonumore e stampava sul viso il tipico sorriso del «se sapessi disegnare, disegnerei cosí!». Anche nel passaggio alla carta, nonostante una traduzione non sempre chiara, lo sguardo ironico e amorevole dell’autrice sulla sua vita quotidiana in Libano non si perde. In effetti, leggendo questi fumetti, si coglie la necessità di sfogarsi della graphic designer, ma non si tratta mai di sfoghi pessimisti e arrendevoli, bensì di momenti di comica riflessione sulla propria situazione.
Tra i temi che emergono, centrale è quello dell’identità femminile in Libano, un paese dove la chirurgia estetica è all’ordine del giorno, e trucco e capelli vengono quotidianamente curati nel minimo dettaglio, anche quando si va a fare jogging. Ma la giovane autrice non demorde nel suo essere una professionista che si è data obiettivi diversi da quelli che la maggior parte delle sue coetanee sembrano seguire (essere provocanti e trovare un fidanzato) o da quelli che suggerisce la nonna (sposarsi). Gli occhiali da sole onnipresenti e l’ombelico scoperto delle ragazze possono ricordare una certa Italia che in cerca di orientamento va a rifugiarsi in spiaggia.
Lo stile grafico di Maya Zankoul è minimalista e curato, i personaggi e i dettagli ricorrenti costituiscono un filo conduttore nella serie e le didascalie a piè di pagina permettono una riflessione ulteriore riguardo ai tema trattati nella striscia, un aspetto molto importante che sottolinea l’impegno sociale di Maya. -
Il Libano in fumetti, intervista a Maya Zankoul
| Caffè News | Sabato 5 novembre 2011 | Leyla Khalil |
Maya Zankoul, nata in Libano venticinque anni fa, è blogger e graphic designer libanese, conosciuta per lo più per le vignette sarcastiche che pubblica sul suo blog Amalgam.Cresciuta in Arabia Saudita e trasferitasi nuovamente a Beirut a diciott’anni per studiare Graphic Design, Maya racconta con i suoi fumetti la realtà quotidiana del Libano. Quella che alla maggior parte degli europei, infatuati di un’immagine esotica del Libano – illusi di trovare nell’odierna Beirut essenze di cannella, deserto e cammelli – ignora.
Dopo aver tentato l’auto-pubblicazione delle illustrazioni che postava sul blog, Maya ha raggiunto il successo in Libano e recentemente i due volumi del suo “Amalgam” sono stati pubblicati dalla casa editrice il Sirente.
Durante un breve tour di presentazioni in Italia, Maya Zankoul si è resa disponibile a Caffè News per un’intervista nella quale svela la faccia del Libano che in pochi conoscono.
Dal vivo come nei suoi semplici ma essenziali fumetti, Maya unisce critica ed ironia nel rispondere alle nostre domande sul Libano, senza dimenticare quell’ottimismo che fa anche delle denunce più amare qualcosa di creativo e mai sterile o fine a sé stesso.
Sorridendo infatti, Maya ci parla di inquinamento, censura, donne sottomesse, stereotipi, ma anche di cucina libanese e di cultura musicale. E, a più riprese, rivela di confidare parecchio nella comunicazione, virtuale e reale, per creare per il Libano un nuovo futuro.
Rappresenti la realtà libanese tramite fumetti in inglese: perché hai scelto proprio questa lingua e questa forma di espressione e non un libro o una lingua come il francese o l’arabo?
Ho scelto i fumetti perchè mi piacciono da quando ero piccola, l’inglese invece perchè l’università che frequentavo era in inglese, e su internet leggo quasi tutto in inglese, sono abituata, poi è la lingua parlata da più persone.Quindi l’obiettivo era chiaramente raggiungere il maggior numero di persone?
Sì, in realtà i primissimi disegni che ho fatto erano in libanese:non in arabo, proprio in dialetto libanese che si usa su internet (in caratteri latini, con numeri che riproducono suoni inesistenti in italiano, NdA) ma poi il cambiamento è venuto da sé: sono abituata all’inglese.In Arabia Saudita quale lingua parlavi correntemente?
La scuola era francese ma avevo anglofoni quindi parlavo inglese con loro.Ti aspettavi tutto il successo che hai avuto?
No, assolutamente no: ho iniziato per gioco, mi divertiva, il lavoro di cui mi occupavo era così noioso… Ho anche fatto un viaggio con la mia famiglia in Spagna e al mio ritorno ho fatto vignette con quello che mi era rimasto in mente, poi ci ho preso gusto ed ho deciso di continuare, mi sono detta “voglio ritrarre quello che succede quotidianamente in Libano”. Tutto quel che volevo esprimere, lo esprimevo con i disegni.Perché pensi che la gente abbia apprezzato a tal punto questi disegni?
Forse si sono identificati con quello che raffiguro:sono vicende che accadono anche a loro ogni giorno. Sono i miei amici che hanno iniziato a far circolare su Facebook i miei disegni. Poi nel 2009 in Libano c’erano le elezioni, ho fatto delle vignette a riguardo ed è da lì che i media se ne sono interessati ed i lettori sono aumentati piano piano.A proposito di elezioni, politica e controllo: hai avuto problemi di censura?
No, in Libano non c’è censura, ci sono pochi controlli su internet.
Ma so che sui film ci sono censure.
Sì, certamente sì, ma su internet no, sai, le autorità ancora non prendono sul serio internet. Ora forse iniziano, ma non è come negli altri paesi arabi.Come ad esempio in Giordania dove la giovane ragazza omosessuale che scriveva un blog e poi è stata presa ed è sparita nel nulla.
No, effettivamente in Libano è pieno di blog omosessuali, non ci sono problemi con i contenuti che si mettono online. C’è stato solo un caso di un tale che ha insultato il presidente ed è stato tenuto un po’ sotto controllo, ma niente di serio:le autorità hanno altro da fare ora.Cosa pensi della nuova generazione intellettuale libanese che si sta facendo avanti da qualche anno – facciamo i nomi di Joumana Haddad o Darina Al-Joundi in letteratura, Meen e Mashrou Leila in campo musicale, Nadine Labaki nel cinema. Pensi che stia davvero nascendo qualcosa di nuovo in grado di dare al Libano un’identità autonoma che non li costringa ad imitare i modelli fissi e limitanti imposti dall’Occidente o dall’Oriente?
In realtà non credo che in Libano stiano copiando l’Occidente:è un movimento universale che è in atto, non c’è più l’Oriente esotico dell’immaginario comune, è sparito del tutto. C’è certamente un carattere specifico di ogni paese, ma le cose sono cambiate.Ma che pensi delle nuove mamme libanesi che parlano unicamente in inglese o francese ai figli? Non credi sia un modo per prendere le distanze da quell’idea di Libano visto da fuori come paese orientale invece che popolo mediterraneo ed ormai occidentalizzato, quale invece è?
Il Libano è lontano dall’idea di palme, deserto, turbanti, è a metà strada fra Oriente ed Occidente:non penso sia un male, non bisogna essere per forza arabi. Abbiamo la nostra lingua, il parlare più lingue è frutto degli scambi culturali, i genitori che parlano altre lingue ai figli vogliono arricchirli perché sanno che comunque impareranno il libanese per altre vie.
I libanesi hanno la loro identità, molto flessibile e certamente un po’ internazionale:si adattano, ma è il normale sviluppo, secondo me. Non credo ad esempio che avere un sistema di trasporti pubblici in Libano significhi per forza copiar l’Occidente, penso significhi migliorare indipendentemente da dove il miglioramento viene!Passiamo a un tema di cui sicuramente già avrai ampiamente parlato:la donna in Libano. Vedo che tu prendi in considerazione una doppia schiavitù:quella del velo ma anche quella del bisturi, che rappresenta un fenomeno meno noto nell’immagine che del Medio Oriente si ha in Europa.
Sì, in Libano c’è l’ossessione delle apparenze:la donna libanese ha un’immagine molto libera, vedi tantissime ragazze in minigonna ricoperte di trucco, con i tacchi, ma niente affatto libere. Penso sia come una donna con burqa, schiava, vittima della società che impone alle donne la bellezza obbligatoria. È una sottomissione diversa alla società.
Poi questa donna sta in minigonna ma non può dar cittadinanza ai suoi bambini, non ha autorità, è sempre il marito o l’uomo o il padre a decidere tutto. Allora a cosa serve?Tu, in quanto blogger, pensi di poter cambiare qualcosa in questa situazione?
Sono molto ottimista e posso darti un piccolo esempio di come un piccolo blog può cambiare le cose. Tempo fa c’era una campagna pubblicitaria per la festa della mamma con una foto di madre e figlia con un naso enorme che diceva “Grazie mamma per il bene e per il male”, quindi indirettamente dicevano che il naso è un male che la madre passa alla figlia, il che è assurdo perchè non è un male e non è colpa della madre, poi un naso grandino può fare qualcuno molto bello. Allora ho fatto un post con una parodia critica di questa pubblicità, facendo un paragone anche con la trasmissione dell’Aids; qualche settimana dopo hanno cambiato la pubblicità in “Grazie mamma per avermi fatto unica”, hanno cambiato le immagini, anche.
Sai, è importante, perchè in un paese dove le ragazze sono così ossessionate sarebbe un incubo per una ragazza con un naso grande vedere una pubblicità così!Quindi, come dicevi prima, i blogger iniziano ad avere più rilievo…
Sì, spesso vengono presi illustratori e blogger anche per occuparsi di pubblicità.Riguardo l’inquinamento e traffico in Libano, cui prima accennavi, che dici? C’è secondo te un modo di sviluppare ecologicamente il Libano senza rischi? Quando si tenta la ricostruzione delle ferrovie, vengono subito distrutte dalla guerra:pare allora che i libanesi abbiano smesso di tentare.
In Libano la gente è sempre pronta alla guerra improvvisa. Io ho vissuto la guerra del 2006, non quella difficile, la guerra civile.
Nel 2006 la guerra fu improvvisa:c’è sempre un senso di provvisorietà per cui non sai quello che succederà domani, è anche per quello che i libanesi sono molto legati alla vita, alla vitalità, al carpe diem.
Gli piace divertirsi e fare festa perché oggi è così e domani non si sa.
Ma non è una scusa per evitare di far progressi come metro, treni, strade:sai quanti giovani muoiono in incidenti perché non ci sono regole, marciapiedi?
La gente attraversa la strada a piedi, ci sono problemi di internet lento, elettricità che salta. Spero che questo cambi senza guerra.
Ad esempio mia nonna aspetta sempre la guerra, è abituata, ma forse la nostra generazione può uscire da questo circolo perché non ha vissuto una guerra davvero devastante come quella civile:forse si può arrestare questa paura continua e questa mentalità.
Sono sicura che anche se tanta gente va via dal Libano per farsi una vita migliore, la vita si può far anche in Libano.
Ma ci sono molti infatti che tornano.
Molti sì, ma molti no, sono rimasti fuori a cercare una vita migliore.Allora per finire, se dovessi consigliare all’Italia un prodotto culturale libanese?
Il gruppo Meen:musica molto libanese e al tempo stesso ironica. Molti libanesi cantano in inglese, loro invece usano il libanese e scrivono testi molto simpatici, divertenti.E un prodotto di cucina, visto che nel tuo blog si parla anche di questo?
Posso dirne tanti? Fattouche (insalata con pane tostato o fritto, cetrioli, lattuga, cipolla, limone ecc) con melassa di melograno (“dibs el remmen”), che è un po’ acida, poi labneh (a metà fra yogurt e formaggio fresco). Fra l’altro ultimamente ho fatto un’esposizione proprio sul cibo libanese… Ah, poi comunque c’è il knefeh (torta di semolino e formaggio) come dolce.
Ma alla base della cucina libanese ci sono labneh e olive. -
Il Libano in fumetti, intervista a Maya Zankoul
| Caffè News Online Magazine | Sabato 5 novembre 2011 | Leyla Khalil |
Maya Zankoul, nata in Libano venticinque anni fa, è blogger e graphic designer libanese, conosciuta per lo più per le vignette sarcastiche che pubblica sul suo blog Amalgam.
Cresciuta in Arabia Saudita e trasferitasi nuovamente a Beirut a diciott’anni per studiare Graphic Design, Maya racconta con i suoi fumetti la realtà quotidiana del Libano. Quella che alla maggior parte degli europei, infatuati di un’immagine esotica del Libano – illusi di trovare nell’odierna Beirut essenze di cannella, deserto e cammelli – ignora.
Dopo aver tentato l’auto-pubblicazione delle illustrazioni che postava sul blog, Maya ha raggiunto il successo in Libano e recentemente i due volumi del suo “Amalgam” sono stati pubblicati dalla casa editrice il Sirente.
Durante un breve tour di presentazioni in Italia, Maya Zankoul si è resa disponibile a Caffè News per un’intervista nella quale svela la faccia del Libano che in pochi conoscono.
Dal vivo come nei suoi semplici ma essenziali fumetti, Maya unisce critica ed ironia nel rispondere alle nostre domande sul Libano, senza dimenticare quell’ottimismo che fa anche delle denunce più amare qualcosa di creativo e mai sterile o fine a sé stesso.
