Recensione di “NonnaDiciannove e il segreto del sovietico”, Alias-Supplemento de Il Manifesto, 3 maggio 2015, di Giorgio De Marchis.

 

Pagine da 20150503alias2 (00)DALL’ANGOLA
Spazi di tempo in un romanzo di Ondjaki, coetaneo della propria nazione liberata

di GIORGIO DE MARCHIS
La Luanda degli anni ottanta era la capitale di una nazione appena emersa da oltre un decennio di guerre di  decolonizzazione e immediatamente sprofondata in una sanguinosa guerra civile, la cui conclusione sarebbe arrivata solo nel 2002. Condizioni di vita, quindi, inevitabilmente precarie per gli abitanti della città che l’ultimo romanzo pubblicato in Italia dell’angolano Ondjaki lascia intuire, filtrandole però attraverso lo sguardo incantato di un gruppo di bambini che tutto vedono attraverso i ninja e le arti marziali dei film di Jackie Chan. In NonnaDiciannove e il segreto del sovietico (Il Sirente, pp. 160, e 15,00), le devastazioni del conflitto si confondono, infatti, con i disastri  provocati da Godzilla, mentre le battute di Trinità e di «quel ciccione di Bud Spencer barbuto» si sovrappongono alle parole d’ordine della rivoluzione socialista. Del resto, nato nel 1977, Ondjaki è praticamente coetaneo della propria nazione e questa condizione biografica fa sì che i suoi primi ricordi abbiano come sfondo gli iniziali e difficili passi di una nazione allora nascente. Non è un caso, quindi, che l’infanzia assuma un ruolo centrale nell’opera di questo scrittore e ha ragione Livia Apa – che traduce il romanzo e ne firma una prefazione, mentre la postfazione è affidata a Beppi Chiuppani – quando afferma come, nell’universo narrativo del più interessante esponente della generazione apparsa dopo l’indipendenza, si colga per metonimia un ritratto del suo giovane paese, così come per Luandino Vieira (l’inevitabile punto di riferimento per la scrittura di Ondjaki) la realtà dei musseque lo era stata della violenza coloniale.
Nel romanzo si muovono medici cubani, operai sovietici impegnati nella costruzione dell’imponente mausoleo del presidente Agostinho Neto e tutti gli straordinari abitanti di PraiaDoBispo, già noti ai lettori di Ondjaki: l’irascibile SignorTuarles con il suo immancabile kalashnikov, la figlia Charlita, l’unica in famiglia ad avere gli occhiali con cui guardare la telenovela, DonnaLibânia e il suo leggendario dolce di banana, SpumaDelMare con il suo coccodrillo. E in queste pagine si conferma come un luogo possa essere conosciuto, amato e ricreato in due modi: uno letterato e  conscio – in NonnaDiciannove e il segreto del sovietico Ondjaki dialoga anche con Ana Paula Tavares, Manuel Rui e Ruy Duarte de Carvalho –, l’altro, vissuto, immediato e inconscio. Le considerazioni sul senso del luogo, espresse in
altre latitudini da Seamus Heaney, valgono, dunque, anche per Ondjaki e per la PraiaDoBispo della sua infanzia. Come ricorda, del resto, la poetessa Ana Paula Tavares nella lettera all’autore che chiude il volume, «Tutti noi siamo di un luogo, come di una infanzia… e per essere di un luogo e di una infanzia, bisogna scriverla, ci hanno insegnato gli antichi, da Platone a NonnaCatarina, e non ci sono versi, sembra, o prosa raffinata che possa fissare il gesto e la parola uguale a quella di quanti hanno vissuto, sono passati da lì, ne hanno ascoltato i suoni, toccato il mare. Solo così la parola può sorgere così conforme alle regole del dire e così fedele alle norme del luogo». PraiaDoBispo è, quindi, in fondo un «quartiere fatto di polvere e giochi antichi» da proteggere dalla dinamite dei sovietici; ma è anche un tempo da salvaguardare perché, come confida al nipote NonnaAgnette, meglio conosciuta come NonnaDiciannove, ogni passato è sempre, prima di tutto, un luogo. Un luogo magari lontano, ma comunque dentro ai nostri ricordi.