Noi italiani, on the road prima di Easy Rider

di Paolo D’Agostini (da Repubblica, Pagina 39 – Spettacoli, Lunedì 10 marzo 2008)

La regista di “I cannibali” e “Il portiere di notte” ripercorre le tappe del nostro cinema giovane di quegli anni. E ora gira “Albert Einstein”.
Gli americani erano interessati a “I cannibali”, ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia. Rifiutai.
Il cinema di Bertolucci, Bellocchio, Pasolini, e anche il mio, dimostrava che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo.
  
Liliana Cavani diventa un fiume in piena se la solleciti sul “come eravamo” nel Sessantotto, secondo il cinema giovane di quegli anni di cui la regista emiliana – come gli altri due campioni della stagione Bellocchio e Bertolucci ma dall´educazione «scombinata e aperta, non borghese, non clericale» – fu protagonista.
«L´I Care caro oggi a Veltroni veniva allora dall´America: da lì arrivavano i venti di libertà, non certo dall´est comunista. C´erano Luther King e Malcolm X, i Kennedy, Marcuse e Berkeley. Io ero incantata. Seguivo Basaglia, mi appassionavo al Living Theatre, leggevo Foucault che negava lo scandalo del nudo. Proprio niente del Sessantotto, a partire da quello parigino, traeva ispirazione dal bagaglio ideologico della sinistra marxista. Verso il quale ero fredda, così come era stato il mio nonno anarchico. Fredda verso gli apparati. Le cose più belle e stimolanti venivano da un´altra parte. E quando sono arrivata a Roma non ho sentito alcun bisogno di iscrivermi al Pci come invece tanti altri colleghi. Questa estraneità agli apparati mi ha sempre messa in difficoltà. Quando agli inizi degli anni 60 facevo le mie prime inchieste per la Rai monocolore Dc, come La casa in Italia, sono stata censurata. Con il centrosinistra sono stata etichettata come criptocomunista. E il mio primo Francesco d´Assisi, figura che da persona libera di mente – non clericale né anticlericale – ho affrontato con spirito di scoperta trovandovi una ribellione al padre e un conflitto generazionale, non è piaciuto alla Chiesa. Mi sentivo in armonia con i movimenti di liberazione americani. Tra i miei primi soggetti, sotto l´influenza del Black Power, ce n´era uno che s´intitolava “Black Jesus”. Quante cose c´erano in movimento, quante cose di oggi vengono da lì. Quante cose stanno dietro alle candidature di Hillary e Obama».
Mentre sta completando il nuovo film per RaiFiction Albert Einstein (con il Vincenzo Amato di Nuovomondo) Cavani è oggetto di omaggio da parte della Cineteca Nazionale che dedica il programma di marzo della sua sala romana, il Trevi, dapprima a “Lou Castel, (l´anti) divo ribelle del cinema”, icona degli anni 60, che fu il suo Francesco nel ´66 (ce ne sarebbe stato più tardi un secondo: Mickey Rourke) oltre che protagonista di Grazie zia e I pugni in tasca. E poi agli “Schermi in fiamme. Il cinema della contestazione” dove è rappresentata da I cannibali, 1969, con Pierre Clementi.
Dopo tanti documentari e servizi per la Rai da metà anni 60 lei si avvicina al cinema scegliendo figure che, da Francesco a Galileo a Milarepa, hanno in comune una lettura non convenzionale della fede e della spiritualità, dell´autorità della Chiesa.
«Anche Galileo ha avuto le sue belle peripezie di censura. Curiosamente deve la sua maggiore diffusione alla San Paolo Film che lo mandava nelle scuole. Dopo gli studi in lettere antiche e glottologia, la vera università l´ho fatta con i documentari. Sul nazismo, sul comunismo, sulle donne nella Resistenza. A ripensarci mi fa ridere che ancora oggi stiamo a combattere con le quote rosa. Quando nel ´65 intervistai una donna che a 18 anni aveva guidato una battaglia partigiana a Bologna, alla mia domanda “per che cosa hai combattuto” mi rispose: “per la palingenesi, perché noi donne dobbiamo contare, non solo per cacciare i tedeschi”».
Le sembrano ridicole le quote rosa?
«No, niente è ridicolo se è necessario. Evidentemente è ancora necessario».
Il suo Sessantotto è I cannibali. Dal mito di Antigone una metafora della ribellione giovanile di quel momento. Ma, come tutto il cinema suggerito direttamente dal clima della contestazione, non piacque molto.
«Partecipò alla Quinzaine di Cannes, appena nata, e fu visto da Susan Sontag che lo portò a New York. Un circuito parallelo della Paramount mi offrì 120 mila dollari ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia».
E lei?
«Dissi di no. E pensare che la sensibilità on the road espressa da I cannibali precedette Easy Rider che non era ancora uscito. Il mio film fu il segnale di una nuova sensibilità che si andava affermando: mal vista da destra e da sinistra, da tutti gli apparati burocratici».
Ma i film “del Sessantotto” non piacquero al pubblico.
«Voglio ugualmente difenderli. Sono convinta che quello di Bernardo (Bertolucci, ndr), di Marco Bellocchio, di Pier Paolo Pasolini, e anche il mio, sia stato il nostro nuovo cinema. La dimostrazione che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo. Un cinema critico che strideva con gli apparati, sia cattolico che comunista. Non poteva piacere a chi, nell´estate del ´68, non aveva espresso solidarietà a Praga invasa. La cultura d´apparato soprattutto di sinistra, una cappa che ci è pesata sulla testa, non sapeva come collocarlo. Avrebbe dovuto farci ponti d´oro perché eravamo una ventata di sprovincializzazione, eravamo il tempo presente».
Quando poi arriva Portiere di notte, ´74, diventa subito un manifesto della trasgressione.
«Non era ammissibile parlare dei nazisti come persone. Era tabù. Ricordo un dibattito sui Cahiers du cinéma tra Michel Foucault che difendeva il film e la redazione che aveva le bende sugli occhi e rappresentava una cultura blindata, ferma. Almeno in Francia si dibatteva d´ideologia, in Italia tutto si ridusse a stabilire – in censura – se fosse giusto che Charlotte Rampling facesse l´amore stando sopra. Credo davvero che il film aprì delle porte».
È vero che nel ´71 firmò il documento contro il commissario Calabresi sull´Espresso?
«Non ricordo di averlo mai fatto né di essere stata mai interpellata».
È sbagliata la sensazione che lei si sia spostata verso posizioni più moderate, a partire dalla scelta dei soggetti come la biografia di De Gasperi?
«De Gasperi dobbiamo solo ringraziarlo se allora ci è stato evitato il peggio». 

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