Sorridendo infatti, Maya ci parla di inquinamento, censura, donne sottomesse, stereotipi, ma anche di cucina libanese e di cultura musicale. E, a più riprese, rivela di confidare parecchio nella comunicazione, virtuale e reale, per creare per il Libano un nuovo futuro.Rappresenti la realtà libanese tramite fumetti in inglese: perché hai scelto proprio questa lingua e questa forma di espressione e non un libro o una lingua come il francese o l’arabo?
Ho scelto i fumetti perchè mi piacciono da quando ero piccola, l’inglese invece perchè l’università che frequentavo era in inglese, e su internet leggo quasi tutto in inglese, sono abituata, poi è la lingua parlata da più persone.Quindi l’obiettivo era chiaramente raggiungere il maggior numero di persone?
Sì, in realtà i primissimi disegni che ho fatto erano in libanese:non in arabo, proprio in dialetto libanese che si usa su internet (in caratteri latini, con numeri che riproducono suoni inesistenti in italiano, NdA) ma poi il cambiamento è venuto da sé: sono abituata all’inglese.In Arabia Saudita quale lingua parlavi correntemente?
La scuola era francese ma avevo anglofoni quindi parlavo inglese con loro.Ti aspettavi tutto il successo che hai avuto?
No, assolutamente no: ho iniziato per gioco, mi divertiva, il lavoro di cui mi occupavo era così noioso… Ho anche fatto un viaggio con la mia famiglia in Spagna e al mio ritorno ho fatto vignette con quello che mi era rimasto in mente, poi ci ho preso gusto ed ho deciso di continuare, mi sono detta “voglio ritrarre quello che succede quotidianamente in Libano”. Tutto quel che volevo esprimere, lo esprimevo con i disegni.Perché pensi che la gente abbia apprezzato a tal punto questi disegni?
Forse si sono identificati con quello che raffiguro:sono vicende che accadono anche a loro ogni giorno. Sono i miei amici che hanno iniziato a far circolare su Facebook i miei disegni. Poi nel 2009 in Libano c’erano le elezioni, ho fatto delle vignette a riguardo ed è da lì che i media se ne sono interessati ed i lettori sono aumentati piano piano.A proposito di elezioni, politica e controllo: hai avuto problemi di censura?
No, in Libano non c’è censura, ci sono pochi controlli su internet.
Ma so che sui film ci sono censure.
Sì, certamente sì, ma su internet no, sai, le autorità ancora non prendono sul serio internet. Ora forse iniziano, ma non è come negli altri paesi arabi.Come ad esempio in Giordania dove la giovane ragazza omosessuale che scriveva un blog e poi è stata presa ed è sparita nel nulla.
No, effettivamente in Libano è pieno di blog omosessuali, non ci sono problemi con i contenuti che si mettono online. C’è stato solo un caso di un tale che ha insultato il presidente ed è stato tenuto un po’ sotto controllo, ma niente di serio:le autorità hanno altro da fare ora.Cosa pensi della nuova generazione intellettuale libanese che si sta facendo avanti da qualche anno – facciamo i nomi di Joumana Haddad o Darina Al-Joundi in letteratura, Meen e Mashrou Leila in campo musicale, Nadine Labaki nel cinema. Pensi che stia davvero nascendo qualcosa di nuovo in grado di dare al Libano un’identità autonoma che non li costringa ad imitare i modelli fissi e limitanti imposti dall’Occidente o dall’Oriente?
In realtà non credo che in Libano stiano copiando l’Occidente:è un movimento universale che è in atto, non c’è più l’Oriente esotico dell’immaginario comune, è sparito del tutto. C’è certamente un carattere specifico di ogni paese, ma le cose sono cambiate.Ma che pensi delle nuove mamme libanesi che parlano unicamente in inglese o francese ai figli? Non credi sia un modo per prendere le distanze da quell’idea di Libano visto da fuori come paese orientale invece che popolo mediterraneo ed ormai occidentalizzato, quale invece è?
Il Libano è lontano dall’idea di palme, deserto, turbanti, è a metà strada fra Oriente ed Occidente:non penso sia un male, non bisogna essere per forza arabi. Abbiamo la nostra lingua, il parlare più lingue è frutto degli scambi culturali, i genitori che parlano altre lingue ai figli vogliono arricchirli perché sanno che comunque impareranno il libanese per altre vie.
I libanesi hanno la loro identità, molto flessibile e certamente un po’ internazionale:si adattano, ma è il normale sviluppo, secondo me. Non credo ad esempio che avere un sistema di trasporti pubblici in Libano significhi per forza copiar l’Occidente, penso significhi migliorare indipendentemente da dove il miglioramento viene!Passiamo a un tema di cui sicuramente già avrai ampiamente parlato:la donna in Libano. Vedo che tu prendi in considerazione una doppia schiavitù:quella del velo ma anche quella del bisturi, che rappresenta un fenomeno meno noto nell’immagine che del Medio Oriente si ha in Europa.
Sì, in Libano c’è l’ossessione delle apparenze:la donna libanese ha un’immagine molto libera, vedi tantissime ragazze in minigonna ricoperte di trucco, con i tacchi, ma niente affatto libere. Penso sia come una donna con burqa, schiava, vittima della società che impone alle donne la bellezza obbligatoria. È una sottomissione diversa alla società.
Poi questa donna sta in minigonna ma non può dar cittadinanza ai suoi bambini, non ha autorità, è sempre il marito o l’uomo o il padre a decidere tutto. Allora a cosa serve?Tu, in quanto blogger, pensi di poter cambiare qualcosa in questa situazione?
Sono molto ottimista e posso darti un piccolo esempio di come un piccolo blog può cambiare le cose. Tempo fa c’era una campagna pubblicitaria per la festa della mamma con una foto di madre e figlia con un naso enorme che diceva “Grazie mamma per il bene e per il male”, quindi indirettamente dicevano che il naso è un male che la madre passa alla figlia, il che è assurdo perchè non è un male e non è colpa della madre, poi un naso grandino può fare qualcuno molto bello. Allora ho fatto un post con una parodia critica di questa pubblicità, facendo un paragone anche con la trasmissione dell’Aids; qualche settimana dopo hanno cambiato la pubblicità in “Grazie mamma per avermi fatto unica”, hanno cambiato le immagini, anche.
Sai, è importante, perchè in un paese dove le ragazze sono così ossessionate sarebbe un incubo per una ragazza con un naso grande vedere una pubblicità così!Quindi, come dicevi prima, i blogger iniziano ad avere più rilievo…
Sì, spesso vengono presi illustratori e blogger anche per occuparsi di pubblicità.Riguardo l’inquinamento e traffico in Libano, cui prima accennavi, che dici? C’è secondo te un modo di sviluppare ecologicamente il Libano senza rischi? Quando si tenta la ricostruzione delle ferrovie, vengono subito distrutte dalla guerra:pare allora che i libanesi abbiano smesso di tentare.
In Libano la gente è sempre pronta alla guerra improvvisa. Io ho vissuto la guerra del 2006, non quella difficile, la guerra civile.
Nel 2006 la guerra fu improvvisa:c’è sempre un senso di provvisorietà per cui non sai quello che succederà domani, è anche per quello che i libanesi sono molto legati alla vita, alla vitalità, al carpe diem.
Gli piace divertirsi e fare festa perché oggi è così e domani non si sa.
Ma non è una scusa per evitare di far progressi come metro, treni, strade:sai quanti giovani muoiono in incidenti perché non ci sono regole, marciapiedi?
La gente attraversa la strada a piedi, ci sono problemi di internet lento, elettricità che salta. Spero che questo cambi senza guerra.
Ad esempio mia nonna aspetta sempre la guerra, è abituata, ma forse la nostra generazione può uscire da questo circolo perché non ha vissuto una guerra davvero devastante come quella civile:forse si può arrestare questa paura continua e questa mentalità.
Sono sicura che anche se tanta gente va via dal Libano per farsi una vita migliore, la vita si può far anche in Libano.Ma ci sono molti infatti che tornano.
Molti sì, ma molti no, sono rimasti fuori a cercare una vita migliore.Allora per finire, se dovessi consigliare all’Italia un prodotto culturale libanese?
Il gruppo Meen:musica molto libanese e al tempo stesso ironica. Molti libanesi cantano in inglese, loro invece usano il libanese e scrivono testi molto simpatici, divertenti.E un prodotto di cucina, visto che nel tuo blog si parla anche di questo?
Posso dirne tanti? Fattouche (insalata con pane tostato o fritto, cetrioli, lattuga, cipolla, limone ecc) con melassa di melograno (“dibs el remmen”), che è un po’ acida, poi labneh (a metà fra yogurt e formaggio fresco). Fra l’altro ultimamente ho fatto un’esposizione proprio sul cibo libanese… Ah, poi comunque c’è il knefeh (torta di semolino e formaggio) come dolce.
Ma alla base della cucina libanese ci sono labneh e olive. -

Amore e morte a Johannesburg
| Il Manifesto | Martedì 1 novembre 2011 | Maria Paola Guarducci |
Phaswane Mpe, «Benvenuti a Hillbrow». Duro, imperfetto e appassionato, il romanzo di Mpe unisce uno stile visionario e a tratti canzonatorio alle ambientazioni da realismo sociale tipiche della letteratura sudafricanaScomparso nel 2004 a soli 34 anni, Phaswane Mpe era un promettente scrittore sudafricano che, al pari del coetaneo Sello Duiker, morto suicida appena un mese dopo Mpe, è diventato emblema tragico delle difficoltà nelle quali dimorano le nuove generazioni del paese. Mpe e Duiker (ma anche Yvonne Vera, scomparsa quarantenne nel 2005 nel confinante Zimbabwe) sono stati sconfitti da mali noti, Aids e depressione, ai quali il Sudafrica non ha offerto sinora risposte concrete e strade percorribili, preferendo ad esse la via immediata del pregiudizio e dell’isolamento. Questi autori lasciano in eredità poche opere, ma folgoranti e lucide, in cui espongono, talora persino con ironia, quella stessa sofferenza che ha segnato il loro vissuto.
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Libano, Maya Zankoul: la sua terra a fumetti e la guerra alla musica “maschilista”
| Osservatorio Iraq | Mercoledì 26 ottobre 2011 | Angela Zurzolo |
Messaggi sessisti lanciati dai cantanti pop libanesi nei loro testi e nei loro videoclip, donne che non possono dare la nazionalità ai loro figli, ma anche strade dissestate, niente corrente, internet lento e pregiudizi sulle ventunenni non ancora convolate a nozze. Il Libano moderno, e Maya Zankoul in particolare, stanno affrontando una guerra dal carattere molto diverso da quelle a cui siamo abituati.
Osservatorio Iraq ha intervistato Maya Zankoul, ieri, al Caffè Letterario di Roma, durante un incontro organizzato dall’associazione Arabismo e dalle Biblioteche comunali di Roma. Vi presentiamo l’autrice del blog illustrato dal quale sono stati tratti tre libri, l’ultimo dei quali ‘Amalgam’, appena tradotto in Italia dalla casa editrice il Sirente.
Il suo profilo e i suoi occhi tradiscono le sue origini, ma Maya Zankoul si mimetizza bene tra le ragazze italiane. Stesso stile, stesso modo di muoversi in un caffè e socializzare. E un nome, Maya, che in Libano non rivela alcun dettaglio sul suo credo religioso.
Questa graphic designer di ventiquattro anni, già autrice di tre libri, l’ultimo dei quali Amalgam (appena tradotto in Italia da Chiarastella Campanelli, per la casa editrice il Sirente), nasce come blogger.
“Mi sono sentita poco d’aiuto di fronte a tutto ciò che non andava per il verso giusto nel mio paese ma, adesso, tutte quelle cose che prima mi davano fastidio, mi urtano di meno perchè sto già facendo qualcosa per combatterle: mi sto esprimendo e rivolgendo al mondo. Il primo passo per il cambiamento, secondo me, è parlare, diventare attivisti, sollevando istanze politiche e sociali delle quali prima la gente non parlava, perchè nella vita quotidiana erano ormai diventate normalità, cose all’ordine del giorno. Adesso, sento la responsabilità di provare ad effettuare un cambiamento”, ci racconta Maya.
E lo fa in una maniera davvero originale, senza mai cedere a facili drammatismi, ma sempre e solo usando l’ironia come mezzo per denunciare ed entrare nella coscienza degli individui attraverso ciò che sta sotto i loro occhi ogni giorno.
“In realtà, la satira è un modo di rispondere agli eventi drammatici. Mi servo di uno stile comico per introdurre questi eventi e farli accettare”.
Sulla questione siriana, alle porte dei confini territoriali con la sua terra, ci dice: “E’ molto triste e spezza il cuore ciò che sta accadendo lì. ogni giorno giunge la notizia di gente che sta morendo in un modo veramente violento. E’ inaccettabile. E’ molto triste che sia così vicino, ma che cosa possiamo fare?”.
Poi, ci spiega cosa significhi essere una ragazza libanese in un mondo arabo in rivolta: “In Libano, non è come negli altri paesi della primavera araba. Noi abbiamo molta più libertà degli altri paesi ma la battaglia di una ragazza nel mio paese è principalmente sociale, perchè le donne non hanno tutti i loro diritti, quindi c’è molto per cui combattere. C’è molto da fare per migliorare le infrastrutture e il sistema economico. Così, può essere una battaglia ma può essere anche molto divertente, perchè la vita in Libano è ricca, ci sono molte cose da fare, ci sono molte attività, la gente è molto attiva”.
Maya dà voce ad un Libano che lo scenario internazionale sembra ancora non riconoscere ed interpretare “come se fosse ancora in guerra. Ma la guerra è finita e il Libano ne sta ora pagando le conseguenze, affrontando però problemi quotidiani. Ogni giorno l’elettricità viene tagliata, internet è lento. Ma stiamo attraversando un periodo di relativa calma”.
La protagonista del libro di Maya Zankoul è emblematica. Dal carattere autobiografico, la graphic novel si presenta come una raccolta di episodi realmente accaduti nella vita quotidiana dell’autrice.
Una vignetta presente sul suo blog, racconta di un suo viaggio insieme alle amiche verso Ceddars. In macchina, l’autista, un vero ‘fighetto’, canta una canzone che rivela particolarmente cosa significhi vivere in una società sessita, nella quale il pregiudizio verso il clichè della donna-madre e casalinga, è accettato e riconosciuto socialmente da molti.
“E’ un episodio accaduto la scorsa estate. C’è una canzone davvero sessista ma davvero popolare in Libano. Tantissime persone la adorano. Il cantante si chiama Hammad Askandar, un artista che si diverte molto a catturare l’attenzione del pubblico scrivendo canzoni sempre più folli. E’ davvero triste perchè esprime il concetto che se un altro ragazzo mi dovesse guardare, lui punterebbe una pistola alla sua testa e gli sparerebbe su due piedi. Inoltre, afferma che la sua donna non dovrebbe rispondere al cellulare se non in sua presenza. Molto ‘macho’, ma davvero inaccettabile! E la gente ama questa canzone! In un’altra canzone, il videoclip è un disastro. Lui è con sua figlia e quest’ultima vuole lavorare, ha finito l’università e cerca lavoro. Tutta la canzone è centrata sul fatto che lei non dovrebbe lavorare: Resta a casa e sii il presidente del mio cuore”.
Nel video si vede un direttore nell’ufficio che molesta sessualmente la ragazza e intanto il cantante ammonisce la ragazza, per persuaderla che “il direttore vedrà quanto sei bella e ti tormenterà”. Inoltre, aggiunge: se lavori, dovrai lasciare tuo figlio con la domestica dello Sri Lanka che è violenta e i bambini, soli con lei, piangono.
“Una realtà totalmente capovolta, quest’ultima, dal momento che in Libano le lavoratrici domestiche sono praticamente ridotte a subire uno stato di ‘servitù’ e contemporaneamente di schiavitù, che preoccupa e inorridisce quanto più aumentano i casi di violenza sessuale dei padroni sulle domestiche e i casi di suicidio tra le lavoratrici che molto spesso provengono da Sri Lanka o Filippine.
I problemi relativi ai diritti delle donne in Libano, poi, sono anche altri. “C’è molto da fare. Le donne libanesi non possono dare la nazionalità ai loro figli, e ciò è profondamene ingiusto”. Il sistema sociale libanese, infatti, ha base patriarcale e riconosce piena cittadinanza solo ai maschi. Quest’anno, la pubblica accusa e una commissione giuridica presso il ministero della Giustizia hanno contestato una decisione pronunciata a giugno da tre giudici, che consentiva a Samira Soueidan di trasmettere la propria cittadinanza libanese a tre dei suoi figli.
A complicare la vita delle donne, anche il pregiudizio sociale: “In Libano, prima dei 21 anni nessun genitore ti parla di ragazzi. Dopo i 21 anni, vogliono che tu ti sposi. Così! Cambiano improvvisamene subito! Dopo il mio successo con il blog, mia nonna mi ha chiesto: Hai delle buone notizie per me? e io ho risposto: Ho un libro, un blog e sta andando tutto davvero bene”.
E infatti il suo libro è nella ‘top five’ dei più letti…: “Lei ha risposto: Voglio che tu ti sposi! Questa è la sola buona notizia per me!”.
Maya continua invece a puntare sul suo talento da graphic designer: se all’inizio trovava i suoi studi noiosi ed asettici, poi il suo talento ha saputo trovare un modo per trasformarsi in qualcosa che la entusiasmava, con il suo blog e il suo ‘Zankoulizer’, uno Zankoulizzatore, l’applicazione attraverso la quale chiunque può creare un suo personale avatar, un suo personale personaggio, servendosi dello stile grafico dell’artista.
Maya ci spiega che le sue opere “Non sono fumetti, perchè, sai, i fumetti tradizionali hanno delle strisce e dei box per le storie. Nei miei disegni non ci sono nuvolette. Il testo è libero. Sono storie illustrate”.
Il lavoro di Maya si è concentrato negli anni passati anche sugli aspetti politici del paese, in particolare raccontando le elezioni, attraverso il suo humour dissacrante. Se le si chiede però se il suo lavoro può avvicinarsi per alcuni aspetti anche al graphic journalism, risponde: “Le mie sono storie vere ma non so. Forse tu lo puoi chiamare graphic journalism. Per ora, io sto solo divertendomi. Sono cresciuta con i cartoni animati e mi sono sentita molto influenzata da alcuni corti. Tra i miei progetti futuri, quello di trasformare i miei protagonisti in cartoni animati”. -
Il fumetto che vive di buone intenzioni
| ComicsBlog.it | Martedì 25 ottobre 2011 | Daniele |
Il successo internazionale di Marjane Satrapi ha generato negli ultimi anni un epifenomeno editoriale: è iniziata una rincorsa alla pubblicazione di autori indipendenti che scrivono dal e del Medio Oriente. Il processo è facilitato da un interesse crescente degli occidentali per la realtà e le problematiche di questa regione, che ha avuto il suo momento di gloria nella recente Primavera araba. I territori più frequentati sono quelli del graphic journalism, del diario a fumetti, del blog che diventa libro. L’ultima importante pubblicazione del genere è certamente Zahra’s Paradise, lanciato, in modo anche abbastanza sensazionalistico, come un caso editoriale.
Ma l’intensità emotiva e la freschezza di Persepolis non ha portato dietro di sé molte opere all’altezza. E oggi, per quanto riguarda quest’ambito – ma il discorso può essere facilmente allargato -, il fumetto sta vivendo uno strano periodo. C’è un paradosso di fondo che lo determina: per molti anni, soprattutto in Italia, il fumetto è stato snobbato e “ghettizzato” ma, dopo aver faticato a conquistarsi il suo spazio e a vedere riconosciuta la sua dignità artistica e culturale, si è creato un bizzarro pregiudizio al contrario. Siamo al punto in cui qualsiasi fumetto che tratti argomenti fuori dall’usuale, rispetto alla lunga tradizione di intrattenimento di massa, viene recepito positivamente dalla critica, in modo quasi automatico. Per non parlare dell’etichetta di graphic novel, diventata in sé sinonimo e garanzia di qualità.
Prendiamo, ad esempio, Maya Zankoul – e valga solo come esempio -, giovane autrice araba che ha appena pubblicato un libro in Italia, Amalgam. L’editore lo presenta così: “Dal Libano con humor e sarcasmo un fumetto divertente e autobiografico che racconta la vita dalle parti di Beirut di una ventitreenne audace che parla liberamente di corruzione, maschilismo e disparità sociali. Il libro è nato da un blog tra i più seguiti nel mondo arabo”.
Gli ingredienti ci sono tutti: è una donna, è libanese, affronta in modo spregiudicato di argomenti sono tabù nel suo paese, racconta di un mondo che ci affascina, ha messo su un blog. Però poi basta dare un’occhiata al suo lavoro per recepirne la pochezza: racconto semplicistico e disegno a dir poco infantile. Oggettivamente brutto. Viene da pensare a tutti gli autori che si fanno le ossa nelle scuole di fumetto, che passano una vita a scrivere e disegnare prima di trovare il proprio stile, a tutti i talenti che faticano ad emergere in un mercato asfittico, in perenne crisi. Tutto ciò rafforza il paradosso. I lettori di fumetti sono sempre stati molti esigenti e dal fumetto di genere pretendono idee, competenze, cura editoriale, credibilità e valore grafico. Come, del resto, i fruitori di cinema e letteratura cercano la qualità in quello che vedono e leggono. Ma nessun regista o scrittore potrebbe realizzare lavori mediocri e cavarsela, come fa Zankoul, con frasi come: “Se ho un problema, ne faccio una vignetta. E mi sento meglio”.
Alla fine questo meccanismo non fa che alimentare, per converso, l’eterno pregiudizio verso il fumetto. Il messaggio che ne deriva è il solito: che in fondo il fumetto in sé non è un arte, è una cosa di poco conto. Quindi, se vuoi farti perdonare il fatto che dedichi il tuo tempo ai disegnini allora è il caso che tu parli di politica e di privato, di costume e società, come nelle rubriche dei nostri ridicoli notiziari, e avrai il tuo temporaneo posto al sole. E’ chiaro che, se sei italiana, nessuno sarà disposto a pubblicare i tuoi diari delle medie a fumetti sotto forma di blog, o almeno non finché non sia giunto il momento (devi prima avere il tuo seguito online). Ma la qualità non è richiesta. Non ci si rifugi allora nel fumetto che vive di buone intenzioni. Non basta dare spazio agli autori arabi per ammantarsi di sensibilità e multiculturalismo. Dipende sempre da quello che preferiamo – o che ci fa più comodo – vedere. Anche in questo caso, rischiamo di replicare nuovi stereotipi con il vecchio schema dell’esotismo paternalista e borghese del mondo occidentale. Si chiama ‘orientalismo’, e ne scrisse con grande lucidità un intellettuale palestinese, Edward Said. -
Maya Zankoul, al Pisa Book un assaggio di Primavera Araba
| PisaNotizie.it | Lunedì 24 ottobre 2011 |
La nota fumettista, scrittrice e blogger ha presentato i due volumi di “Amalgam” editi in Italia da il Sirente
Maya Zankoul, scrittrice, blogger, fumettista, esempio lampante di come il Medio Oriente non sia un unico cono d’ombra, come troppo spesso le informazioni, i racconti della stampa internazionale lo descrivono.
Nella giornata di sabato 22 ottobre, Maya Zankoul (giovanissima, libanese di nascita ma con trascorsi in Arabia Saudita e in Tunisia) ha presentato al pubblico del Pisa Book Festival i due volumi di “Amalgam” (pubblicati in Italia da il Sirente Editore), fumetto al limite dell’autobiografia che racconta la vita dalle parti di Beirut, ma i problemi, le contraddizioni, le speranze sono quelle di un pezzo di continente che sta attraversando, in questa fase storica, momenti di profondo cambiamento.
La protagonista del “Amalgam” è una ragazza di 23 anni, che non teme di parlare di corruzione, guerre di religione, maschilismo, classi sociali, con uno stile e un “piglio” innovativo e accattivante, che non ha mancato infatti, di attirare su di sé le attenzioni di buona parte del mondo arabo.
Blogger di “grido”, soprattutto in Libano dove la Zankoul vive, ha pubblicato i due volumi di “Amalgam” nel 2009 e nel 2010. Un precedente simile si era verificato in Egitto, dove quello che era nato come un semplice atto di accusa s’è trasformato nel celebre blog Wanna-b-a-bride, in cui l’autrice, Ghada Abdel Aal, ancora una volta una donna, raccontava le disavventure di una giovane single egiziana alla ricerca di un marito.
“Sono molte le contraddizioni che affliggono il Medio Oriente – racconta Maya durante la presentazione al Pisa Book – e tra queste ci sono senz’altro le differenze religiose e le conseguenti separazioni. Prima di nascere sei già musulmano o cristiano. Tutto questo deve finire. Le divisioni religiose non hanno più senso ormai”.
“Noi in Libano, ma anche in altre regioni del Medio Oriente – ha spiegato la Zankoul – viviamo una strana fase del ‘dopo’. Dopo la guerra, dopo la fine dei regimi di Tunisia e d’Egitto, dopo una crisi economica devastante. Combattiamo con il fatto che nelle nostre case l’acqua e la luce elettrica arrivino per tre ore al giorno. Ma lottiamo, anche con le armi dell’ironia e della satira”. -
Amalgam, una vita in un fumetto
| Nena News | Martedì 18 ottobre 2011 | Azzurra Merignolo |
In modo stravagante, colorato e divertente, Maya ricostruisce in “Amalgam” la sua autobiografia in fumetti per raccontare al pubblico che cosa implica per una ragazza di 23 anni parlare liberamente di corruzione, maschilismo e disparità sociali in Libano, un paese di 4 milioni di abitanti dove “convivono” 18 confessioni religiose.
“Nonna ho una buona notizia. Ho iniziato un blog, scritto un libro, organizzato mostre, presentazioni e molti workshop” dice Maya “Hai vent’un anni anni?” le chiede la nonna. “Ne ho ventitre!” risponde lei. “Avevo cinque bambini quando avevo la tua età e tua madre ha avuto te quando ne aveva ventitre” bacchetta la nonna. “Se sei ancora single, la tua vita non ha significato né scopo.”Questa la morale di questa storia autobiografica di Maya Zankoul, uno dei tanti racconti raccolti in Amalgam, la grapich novel di questa autrice libanese. Maya sta ora arrivando in Italia per presentare il sui libro, edito dal Sirente, che farà il suo debutto al Book Festival di Pisa sabato 22 ottobre.
In modo stravagante, colorato e divertente, Maya ricostruisce la sua autobiografia in fumetti per raccontare al pubblico che cosa implica per una ragazza di ventitre anni parlare liberamente di corruzione, maschilismo e disparità sociali in Libano , un paese di quattro milioni di abitanti dove convivono diciotto confessioni religiose.
“Vivendo in Libano, mi considero fortunata che il mio nome sia al 100% neutrale per la religione, mi piace trarre vantaggio da ciò” racconta Maya in un altro frammento dove ricorda tutte le occasioni nelle quale, chiedendole il nome, qualcuno ha cercato di capire se si rivolgeva a Dio piuttosto che ad Allah.
I due volumi di Amalgam, pubblicati nel 2009 e 2010 in Libano, sono il risultato di un blog che Maya aveva creato anni fa per sfogarsi da quei problemi che i libanesi devono affrontare ogni giorno con l’impressione di essere costantemente una vittima del sistema. Un precedente simile era successo in Egitto, dove quello che era nato come un semplice sfogo s’è trasformato nel seguitissimo blog Wanna-b-a-bride, dove l’autrice, Ghada Abdel Aal raccontava le disavventure di una giovane single egiziana alla ricerca disperata di un marito. Il successo ottenuto dal blog ha spinto una casa editrice egiziana ad adattarne i contenuti per un libro. “Che il velo sia da sposa”, tradotto anche in italiano, è diventato rapidamente un best seller da cui è stata tratta una musalsala, l’equivalente delle nostre telenovelas, per la televisione egiziana.
Questa tendenza conferma che il web è il primo posto nel quale il mal contento femminile riesce ad esprimersi e a diffondersi all’interno di società dove certi discorsi tabú non hanno trovato spazio. In aggiunta, il crescente numero di diari virtuali divenuti libri testimonia che la sfera virtuale è anche un luogo dove si nascondono talenti letterari, un palcoscenico battuto dagli editori che cercano di scovarci i nuovi talenti da lanciare sul mercato.
Anche se con le sue storie Maya racconta il Libano di oggi in modo critico e realistico, riassumendo in modo efficace l’umore generale che si respira nella blogosfera locale, le sue parole e i suoi disegni provocano la risata del lettore.
“I miei amici emigrano in Europa . Io da qui non mi muovo. Al massimo mi siedo e disegno le mie frustrazioni – dice Maya, sapendo che la satira è uno strumento potente nelle mani di quanti vogliono utilizzarla. Lo faccio con humor perché la comicità è il mio modo di criticare le cose.” -
Uscite fumetti ottobre 2011: Cagliostro E-Press, Double Shot, E. F., Editrice Il Sirente, BD, Flashbook
| Pianeta Fumetto | Lunedì 17 ottobre 2011 | Marco Frassinelli |
Dal libano con humor e sarcasmo un fumetto stravagante e autobiografico che racconta la vita dalle parti di Beirut di una ventitreenne audace che parla liberamente di corruzione, maschilismo e disparità sociali. Il volume, pubblicato nel 2009 in madrepatria, parte da un blog che Maya Zankoul ha creato come sfogo ai problemi che i libanesi devono affrontare ogni giorno, con l’impressione di essere costantemente una vittima del sistema. Un diario quotidiano a fumetti che dà uno spaccato divertente e molto realistico del Libano di oggi.
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Libri: ‘La danza dello scorpione’ di Akram Musallam
| ANSAmed | Lunedì 10 ottobre 2011 |
“Eravamo adolescenti. E’ venuta da me in ‘sala da ballo’ verso sera. E’ arrivata all’improvviso e, dopo una presentazione piuttosto concisa, mi ha detto di essere venuta a mostrarmi uno scorpione che si era appena fatta tatuare proprio dove comincia la colonna vertebrale”. Inizia cosi’ il racconto del giovane scrittore palestinese, Akram Musallam, “La danza dello scorpione” (il Sirente, pp. 114, 15 euro), in questi giorni nelle librerie italiane. Con il narratore la ragazza, di origini francesi, trascorrerà la notte, per poi sparire e non tornare mai più. Sarà invece il piccolo scorpione color indaco a prendere vita e ad ossessionare i sogni del giovane ogni notte, nel tenace quanto fallimentare tentativo di arrampicarsi su uno specchio dal quale scivolerà, consumato da un’estenuante e vorticosa danza. Costruito proprio sulla metafora dello scorpione e ambientato a Ramallah, questo breve ma autoironico romanzo descrive con lucidità e amarezza la situazione mediorientale dopo gli Accordi di Oslo e il fallimento della seconda Intifada. Sullo sfondo, l’occupazione israeliana e il quotidiano rapporto dei palestinesi con la vita e la morte. “Ricordo – scrive il narratore – di avere lasciato Ramallah per qualche tempo, su consiglio medico, per riposarmi i nervi dalle complicazioni di un rapporto quotidiano con la morte o con notizie che la riguardavano”. L’impotenza dello scorpione narrata da Akram è anche quella del padre del narratore, che ha perso una gamba – e con essa la sua virilità – non a causa dell’occupazione, ma semplicemente per un chiodo arrugginito. Altre figure, dotate ciascuna di una forte carica simbolica, appaiono in tutta la storia per scomparire presto. Tra queste, quella rappresentata da un ex-detenuto, “somaro della rivoluzione” che è appena stato rilasciato dopo diciotto anni di carcere, e che è costretto a riprendere servizio presso coloro che lo hanno sempre considerato un vero e proprio somaro.
Premiato nel 2007 dalla prestigiosa fondazione Abdul Mohsen Al-Qattan, Akram è stato paragonato della critica a Emil Habibi, scrittore arabo israeliano autore del “Pessottimista”, scomparso nel 1996.
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Strisce di rivolta: Egitto, giovani e fumetto, quando la denuncia si fa comic
| Rutin.it | Giovedì 6 ottobre 2011 | Jlenia Currò |
La primavera araba non è sinonimo della caducità delle stagioni. Simbolizza, piuttosto, la nascita di una rivoluzione contro i regimi. Dalle viscere della terra, non dal vertice delle piramidi, si è innalzato lo stelo della rivoluzione. Bandiere di libertà, come petali di fiori, si sono dispiegate sotto un cielo che ha implorato emancipazione dallo stato di oppressione. Il movimento di rivolta, in Egitto, è nato dal basso: la terra da cui sono sorti i metaforici fiori di libertà è il contesto omogeneo del web 2.0, dei social network, dei blog.
Il 18 gennaio 2011 non è stato un politico o una celebrità a denunciare, per mezzo di una pubblica dichiarazione, il regime di Hosni Mubarak. Il merito di avere acceso la miccia che ha infiammato la terra di Cheope è di Asmaa Mahfouz, una giovane donna egiziana che, quel giorno, ha postato su YouTube un video di denuncia contro il regime. Gli aggiornamenti su Facebook e Twitter si sono susseguiti con la rapidità di un anticorpo iniettato nel sangue. La volontà di segnalare e rendere noto lo stato di oppressione si è tradotta nel coraggio di mostrare al mondo quello che si era sempre saputo e che però era restato intrappolato nella diplomazia dei ‘piani alti’.
Anche per le strade del Cairo, la street art si fa portavoce delle novità che hanno interessato il Paese. Mummie riportate in vita sui muri delle vie egiziane non evocano ancestrali paure ma invocano la libertà.
Un medium con una naturale propensione a rappresentare gli impulsi, i desideri, le necessità la cui spinta proviene dal basso, dalla gente, è certamente il fumetto.
Della nona arte, infatti, si sono serviti gli artisti vicini alle idee dei ribelli contro il regime di Mubarak. Primo tra tutti Magdy El Shafee. La sua graphic novel Metro narra le vicende di un software designer, Shahib, nel realistico contesto di un Egitto vessato dai soprusi del regime.
Metro annuncia, profeticamente, quello che sarebbe stato, tre anni dopo, il dissenso manifestato dai ribelli. Le allusioni ad un sistema corrotto, al clientelismo, alla censura sono evidenti a tal punto che è proprio quest’ultima a colpire l’autore della graphic novel. Nel 2008 Magdy El Shafee è comparso davanti al tribunale del Cairo con l’accusa di avere prodotto materiale pornografico e di avere utilizzato un linguaggio eccessivamente volgare. Il fumetto, quindi, è stato ritirato dalle librerie del Cairo.
Risvegliare le coscienze in un sistema di oppressione non è lecito. Anche il solo uso del dialetto che parlano i personaggi di Metro non è ben visto dai sostenitori del regime. La scelta, infatti, non è casuale: il fumetto si serve della varietà dialettale come legittimazione di una società eterogenea, voltando le spalle all’esclusivo utilizzo dell’arabo Fusha, simbolo dell’unità del mondo arabo.
Più mezzi, dunque, volti a realizzare un unico obiettivo: documentare una inarrestabile pulsione di rivolta che, oggi, si è tradotta in azione concreta.
Il fumetto, ancora una volta, si presenta come un medium capace di rivolgersi al pubblico più disparato: oltre la letteratura, oltre la rappresentazione visiva, oggi strizza l’occhio agli ideali di libertà, si fa manifesto dell’esigenza di testimonianza e condivisione. -
NEL CORPO Maya Zankoul
| D La Repubblica | Ottobre 2011 | Elisa Pierandrei |
L’ultima cosa che fa prima di dormire?
Gioco una partita di Fruit Ninja sul mio telefonino.Cosa la tiene sveglia la notte?
Paure e inutili preoccupazioni.È mai andata da uno psicanalista?
Certamente. Ho sempre bisogno di una persona che mi ricordi che non sono il personaggio di un fumetto.Cosa le piace di più nel corpo di un uomo?
Le spalle.Cosa mangia a pranzo la domenica?
Fattouch (l’insalata più gustosa che esista, con timo, melograno, melassa), hummus, fichi secchi e foglie di vite. Beauty: mai senza…. Una buon eyeliner, per occhi da gatta.Quanto conta il sesso nella vita?
Tanto quanto il cibo e l’acqua.Fa sport?
Mi piace giocare a basket e a badminton.Si reincarna in uomo, la prima cosa che vorrebbe sperimentare?
Fare pipì in piedi.Cosa c’è sempre nel suo frigo?
Labneh fresco e olive di Hasbaya, il villaggio dove sono nata: sono le migliori al mondo.Come si rilassa?
Preparando dessert cioccolatosi.Il senso più importante?
Se dico “la vista”, mi viene in mente la musica di Brad Mehldau e allora vorrei dire “l’udito”. Ma così mi vengono in mente le carezze del mio ragazzo, e allora vorrei dire “il tatto”. Alla fine penso alla torta al cioccolato e vorrei dire “il gusto”.Cosa non indosserebbe mai?
Abiti di paillettes.È felice?
Sono un’inguaribile ottimista, quindi sì.Maya Zankoul, 25 anni, blogger e illustratrice libanese. Esce in questi giorni il suo primo libro Amalgam (ed. il Sirente). Sarà oggi, 22/10, al Pisa Book Festival.
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Cenere sotto il tappeto
| PUB | Lunedì 19 settembre 2011 | Maddalena Sofia |
Metro è una graphic novel. Pubblicata per la prima volta nella primavera 2008 dalla casa editrice araba Melameh, viene censurata dopo pochissimo tempo dal Tribunale di Qasr el Nil de Il Cairo con l’accusa di contenere “immagini immorali e personaggi che somigliano a uomini politici realmente esistenti”.
Un fumetto, una storia semplice, ricca di spunti di riflessione riguardo al mondo musulmano, o meglio, riguardo alla percezione che si ha di esso in quel che comunemente viene definito Occidente. Ma la lettura di Metro rappresenta anche un modo per avvicinarsi alle problematiche sociali, economiche e politiche che attanagliano i paesi islamici, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti riguardanti in particolare l’Egitto e la Libia.
Metro è ambientato proprio in Egitto, al Cairo e fin dalle prime pagine l’autore racconta e mette in risalto la diffusa corruzione e lo sfruttamento dei più deboli da parte della classe politica.
L’incipit della storia è la rapina a una importante banca della capitale, ad opera di Shihab, il protagonista, e Mustafa, suo amico e collega. Sono entrambi ingegneri, lavorano in un ufficio di programmazione e hanno progettato un software per la sicurezza della metro e delle banche. I due contano di realizzarlo con l’aiuto di un finanziamento per poi venderlo e guadagnare un po’ di soldi. Ma le banche non finanziano il progetto perché sono corrotte e conniventi con personaggi politici di spicco che vorrebbero impossessarsi del software senza pagare e abusando del loro potere. Chiunque si offra di aiutare i due ragazzi viene messo fuori gioco con ricatti, violenze o assassinii: perciò i due protagonisti optano per la decisione estrema di rubare, atto quasi giustificato nel contesto della storia, come se fosse l’unica soluzione possibile per sfuggire a una dilagante povertà.
La chiave di volta nella storia è la figura di Dina, fidanzata di Shihab. È una giornalista cui è stato “ordinato” di coprire i misfatti della classe politica e la corruzione dello Stato. Si evince che in Egitto la stampa è ancora molto controllata e manipolata dalla classe dirigente, ma la voglia di riscatto è più forte e allora lei decide di pubblicare un articolo nel quale racconta la verità su quel che c’è dietro la faccenda del software, senza menzionare la rapina: Shihab inizialmente si oppone a questa scelta per paura di essere scoperto, ma poi si ricrede ed è proprio Dina a fargli capire l’importanza di rendere pubblici i loschi meccanismi sottesi ai giochi di potere. In parte a causa di queste rivelazioni, scoppierà una rivolta a Il Cairo, sintomo del malcontento diffuso del popolo.
Dina è un personaggio centrale nella storia e si carica ancora di maggiore importanza perché si tratta di una donna; a dispetto di qualsiasi stereotipo legato all’Islam, Dina appare emancipata e impegnata politicamente, al contrario di quello che si potrebbe pensare delle donne musulmane, associate molto spesso all’immagine di vittime impotenti degli uomini, obbligate a mortificare il proprio corpo indossando il burqa.
L’autore utilizza un approccio originale e molto realistico nelle scelte editoriali: l’uso delle piante metropolitane, che raffigurano lo spazio de Il Cairo per renderne meglio l’idea, e l’uso del dialetto egiziano, sdoganato da Internet, sono due elementi che fanno presa diretta con i lettori. Danno un’idea di concretezza, ci mettono di fronte a una città e a un popolo come essi sono davvero.
L’intenzione editoriale è quella di allontanare il più possibile concezioni ancora legate all’esotismo: il mondo arabo in generale e quello egiziano in particolare, non è fatto solo di piramidi, cammelli e cose del genere.
Da Metro si evince, invece, che l’uso delle tecnologie avanzate non è più esclusiva dell’“uomo bianco”: l’Egitto è un Paese raffinato da un punto di vista mediatico e i personaggi sono perfettamente a loro agio nel rapporto con la tecnologia.
Una cosa che sorprende nel fumetto è l’assenza della religione, contrariamente alla comune concezione occidentale, che vorrebbe i musulmani quasi ossessionati dal loro dio fino a spingerli a compiere atti irrazionali.
Lungi dall’essere considerato precursore delle rivolte consumatesi in Egitto e Libia, Metro si pone soltanto come spunto di riflessione per presentare il mondo arabo contemporaneo scevro da qualsiasi preconcetto e per analizzare più da vicino una situazione sociale, economica e politica a lungo covata, di cui i disordini in atto sono solo la punta dell’iceberg. In effetti, anche nel racconto, la rivolta non cambia uno stato di cose, che potrebbe essere modificato soltanto con una consapevolezza reale e aderente alla cultura di quei paesi. Alla fine della storia resta tutto uguale: la rivolta viene prevedibilmente repressa dall’Hagg Khader, il partito egiziano di maggioranza, che, in caso di disordini, paga gente per picchiare chi manifesta contro lo Stato e l’autore inserisce un colpo di scena finale, un ennesimo atto di disonestà, che condannerà Shihab ad essere abbandonato al proprio destino.Magdy El Shafee nasce in Libia, nel 1961; comincia la sua carriera nel 2001, come illustratore e fumettista in occasione del Comic Workshop Egypt, tenutosi presso l’Università Americana de Il Cairo.
Fin dagli esordi, le sue opere ricalcano temi sociali della vita quotidiana della capitale egiziana, ma toccano anche argomenti spiccatamente legati alla politica, all’economia, alla povertà.
Metro viene pubblicato per la prima volta nel 2008 in Egitto; esso procura all’autore un processo e una condanna alla distruzione di tutte le copie e al pagamento di una salata ammenda. La motivazione ufficiale del sequestro è quella di aver usato un linguaggio troppo spinto, ma i veri motivi sembrano essere la critica radicale al governo e alla corruzione politica.
Il processo a Magdy El Shafee e al suo editore, Mohamed Sharqawi, ha avuto una grande risonanza, fino alla pubblicazione di Metro in Italia nel 2010 all’interno della collana Altriarabi da parte della casa editrice Il Sirente; altre pubblicazioni sono previste all’inizio del 2012 in Francia e in Inghilterra. -
Magdi El Shafee – Metro (recensione di Giulia De Martino)
| Scritti d’Africa | Sabato 18 giugno 2011 | Giulia De Martino |
Questa volta parliamo di un graphic novel, un fumetto insomma. Balzato alle cronache, letterarie e non, italiane per un doppio motivo. Il primo riguarda la censura e il processo affrontati da autore ed editore, condannati, oltre che ad una ammenda pecuniaria, alla distruzione dell’opera che non può più circolare in Egitto. Il secondo ha a che fare con quanto sta accadendo, in questi giorni, al popolo egiziano: la presa di coscienza che ha portato tutti per strada a reclamare la fine della dittatura di Mubarak e l’instaurazione di un regime democratico che garantisca libertà, diritti sociali e politici. Ebbene, questo fumetto, basta sfogliarlo soltanto, sembra una anticipazione di questi avvenimenti, con protagonisti proprio quei giovani che stanno riempiendo le strade del Cairo.
Credo sia doveroso dire che qualche altra anticipazione, su che aria tirava al Cairo, l’avevamo già avuta in due libri. Taxi di Al-Khamissi e Essere Abbas al- Abd di Ahmad al-Aidy ci avevano presentato questa città caotica e contraddittoria, nevrotica e appiattita su modelli culturali voluti dal regime, con tanta gente ai margini, ma desiderosa di far sentire la propria voce, in mezzo ad una tensione tale da far supporre che la tradizionale rassegnazione stesse per scoppiare.
Magdy el-Shafee ci rappresenta tutto questo, scrivendo il primo graphic novel del mondo arabo, proponendo una creazione originale nella grafica e nei contenuti. Hugo Pratt, il suo modello, confessa in molte interviste l’autore, intervenuto in Italia, al Salone del fumetto. Ci ha messo dentro tutto il suo amore per il disegno e per la libertà: come molti giovani egiziani è un blogger( così anche il suo editore finito in carcere per i fatti del 6 aprile 2008) attivista nel movimento per il cambiamento democratico dell’Egitto.
Protagonista è il giovane ingegnere Shihab, piccolo genio informatico, prototipo di quella gioventù che ha studiato, è capace e intelligente, ma non ha nessuna chance di farcela in una società dalla scarsa mobilità sociale e non interessata ai meriti di chi vuole progredire per sé e per il paese. Domina dappertutto il “sistema”: ovvero la corruzione, le consorterie del parentado e del potere, la rapacità di banchieri, uomini d’affari e poliziotti, pronti a sbranarsi tra di loro o a proteggersi, a seconda delle convenienze. Shihab ha tentato di inserirsi in un affare più grosso di lui, con il risultato di non riuscire più a scrollarsi di dosso i debiti contratti con uno strozzino, ammanicato con pezzi grossi. Ha pensato di uscirne fuori, rubando in una banca, con l’aiuto dell’amico Mustafa, i misteriosi soldi di una valigetta che doveva, invece restare segreta. Ha scoperto un vero e proprio complotto, ordito ai danni di un uomo d’affari che, dopo avere diviso un cammino di nefandezze con i suoi soci, disgustato aveva deciso di smetterla, provocandone l’ira omicida. Ma la trama non sta tutta qui nel thriller, perché dentro c’è anche il tradimento dell’amico Mustafa, frequentato sin dai tempi della scuola, proveniente da una famiglia povera, in cui una madre disperata se la prende con i figli che non riescono a lavorare. L’uno, Wael, si arrangia cantando alle feste, sognando di girare un memorabile videoclip, da cui trarre fama e soldi e intanto accetta i soldi del partito al potere per picchiare, come infiltrato, i manifestanti delle rivolte del pane dell’aprile 2008. L’altro, Mustafa, ruba i soldi a Shihab, stravolgendo le parole dell’amico sui modi per uscire dalla trappola in cui tutti sono relegati, ma lo fa dopo la morte del fratello alla manifestazione, quando si accorge che ai politici non gliene importa proprio niente che Wael sia morto per loro.
E c’è anche l’amore per la bella, generosa, rivoluzionaria giornalista Dina, che di manifestazioni non se ne perde una, decisa a lottare con gli altri, perché fermi e zitti non si può più stare; Shihab è un disilluso che gioca a fare il cinico, ma l’affetto disinteressato della ragazza è uno spiraglio di luce e di futuro, forse il giovane finirà per darle retta.
Su tutto domina la città, rappresentata di sopra e di sotto: gran parte della storia si svolge nei vagoni metropolitani o nelle stazioni, alcune chiamate con i nomi di Nasser, Sadat e Mubarak e ironicamente accompagnate da frasi famose dei leader egiziani. Nei disegni, come nei quadri di Bosch, si svolgono tutta una serie di storie minori, quella del vecchio Wannas, un po’ cristiano e un po’ musulmano quando si tratta di acchiappare elemosine, o della zia di Shihab, che è anche indovina, o ancora un ragazzino beccato da un controllore senza biglietto, un trasloco, un casermone rappresentato con tutte le voci delle famiglie che si lamentano di tutti i mille problemi della miseria.
Affresco affascinante e originale, condotto con un disegno in bianco e nero, parte da un contorno netto che si fa sempre più sfumato, quasi che alla dissoluzione del disegno corrisponda il dissolvimento di questa megalopoli, inghiottita dalla mancanza di futuro e di speranza.”Le persone vivono come anestetizzate. Non c’è niente che le colpisca. Per quante cose possano vedere alla fine diranno sempre: fratello, questo è pur sempre il mio paese…” dice ad un certo punto Shihab. Presente nel testo pure un duro attacco ai media, accodati al regime e ad un criterio falso di verità. Solo i giovani bloggers egiziani hanno saputo rompere questo imbambolamento delle coscienze.
Eccellente la traduzione di Ernesto Pagano, perché sappiamo che il testo si esprime in un dialetto egiziano crudo e popolare, su cui già si era esercitato il traduttore in Taxi. Plaudiamo anche alla scelta di lasciare le tavole del fumetto nella lettura da destra a sinistra , cominciando la storia dall’ultima pagina, come in un testo arabo, per non stravolgere i disegni originali: una piccola fatica in più per i nostri occhi addomesticati all’uso consueto, ma che vale la pena di affrontare per un godimento assicurato. -
Questo libro contiene immagini e personaggi che somigliano a uomini e politici realmente esistenti
| TG3 | Venerdì 1 aprile 2011 | Romana Fabrizi |
Tradotto in italiano poco prima di essere censurato e ritirato dalle librerie in Egitto, “Metro” è un fumetto che ha denunciato la vigilia della rivolta, la crisi della società civile sotto Mubarak, dando il via alla liberalizzazione della cultura. Sentiamo Romana Fabrizi.
“Questo libro contiene immagini e personaggi che somigliano a uomini e politici realmente esistenti”. È la frase sulla quarta di copertina di “Metro”, libro a fumetti di Magdy El Shafee. La frase non è di presentazione ma di recensione, ricalca la sentenza del tribunale del Cairo che ha censurato e ritirato il libro. Romanzo politico, metropolitano che denuncia con disegni taglienti come lame corruzione e clientelismo in Egitto. Racconta la storia di alcuni blogger egiziani, le ingiustizie, la crisi finanziaria e sociale, si lega alle radici della rivolta contro Mubarak.
Arrivato in Italia prima di essere sequestrato, si legge al contrario come i giornali arabi, cominciando dall’ultima pagina. Denuncia la natura dispotica del regime, un attimo prima che cominci la rivolta il 25 gennaio 2011 quando la società civile manifesta per le strade d’Egitto come non si era mai visto negli ultimi 30 anni, fino alla caduta di Mubarak.
Il fumetto è solo per grandi, specifica l’autore nell’edizione araba, in realtà solo per pochi, per chi è riuscito a comprarlo prima che venisse ritirato dalle librerie del Cairo. -
Magdy El Shafee, “METRO”
| L’indice dei libri del mese | Aprile 2011 | Maria Elena Ingianni |
Prendete un pezzo di formaggio, se è scadente non importa, ciò che conta è l’odore, che deve essere intenso. Non vi serve per calmare frettolosamente una fame improvvisa: il vostro scopo è quello di catturare un topolino che avete visto nascondersi dietro la credenza della cucina. A ben pensarci voi non lo temete su serio, quel piccolo roditore e, in fondo, neppure vi dà così fastidio. Che cosa provate, dunque, a cattura riuscita? Soddisfazione, eccitazione, disgusto? E se, diversamente, foste voi il topo in trappola? Se risvegliandovi da un brutto sogno notaste che il vostro corpo è ricoperto di un pelo irto e grigio e che il mondo che avete davanti, a lato e dietro è fatto solo di sbarrette di metallo? Questa è la condizione in cui si sente di vivere Shihab, il protagonista di Metro, il graphic novel egiziano che è costato all’autore, Magdy El Shafee, un processo conclusosi con una condanna alla distruzione di tutte le copie, nonché al pagamento di un’ammenda.
Attraverso Shihab, giovane software designer che per pagare un debito organizza una rapina in bance, Magdy, contestatore del regime di Mubarak, denuncia il clima di corruzione della politica egiziana senza tacere i nomi degli oppositori, e racconta i sentimenti che animano i giovani egiziani, trasformandoli in immagini. Non è più soltanto la parola a farsi protesta: il tratto sapiente e sconsiderato dell’autore squarcia il velo di Maya, dietro il quale si nasconde la tirannia. Il lettore vede i volti degli accusati, li riconosce, identificando a sua volta se stesso nell’oppresso, che parla e, quindi, legge in ammeya, ovvero nel dialetto. Agnizione che diventa conoscenza e, di qui, moto di ribellione. Il filo di Arianna su cui si muove la storia di Shihab è la linea rossa della metro del Cairo. Si attraversa il traffico della “umm al-Dumnia”, la madre del mondo, come la chiamano affettuosamente gli egiziani, si entra nelle botteghe, si conversa con il popolo, ci si scontra con lo sguardo cieco, il sorriso dei vecchi e la rassegnazione al fatto che l’assicurazione sanitaria per gli ultimi non esiste. Shihab è un ragazzo in trappola, confinato a sopravvivere dentro le mura del popolo suddito, in una condizione di metaforica prigionia sociale che descrive con queste parole: “Per te il pezzo di formaggio è un telefonino nuovo. Per il ricco è una bella sventola e la bella sventola corre dietro a una BMW ultimo medello. Il pezzo di formaggio cresce fino a diventare un castello a Sharm el-Sheikh o una yacht ormeggiato nel porto di Marina (…) Quello che conta è che tutti restino occupati a rincorrere il loro formaggio senza pensare a nient’altro”.
Accattivante, ingegnosa, dissacrante, sporca e nervosa, la mano di Magdy El Shafee freme sulla pagina, nell’impeto proprio di una generazione che non vuole cedere i propri sogni all’arrendevolezza a cui è stata educata. Se fino a due mesi fa questo graphic novel sembrava esprimere l’urlo isolato di un ribelle, adesso sappiamo che i topi non inseguono più solo il pezzo di formaggio, ma sanno anche salire sulla metro e non scendere alla fermata Mubarak. -
Una matita per la libertà
| TG3 Mediterraneo | Domenica 27 marzo 2011 | Roberto Alajmo |
Tradotto in italiano poco prima di essere censurato e ritirato dalle librerie in Egitto, “Metro” è un fumetto che ha denunciato la vigilia della rivolta, la crisi della società civile sotto Mubarak, dando il via alla liberalizzazione della cultura. Sentiamo Roberto Alajmo.
“Questo libro contiene immagini e personaggi che somigliano a uomini e politici realmente esistenti”. È la frase sulla quarta di copertina di “Metro”, libro a fumetti di Magdy El Shafee. -
Magdi el Shafee, “Metro”
| Internazionale | Venerdì 25 marzo 2011 | Francesco Boille |
El Shafee vive in Egitto ma è mentalmente cosmopolita, infatti subisce le influenze più varie: Hugo Pratt (di cui è innamorato), i supereroi statunitensi o i manga, di cui questo libro propone, oltre a un’influenza stilistica, la struttura editoriale e la lettura da sinistra verso destra per le singole tavole. Autore ed editore locale sono stati perseguitati e censurati in patria, condannati a pagare una multa salata e a distruggere tutte le copie del libro per presunte scene di sesso e riferimenti a politici. Non è strano. La sfida-messaggio dell’autore è di liberarsi dalla corruzione, materiale e spirituale, che è in tutti noi (e che riguarda anche l’Italia), liberarsi da questa prigione mentale e appropriarsi con avidità di tutte le opportunità che offre la democrazia. Magdi deve lavorare ancora per trovare un equilibrio tra immediatezza (che lo rende pericoloso per il potere) e profondità, nella chiarezza della costruzione delle tavole e nell’amalgama delle influenze (talvolta sorprendenti) e degli stili (dal realismo all’umorismo: in quest’ultimo il disegno eccelle, El Shafee è infatti un vignettista umoristico). Ma il lettore avrà una radiografia della situazione in Egitto incredibilmente precisa, narrata in modo rapsodico.
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Metro
| Fumetto d’Autore | Martedì 22 marzo 2011 | Giorgio Messina |
Il fumetto può raccontare la realtà che ci circonda? Ovviamente sì. E per farlo, il fumetto ha bisogno necessariamente di essere “graphic journalism”? Ma assolutamente no. Il genere può benissimo raccontare anche l’attualità. Ce lo dimostra ancora una volta – caso mai ce ne fosse bisgono – “Metro”di Magdy El Shafee, la prima “graphic novel” egiziana, che con una storia thriller a tratti noir (quello che i francesi chiamerebbero “polar”) racconta la situazione dell’Egitto prima della caduta di Mubarak, descrivendone i fermenti sociali ben tre anni prima che la Storia con la S maiuscola faccia davvero il suo corso. E forse questo fumetto è stato talmente anticipatore degli eventi degli ultimi mesi che non deve stupire se il contenuto è stato anche condannato da un tribunale egiziano che ne ordinò il sequestro delle copie perché contenenti “immagini immorali e personaggi che somigliano a uomini politici realmente esistenti”. come si legge nella sentenza.
Purtroppo però l’opera di El Shafee ha tutti i difetti di un fumetto ancora immaturo. I testi e il ritmo della storia, ma soprattutto i disegni, spesso lasciano a desiderare, apparendo appunto ancora troppo involuti in certi frangenti, ma Metro comunque ha il grandissimo pregio di fare entrare il lettore facilmente all’interno della società egiziana e delle sue dinamiche. Così tra una rapina in banca e un’assassinio, possiamo assistere nella storia alle manifestazioni dei dimostranti, la malavita, i politici corrotti e l’uomo della strada che vive di elemosina. Il filo rosso che unisce tutti questi elementi è il protagonista, un ingegnere alle prese con la difficile impresa di sbarcare il lunario, di fare fronte ai debiti ma anche di avere una vita privata. La trama si dipana e si intreccia tra le fermate della metropolitana del Cairo che conferisce il titolo all’opera. Alla fine non mancheranno di fare capolino, come in ogni blockbuster cinematografico che si rispetti, l’amore e la morte, per chiudere con con il colpo di scena, ben congegnato, della fregatura proveniente dal personaggio da cui meno ce lo saremmo aspettato.
El Shafee mette in scena una storia abbastanza solida che sarebbe potuta accadere in qualunque parte del globo, ma è lo sfondo egiziano che ne fa un’opera unica nel suo genere. Un paio di note negative a due scelte editoriali infelici dell’editore “il Sirente” che pubblica la storia nella collana “Altriarabi”. Il bollino in copertina “graphic novel” non rende molta giustizia all’opera di El Shafee, proprio perché, come ci viene spiegato all’interno del volume, prima di Metro, il termine “fumetto” in Egitto veniva associato a Topolino. “Graphic Novel” sembra essere sempre di più una categoria commerciale che invece di esaltare i contenuti, spesso, come in questo caso, rischia di sminuirli. La seconda nota riguarda invece l’indicazione nell’apparato editoriale secondo cui il libro a fumetti di El Shafee, espressione della cultura araba anche nel senso di lettura, si legga “come un manga giapponese”. Manga e Graphic Novel per spiegare il fumetto “Metro” rischiano di fare un minestrone agli occhi di chi legge e l’opera non se lo merita, perché è tutta da assporare e con grande interesse, nonostante i limiti che essa presenta.
E non potrebbe altrimenti quando una storia inizia così: «Oggi ho deciso di rapinare una banca. Non so come tutta questa rabbia si sia annidata in me. Tutto ciò che so è che la gente stava sempre da una parte, e io da un’altra. A me è rimasta solo una cosa: la mia testa… e ora ho finalmente deciso di fare quello che mi dice». -
Dalla rivoluzione in piazza a quella in libreria
| Egittiamo | Venerdì 18 marzo 2011 | marco63 |
Dopo la rivoluzione delle piazze quella nelle librerie? Se lo stanno chiedendo autori e osservatori attenti del panorama culturale egiziano, attraversato da una ventata di rinnovamento e fermento creativo.
“Bisogna che la letteratura e la società civile ritrovino quel contatto a lungo dimenticato, impoverito da anni di pubblicazioni sottoposte al rigido controllo della censura. Ma è un processo che si sta già verificando. Penso ai numerosi editoriali che Ala al Aswany, un autore di grande successo ma finora tenuto ai margini dal regime, scrive in questi giorni sul quotidiano indipendente ‘Al masry al youm” osserva Fadi, ex-responsabile della casa editrice ‘Al Shorouk’ e oggi “completamente dedicato alla causa della rivoluzione” come precisa alla MISNA.
“Prima, in Egitto, era difficile trovare i suoi libri, come anche quelli di molti altri autori messi all’indice perché non piacevano o erano dichiaratamente contro il governo. Adesso, come per magia, sugli scaffali delle librerie si vedono spuntare titoli prima introvabili e le case editrici hanno già disposto la ristampa di vecchi saggi e pubblicazioni che prima circolavano solo di contrabbando” afferma l’attivista, secondo cui “la massiccia partecipazione di intellettuali e scrittori alla rivoluzione ha finalmente segnato il momento, dell’uscita uscita dalle ‘torri d’avorio’ della letteratura e della condivisione di valori e ideali con la gente del popolo.
Torri d’avorio che non hanno impedito a Nawal el Saadawi, ottantenne scrittrice e attivista per i diritti umani di accamparsi nella piazza Tahrir assieme ai ‘giovani della rivoluzione o ad autori come Magdy el Shafee o lo stesso Al Aswany di pubblicare libri come ‘Metro’, la prima graphic novel egiziana (edita in Italia da ‘il Sirente’) o ‘Il palazzo Yacoubian’; entrambe opere in cui si descrive con realismo la difficile condizione di vita nell’Egitto dell’era Mubarak.
“C’è tutta una nuova generazione di scrittori e artisti egiziani che non aspetta altro che di far conoscere il suo punto di vista su quello che sta accadendo. La rivoluzione ha portato una ventata d’aria fresca nella realtà finora asfittica della produzione culturale” osserva ancora Fadi. È in questo clima di ottimismo e fermento che nasce la possibilità di tenere la prossima fiera del libro del Cairo proprio in piazza Tahrir, alla fine di marzo. Un evento, a cui partecipano ogni anno migliaia di case editrici e autori con incontri e seminari, nel luogo simbolo del ‘nuovo Egitto’. -
Cronache dall’Egitto prima della rivoluzione
| Terra | Martedì 15 marzo 2011 | Diego Carmignani |
La rivoluzione ancora in pieno atto nel Nord Africa porta con sé un vento nuovo, talmente potente da investire a più livelli un agire e un sentire ormai globalizzati. La libertà conquistata, ad esempio, in Egitto è figlia e madre di un risveglio creativo partito dal basso, con i giovani in primissima linea, e circolato su giornali, libri e pubblicazioni varie, tanto da far pronosticare, già nei prossimi mesi, una sanissima invasione sui nostri scaffali di volumi e autori inediti provenienti da quelle parti. Tra gli agitatori culturali, che hanno avuto il merito di presidiare il luogo simbolo della rivolta, piazza Tahrir, figura anche l’illustratore Magdy el Shafee, noto per aver realizzato Metro, la prima graphic novel (cioè primo romanzo disegnato per adulti) di nazionalità egiziana, pubblicata a fine 2010 in Italia dalla casa editrice il Sirente, e oggi significativa testimonianza di quello che era il fermento nel Paese africano prima che il regime fosse rovesciato, scoperchiando idee e ragioni circolanti, ma strozzate dall’ordine costituito. Difatti, anche questa durissima storia inchiostrata è finita sotto la ghigliottina della censura. Uscito nel 2008, Metro costò ad el Shafee e al suo editore un processo conclusosi con la condanna alla distruzione di tutte le copie e al pagamento di un’ammenda di 5.000 lire egiziane, 700 euro circa. Il motivo ufficiale è la presenza nel lavoro di un linguaggio troppo spinto, fuori dalla norma per quel genere artistico e per quella nazione. «Questo libro contiene immagini immorali e personaggi che somigliano a uomini politici realmente esistenti», recita la sentenza del tribunale di Qasr el Nil, Cairo. Basta scorrere un po’ di pagine, per accorgersi di come nelle critiche piuttosto palesi e audaci (anche per noi lettori “occidentali”) al governo Mubarak, alla corruzione della politica, ai meccanismi del potere, siano da rintracciare i veri motivi della messa all’indice. E anche, stando a quanto riportano gli addetti ai lavori, del successo di Metro tra le nuovissime generazioni, che, facendolo circolare sottobanco, ne hanno fatto un oggetto di culto. Le vicende che si intrecciano sono quelle di un sovversivo ingegnere informatico, di una giornalista coraggiosa, di un anziano e affamato lustrascarpe, ribelli più frustrati che eroici, che spuntano dall’Egitto anestetizzato e impaurito di prima della rivoluzione. Lungo le fermate della metropolitana (a cui el Shafee dà i nomi dei presidenti Saad Zaaghloul, Nasser, Sadat, Mubarak), scorrono velocemente episodi criminosi, furti miliardari, manifestazioni represse: un vortice di eventi tremendamente quotidiani, che fanno intuire come la febbrile caotica Cairo fosse ormai sull’orlo del cambiamento. -
Luci della città
| I viaggi del Sole | Febbraio 2011 | Khaled Al Khamissi |
I taxi, imprevedibili e indisciplinati. I quartieri cresciuti a dismisura. Le moschee e i musei a cielo aperto. Storie e memorie della capitale. Dall’alba al tramonto.Non è mai facile parlare della relazione di una persona con la propria città: è un rapporto complicato, come quello tra un uomo e la propria famiglia. La città è una personalità vivente che si modifica a ogni istante, ma su una base storica molto forte. Figuriamoci, quindi, se si tratta del Cairo, dove sono nato nel 1962 e dove sono sempre vissuto, a parte i quattro anni trascorsi in Francia per il dottorato in Scienze politiche alla Sorbona. Come potrei pensare a tutti i ricordi relativi ai miei amici senza pensare anche, nel contempo, alla mia città? È impossibile. Mi sono innamorato molto presto del Cairo, della sua geografia e della sua storia: un amore a prima vista, si potrebbe dire. Camminavo nelle sue strade, per i suoi vicoli per scoprirne i segreti, e in quel modo leggevo e interpretavo le complicate vicende. Tanto che, in una delle mie letture preferite, quando avevo 12-13 anni, era L’origine dei nomi delle vie del Cairo… Dopodiché uscivo di casa e andavo alla ricerca di quelle strade. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il Cairo è una città millenaria, in cui si sono stratificati tanti cambiamenti, tante cultura e tante influenze.
Oggi potrei considerare la possibilità di vivere qualche periodo all’estero; l’ha anche fatto. Ma non sono convinto di riuscire psicologicamente a gestire questa lontananza per lungo tempo. Né sono in grado di immaginare quanto sofferenza comporterebbe per la mia anima profondamente cairota. È anche vero che la situazione politica è diventata insostenibile: la tensione sociale mi pesa sui polmoni, facendomi quasi soffocare. Il brutto e il degrado vincono ovunque. Negli ultimi anni la mia amata città è stata sfigurata. Innanzitutto il numero degli abitanti è aumentato in maniera spaventosa. Quando sono nato eravamo 3 milioni, per salire a 5 milioni negli Anni 70, a 8 milioni quando andavo all’università, mentre adesso ha superato i 18 milioni!
Per non parlare poi del nostro presidente Hosni Mubarak, al potere dal 1981 (ormai sono 30 anni!). Il suo regime ha fallito completamente nel progetto di sviluppo del Paese, e la nostra capitale è una testimonianza inequivocabile di questo insuccesso. La crescita di movimenti reazionari finanziati dai petroldollari non ha poi fatto altro che peggiorare la bruttezza della città. Per non parlare del tasso di inquinamento, dell’aria e delle acque, che è diventato davvero difficile da gestire. Per fortuna alcune cose sono rimaste immutate: il fascino del Nilo, le memorie, la bellezza interiore, il popolo egiziano con la sua grande civilizzazione… Lo stress, le rivoluzioni sociali possono provocare dei mutamenti nel temperamento, ma non nell’essenza delle persone. E gli egiziani restano contadini pacifici, dolci, tolleranti e anche un po’ imbroglioni, qualità essenziali forse per far fronte a dittature millenarie. Tutte queste cose messe insieme, in una tale città dai mille volti, per me sono irresistibili e mi attraggono come una calamita. Come il museo a cielo aperto di Saqqara, un’immensa necropoli che risale a quasi cinquemila anni fa, o il mercato delle fave sotto casa mia. Abbiamo tonnellate di simboli nei quali ci riconosciamo. La piramide di Cheope, il moulid (i festeggiamenti in onore di un santo o di un personaggio venerabile, a metà tra fiera e festa religiosa) di Sayyidna al-Hussein o quello di Sayyida Zeinab, la grande Moschea-Madrasa del Sultano Hassan, che può essere considerata come una sorta di piramide dell’architettura islamica. E poi, per riconciliarsi con la vita, che c’è di meglio di un giro in feluca sul Nilo al tramonto?
Ovviamente, consiglio anche di prendere il taxi e di fare due chiacchere con il conducente. Essere un tassista al Cairo non è un mestiere come altrove, è un modo per cercare di lavorare o almeno di aumentare le entrate mensili. I tassisti provengono da ogni angolo del paese e tra loro si possono trovare, con la stessa facilità, professori, medici, contabili o anche analfabeti. Rappresentano la classe sociale di chi ha problemi a sbarcare il lunario: praticamente l’80 per cento della popolazione egiziana. Per questo, farli parlare, in Taxi, è stato come dare la parola all’intera città, la vera protagonista, se vogliamo l’eroina, del libro. E anche nel più recente L’arca di Noè, seppure in negativo, c’è il Cairo: rappresenta la grotta in cui cadono tutte le personalità, desiderose di scappare via, magari in America, per evitare la catastrofe. -
Maria Antonietta Fontana
Maria Antonietta Fontana è nata a Roma, dove ha studiato pianoforte con il M° Luciano Pelosi e Nicoletta Cimpanelli perfezionandosi con Marisa Candeloro, e laureandosi con lode e proposta di pubblicazione in Scienze Politiche alla Sapienza, specializzandosi nelle problematiche del diritto internazionale privato e in particolare della contrattualistica e dell’arbitrato con la Russia e i Paesi dell’Est europeo.
Ex funzionario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro a Ginevra, New York e al BIT di Torino, ha poi svolto attività concertistica in formazioni di musica da camera; per dodici anni ha diretto una rivista internazionale di malacologia, per altri sei ha lavorato in diversi contesti in Università a distanza.
Collabora assiduamente con il quotidiano L’Opinione delle Libertà, per cui scrive editoriali e recensioni discografiche, teatrali e letterarie. Collabora anche alla diffusione del carisma del Santuario di Notre-Dame de Montligeon, per cui cura la produzione dei testi in lingua italiana.
Da anni lavora nel campo delle traduzioni tecniche (giuridiche ed economiche) e letterarie dal francese, inglese e russo. Nel suo futuro, la partecipazione (breve) ad un film, la collaborazione con una nuova casa cinematografica nel campo della produzione, e, forse, l’edizione dei suoi versi inediti.
Ha due figli ed un nipote: la sua carriera (precoce) di nonna è incominciata da pochissimo, ma già con discreto successo… -
Intervista a Balthazar Clémenti
Il figlio dell’attore francese ricorda quella mattina del 1971 quando il padre finì per un anno in galera per un po’ di hashish.
«Mi svegliò la polizia, cercavano mio padre li ho visti, misero la droga sotto il letto»
di Giuliano Capecelatro – Liberazione, pag. 17, Interviste, 8 maggio 2008
Cadde dall’alto di un sogno, Balthazar. In frantumi l’infanzia dorata in una Roma dai colori di favola. Offuscata l’immagine del padre. Attore celeberrimo e conteso, giovane divo dalla bellezza androgina. Pierre Clémenti, alto, flessuoso, una gran chioma che si adagiava sulle spalle magre con grazia angelica, e incorniciava l’irrequieta oscurità dello sguardo. Cadde dall’alto di un sogno, Balthazar, la mattina del 24 luglio 1971. Qualcuno doveva aver accusato Pierre Clémenti.
«Fui proprio io ad aprire la porta. Dovevano essere le nove. C’era un tizio … con un impermeabile, se non m’inganno: un poliziotto in borghese. Poi arrivarono i carabinieri… E’ come se fosse ieri. Una storia che mi ha segnato, mi ha fatto soffrire. E a Pierre, confesso, per un po’ gliene ho voluto».
Arriva da Parigi la voce di Balthazar Clémenti. Distanza nello spazio, distanza nel tempo. E’ un quarantenne, oggi, che si guadagna da vivere col mestiere di attore. Come il padre. Che nell’ estate del 1971 rimase impigliato in una brutta storia di droga. Un po’ di cocaina, dell’hashish. Nella casa della sua compagna, Anna Maria Lauricella, in via dei Banchi Vecchi.
«Entrarono… io ricordo che misero della droga sotto il letto… mi ordinarono di tornare a dormire. Frugarono dappertutto… perquisirono. Ma la droga… io ricordo che furono loro a metterla».
Aveva cinque anni quel giorno: la porta si aprì e, come in una favola nera, la vita si capovolse. Sparì quel padre fantastico, che offriva al bambino un mondo magico. E’ difficile rielaborare un’emozione al telefono. Riviverla dopo quasi quaranta anni. La voce fluisce senza smagliature. Solo a tratti, la frase si spegne in una breve risata dalle sonorità infantili. Forse il tentativo inconscio di mettere un confine, di autoconvincersi che quella vicenda è davvero conclusa.
«Ci fecero salire su una macchina. Pierre, Anna Maria… io non volevo staccarmi da mio padre. Poi ho solo dei flash, immagini confuse… Ricordo un terreno aperto su cui si vedeva un edificio moderno».
Una Roma metafisica si profila sullo sfondo della memoria. Gli occhi del bambino afferrano frammenti di realtà, che l’adulto tenta di ricomporre in un quadro plausibile. Istanti convulsi: l’irruzione, la perquisizione, l’arresto. Il padre trattato da delinquente comune.
E il bambino Balthazar che si ribella. Con le lacrime, la rabbia. Con la voce, che chiede tra i singhiozzi una pistola. Per poter sparare a quegli sbirri. A quegli uomini che hanno messo le mani su suo padre. E che lo hanno ruvidamente riscosso dall’incanto.
Famoso e vezzeggiato, Pierre Clémenti. Ruoli importanti con grandi registi. Luis Buñuel per La via lattea. Pier Paolo Pasolini per Porcile. Bernardo Bertolucci per Il conformista, Il partner. Liliana Cavani per I cannibali. Glauber Rocha per Cutting heads. Un improvviso benessere, una vita di agi e lussi per il border-line nato a Parigi nel 1942 senza padre, da una ragazza còrsa, il bohémien squattrinato che raccoglieva cicche a Saint Germain des Prés, l’attore novizio che un Alain Delon in vena di inusitate generosità trascina con sé alla corte di Luchino Visconti per una particina ne Il Gattopardo. L’interprete che snobba il Satyricon di Federico Fellini perché quel set gli fa venire in mente una catena di montaggio.
«Era la dolce vita – racconta Balthazar, e sottolinea il ricordo con la sua breve, sommessa risata -. Vivevo in piena libertà. Giravo a piedi nudi per le strade di Roma. La figlia di Anna Maria aveva una passioncella per me. Una ragazza simpatica, carina per quel poco che ricordo. Rimanevamo spesso soli a casa, poi la sera raggiungevamo i genitori in un ristorante, a piazza di Spagna, via del Babuino, piazza del Popolo. Vedevo i film di Pasolini prima che uscissero, in una sala privata di via Margutta. E poi Positano, Pierre aveva affittato villa Murat, ci passavamo le vacanze. Andavamo in barca. Ricordo una pasqua; venne mia madre e nascose nel giardino delle uova, che noi bambini dovevamo cercare. Venne a trovarci Bertolucci… in seguito mi avrebbe chiesto se avevo ancora la macchina dei pompieri. La dolce vita… poi l’incubo».
L’Italia delle stragi di stato, della tensione golpista, delle trame massoniche (è in quell’ anno che Licio Gelli prende il comando della P2), del fascismo sempre risorgente, e che proprio alla fine del 1971 fornirà a Giovanni Leone, democristiano specialista di governi balneari, i voti decisivi per issarsi sulla più importante poltrona della repubblica, ha elevato a nemico pubblico numero uno la droga. E cala la mannaia di una normativa retrograda e ciecamente repressiva. Senza distinzioni. E, comunque, senza mai disturbare quei salotti buoni, da Torino a Roma, da Milano a Napoli e Palermo, in cui la cocaina ha sempre circolato con l’innocente frequenza dei bonbon.
«Io credo – racconta Balthazar – che avessero bisogno di un capro espiatorio visibile, conosciuto. Lui era una star internazionale. Portava i capelli lunghi e non aveva mai tradito la sua vocazione alla marginalità…. In qualche modo dava fastidio. E si prestava allo scopo, aveva un passato politico di sinistra… c’è un cortometraggio che aveva girato a Parigi, nel maggio ‘68, La révolution, con mia madre Marguerite che sventola una bandiera rossa… Fumava, di sicuro fumava un po’ di hashish, chi non fumava in quell’ epoca? Ma la droga in casa, quel giorno… il mio ricordo è che l’ hanno messa loro per far vedere che avevano trovato quello che cercavano».
Regina Coeli. Rebibbia. Una condanna a due anni in primo grado. Pierre Clémenti, attore di grido, diventa un anonimo detenuto delle carceri romane. Che prima tenterà di contestare, dialogare. Quindi, la testa completamente rasata, si chiuderà in un mutismo ascetico. Forma radicale di protesta. Ma anche un radicale mutamento di prospettiva. Uscito dal carcere, l’attore rievocherà l’esperienza di reclusione in un libro, Quelques messages personnels, pubblicato da Gallimard e da poco ritradotto in italiano (Pierre Clémenti, Pensieri dal carcere, Il Sirente, pagine 146, 12,50 euro).
«Andai a trovarlo con mia madre. Non ho immagini nitide di quel giorno… un’atmosfera sinistra, cancelli, sbarre, una sala piccolissima, sembrava l’emiciciclo di un’aula universitaria. C’era soltanto un’altra persona con una donna. Rimanemmo poco, non più di un’ora credo. Gli avevo portato dei marrons glacés. Lo trovai con i capelli a zero».
I capelli spariti cancellano l’immagine di quel padre magico. Si azzera anche l’infanzia felice e spensierata di Balthazar. «Fui affidato per qualche tempo a uno degli avvocati. Mia madre era troppo impegnata nel lavoro, anche lei nel cinema, per potersi occupare a tempo pieno di me. Ci vedevamo nei week end. Ogni tanto mi portava in viaggio con sé. Ma in prevalenza stetti con i miei nonni. Andai in collegio. La storia mi aveva scosso. Mi svegliavo nel cuore della notte. E sentivo sempre parlare di mio padre alla televisione».
L’appello. In un’aula affollata di telecamere. Insufficienza di prove. Dopo oltre un anno e mezzo di detenzione. Ma resta la condanna per Anna Maria, che gira la testa dall’altra parte, ferita per la disparità di trattamento. Via le manette, ma immediata l’espulsione. Indesiderabile: ventiquattro ore di tempo per lasciare l’ Italia.
«All’ aeroporto di Orly, quando Pierre tornò in Francia, c’era una tale ressa di giornalisti che non riuscivo ad avvicinarlo. Fu tutto un susseguirsi di interviste, di incontri. Un giorno, in una radio si imbatte in François Mitterrand, che gli dice: vi vogliamo molto bene; vi abbiamo sostenuto. Parlava già allora da presidente. Andai a vivere per qualche tempo con lui, in rue des Ecoles. Poi mi riprese mia madre. Ma io volevo tornare dai nonni. A diciassette anni cominciai a vivere da solo, magari a casa di qualche fidanzata».
L’attore Clémenti cambia vita. Abbandona la ribalta. Sceglie percorsi più ardui. Riversa la rabbia sulle scene teatrali, impugnando Genet, Artaud e anche testi di sua mano. Da regista si orienta verso un cinema meno patinato, indipendente, centrato su personaggi marginali. Gira Il sole , una sorta di poema filmato, un diario in cui si parla della prigione, della giustizia lenta, estenuante, di un’esperienza da cui non si esce intatti.
«Non si riprese mai – racconta Balthazar -. Evitava di parlare di quella storia. Per lui era una specie di segreto. Era una persona molto pudica. Si chiuse sempre più in se stesso. Rifiutò offerte allettanti, anche dal punto di vista finanziario».
A 57 anni, nel dicembre 1999, lo uccise un cancro al fegato. Ma la figura dell’attore non scompare dall’universo cinematografico. Continua, anzi, a ripresentarsi. Il Centre Pompidou, al Beaubourg di Parigi, gli ha dedicato un omaggio. L’anno scorso la Cinemateca di Bologna ha presentato due mediometraggi scritti e interpretati da Clémenti: Visa de censure del 1968 con Jean Pierre Kalfon e New Old del 1979 con Klaus Kinski. Jeanne Hoffstetter ha scritto una sua biografia romanzata. Su Internet viene diffuso un dvd, Pierre Clémenti cinéaste: l’intégrale.
Il prossimo appuntamento è a Lucca, a ottobre prossimo, per il festival del cinema sperimentale. Balthazar è stato invitato.
«Ora voglio rintracciare i poemi scritti in carcere. Li aveva uno dei suoi avvocati, diventato poi un pezzo grosso del governo francese. Ma non sono più stati ritrovati».
E’ sempre quella figura esile, alta, dai lunghi capelli e lo sguardo trasognato, che cerca Balthazar. Quel sogno da cui lo risvegliarono una mattina di luglio.
«Con Pierre non fu un rapporto facile. Solo da adulto ho capito davvero il suo atteggiamento. Prima un po’ gliene volevo. Ma lui era diverso, aveva rinnegato la carriera facile, commerciale. Si sentiva un marginale. Era un vero artista. Ed ora posso dire che le sue scelte mi trovano d’ accordo». -

L’amore ai tempi del petrolio di Nawal El Saadawi
Quel giorno di Settembre la notizia uscì sui giornali.
Le tipografie avevano stampato metà riga a lettere sfuocate: “Una donna è uscita in vacanza e non è tornata”.
La scomparsa di persone era un fatto normale.
Come ogni giorno spunta il sole, così escono i giornali, nella cui pagina interna si trova l’angolo delle notizie riguardanti le persone. La parola “persone” può essere rimossa o sostituita con un’altra parola, senza che assolutamente nulla cambi. Le persone. Il popolo. La nazione. Le masse. Parole che significano tutto e niente contemporaneamente.
In prima pagina vi era una foto a colori e a grandezza naturale di Sua Maestà, dal titolo grande: “Il festeggiamento per il compleanno del re”.
La gente sfregò gli occhi, dagli angoli delle palpebre infiammati, e girò pagina dopo pagina, sbadigliando fino a far schioccare le ossa delle mascelle.
La notizia comparve nella pagina interna, si vedeva a mala pena ad occhio nudo.
“Una donna è uscita in vacanza e non è ritornata”.
Le donne non erano solite prender giorni liberi. Se una donna usciva, lo faceva per assolvere ad incombenze urgenti e per poter uscire era assolutamente necessario ottenere il permesso scritto del marito o timbrato dal suo datore di lavoro. (p.5)Non era mai successo che una donna fosse uscita e non fosse più tornata. L’uomo poteva partire e non tornare per sette anni, e solo dopo questo periodo, la moglie aveva il diritto di separarsi da lui.
Gli uomini della polizia si mobilitarono nella sua ricerca, si stamparono volantini ed annunci sui giornali chiedendo il suo ritrovamento, viva o morta, ed annunciando una generosa ricompensa da parte di Sua Maestà il Re.
“Che legame c’è tra Sua Maestà e la scomparsa di una donna comune?”.
Era risaputo che nulla al mondo poteva accadere senza l’ordine, scritto o non scritto, di sua Maestà.
Sua Maestà, infatti, non sapeva né leggere né scrivere, e questo era un segno di distinzione. Quale era infatti il vantaggio di leggere e scrivere?
I profeti non sapevano né leggere né scrivere, era quindi possibile che il Re fosse migliore di loro?
Vi era anche la macchina da scrivere, che funzionava ad elettricità.
Una nuova macchina da scrivere invece funzionava a petrolio e scriveva in tutte le lingue.
Dietro la macchina per scrivere si trovava una sedia girevole di pelle, su cui sedeva il commissario di polizia, e dietro la sua testa pendeva dalla parete un’immagine ingrandita di sua Maestà, in una cornice d’oro, dai bordi decorati con le lettere del testo sacro.
“Era già successo che sua moglie fosse andata in vacanza?”. (p.6)Suo marito serrò le labbra in silenzio, i suoi occhi si spalancarono come chi all’improvviso si sveglia dal sonno. Indossava il pigiama, i muscoli del suo viso erano flosci, con la punta delle dita sfregò gli occhi e sbadigliò.
Sedeva su una sedia di legno, fissata al pavimento.
“No”
“Avete litigato?”
“No”
“Ha mai lasciato la casa coniugale?” (Nota: ”sottomissione” e “ubbidienza” hanno lo stesso significato di tetto coniugale e casa del marito)
“No”
L’indagine si svolgeva in una stanza chiusa, una lampada rossa era appesa alla porta. Nulla poteva uscire ai giornali. I rapporti venivano conservati dentro una cartella segreta, dalla copertina nera, su cui era scritto: “Donna che esce in vacanza”
Il commissario di polizia era seduto sulla sedia girevole, su cui girò e si trovò con la schiena verso la parete e l’immagine di Sua Maestà. Di fronte a lui si trovava l’altra sedia, fissata al pavimento, su cui sedeva un altro uomo, non suo marito ma il suo datore di lavoro.
“Era una di quelle donne ribelli e disubbidienti all’ordine?”
Il datore di lavoro aveva accavallato le gambe, tra le sue labbra aveva una pipa nera, che si curvava in avanti come il corno di una mucca. I suoi occhi erano fissi verso l’alto. (p.7)“No, era una donna assolutamente ubbidiente”
“E’ possibile che sia stata rapita o violentata?”
“No. Era una donna normale che non provocava in nessuno il desiderio di violentarla”
“Che cosa significa?”
“Intendo dire che era una donna sottomessa, che non provocava il desiderio di nessuno”
Il commissario di polizia annuì con il capo in segno di comprensione. Girò sulla sedia e la sua schiena si trovò di fronte al datore di lavoro ed iniziò a battere sulla macchina per scrivere. Si diffuse uno strano odore di gas bruciato. Allungò il braccio ed accese il ventilatore, poi girò di nuovo sulla sedia.
“Crede che sia fuggita?”
“Perché fuggire?”
Nessuno sapeva perché una donna poteva fuggire. Se fosse fuggita, dove sarebbe andata? Sarebbe fuggita da sola?
“Pensa che possa essere fuggita con un altro uomo?”
“Un altro uomo?”
“Sì”
“Non è possibile. Era una donna assolutamente rispettabile, non le interessava altro che il lavoro e la ricerca”
“La ricerca?” (p.8)“Lavorava nell’unità di Ricerca, presso il Dipartimento di Archeologia”
“Archeologia. Che cosa significa?”
“Sono i monumenti antichi che vengono scoperti scavando la terra”
“Ad esempio?”
“Statue di divinità antiche come Amoun e Akhenaton, o di dee antiche come Nefertiti e Sekhmet”
“Sekhmat? Chi è ?”
“L’antica dea della morte”
“Dio ci protegga!”
Arrivò la notizia dal capo di una delle lontane stazioni di polizia: era stata avvistata una donna che si stava imbarcando su un battello.
La donna portava sulle spalle una borsa di pelle dalla lunga tracolla, sembrava una studentessa o una ricercatrice universitaria, era completamente sola, senza alcun uomo. Dalla borsa spuntava qualcosa dall’estremità di ferro appuntita, sembrava uno scalpello.
Il commissario di polizia s’irrigidì e sulla sua fronte comparvero delle gocce di sudore. Premette sul pulsante nero e la velocità del ventilatore aumentò, la base del ventilatore girava su se stessa e l’aria della stanza era asfissiante.
“Era una donna normale?” (p.9)Sulla sedia di legno fissata al pavimento sedeva uno psicologo. La sua bocca si piegava a sinistra mentre la pipa dal corno piegato pendeva a destra, mentre gli occhi erano fissi verso l’alto, un po’ più in alto della parete, dove si trovava l’immagine rinchiusa dentro la cornice d’oro.
Soffiò il fumo intensamente sulla faccia di Sua Maestà, poi avvertì l’ansia e girò la testa in direzione del ventilatore ed abbassò le palpebre.
“Non credo che fosse una donna normale”
“Si riferisce al suo interesse per la ricerca?”
“Sì, spesso ciò che porta la donna ad interessi che esulano dalla casa, è una malattia psicologica”
“Che cosa intende?”
“Una giovane donna che si dedica ad un lavoro inutile, come collezionare statue antiche!? Non è forse un segno di malattia, o almeno di deviazione?”
“Deviazione?”
“Questo scalpello rivela ogni cosa”
“Come?”
“La donna per compensare i suoi desideri che non sono stati soddisfatti, prova piacere nell’affondare la testa dello scalpello nella terra, come se fosse il pene dell’uomo”
Il commissario di polizia sussultò sulla sedia e girò diverse volte su se stesso, come il ventilatore. (p10)Le sue dita s’irrigidirono sulla macchina per scrivere mentre batteva la parola “pene dell’uomo”. Smise di scrivere e si girò con un movimento veloce.
“La questione diventa seria”
“Sì, lo è. Ho alcuni studi su questa malattia. La donna, dalla sua infanzia cerca inutilmente questo “pene”, e per la disperazione trasforma questo desiderio in un altro”
“Un altro desiderio? Quale ad esempio?”
“Ad esempio quello di guardarsi allo specchio, è una sorta di amore folle verso se stessa”
“Dio me ne scampi!”
“La donna è incline all’isolamento e al silenzio, e a volte prova il desiderio di rubare”
“Rubare?”
“Furto di oggetti rari e statue antiche, specialmente statue di dee femminili, è attirata da persone del suo stesso sesso e non quello opposto…”
“Dio ce ne scampi!”
“Viene colta da un urgente desiderio di sparire”
“Sparire!?”
“In un altro senso, una forte attrazione verso il suicidio o la morte”
“Dio ci protegga!” (p.11) -
Per le strade del Cairo su un taxi bianco e nero
L’inviato del Marketplace Morning Report Scott Jagow vaga per le strade del Cairo su un taxi bianco e nero con Khaled Al Khamissi, autore di “Taxi”. Khamissi è stato per un anno intero girando il Cairo a bordo di taxi e parlando con gli autisti. Questo libro racconta le storia della classe operaia frustrata dell’Egitto.
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