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  • Faïza Guène il 6 maggio a Mediterraneo Downtown

    Faïza Guène il 6 maggio a Mediterraneo Downtown

    Faïza Guène autrice di “Un uomo non piange mai” il 6 Maggio sarà a Prato in occasione del Festival Mediterraneo Downtown

    Scrittura Migrante‘ Le identità e le scritture meticce di due donne che parlano dell’Europa contemporanea Sabato 6 maggio – ore 16.30  Bibilioteca Lazzerini – Sala Conferenze – Primo Piano. Incontro con Faïza Guène, autrice di “Un uomo non piange mai” e Alketa Vako, modera l’incontro  Marina Lalovic (Radio Rai 3 Mondo).

    Settanta ospiti internazionali, cento volontari, trentacinque ore di programmazione tra talk show, incontri, presentazioni di libri e spettacoli: è tutto pronto per la prima edizione di “Mediterraneo Downtown”, il primo festival interamente dedicato alla scena contemporanea dell’area mediterranea.
    Un’occasione unica per vivere una città come Prato, la più multiculturale della nostra regione, e anche per avere uno sguardo nuovo, originale e non stereotipato su un’area geografica, culturale, storica ed economica a cui apparteniamo.
    La manifestazione coinvolgerà i luoghi principali della città: Il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, il complesso della Ex Campolmi (Museo del Tessuto e Biblioteca Lazzerini), il teatro Cicognini all’interno del prestigioso e omonimo Liceo e piazza delle carceri.
    I promotori del Festival 2017 sono: COSPE onlus, Comune di Prato, Regione Toscana, Libera, Amnesty International e Legambiente.

    Faïza Guène nasce nel 1985 a Bobigny, in Francia, da genitori di origine algerina, e cresce a Pantin, nella banlieue “incendiaria” a nord-est di Parigi, dove conosce la realtà del sottobosco urbano che spinge poveri e immigrati all’auto-emarginazione. Grazie all’incoraggiamento del professore di Francese che la segue al liceo, Faïza pubblica il suo primo libro all’età di 19 anni (Kife Kife, demain, 2004). L’autrice diventa, così, la portavoce di un disagio tutto francese, quello dei “banlieusards”.

    «Tradotta in 26 lingue, Faiza Guene si è imposta come una delle voci più originali della letteratura francese contemporanea.»

    Il Libro Una cronaca sensibile e divertente, un sottile ritratto di un’epoca, in cui tutti i parametri di riferimento sono in frantumi.“Un uomo non piange mai” racconta con garbo e sensibilità la storia di una famiglia algerina emigrata in Francia. Nato a Nizza da genitori algerini, Mourad Chennoun vorrebbe costruirsi un destino. Il suo peggior incubo: diventare un vecchio ragazzo obeso con i capelli sale e pepe, nutrito da sua madre a base di olio di frittura. Per evitare questo, dovrà emanciparsi da una pesante storia familiare. Ma è veramente nella rottura che diventerà pienamente se stesso? Senza giudizio e senza durezza, Faïza Guène si interroga sulla tradizione familiare e sulla questione della libertà.

  • Ebe Pierini, “ItalNews” (25 aprile 2017)

    Ebe Pierini, “ItalNews” (25 aprile 2017)

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzeddine

    L’indomita Fairouz in bilico tra tradizione ed emancipazione nella banlieue francese

    di Ebe Pierini, “ItalNews” (25 aprile 2017)

    La Mecca-Phuket (S. Azzeddine)Nel quartiere la definiscono sfrontata. Lei si definisce fiera e indomita.

    Non ero fiera di essere musulmana, ma semmai musulmana e fiera in generale.

    Non è un’eroina moderna la protagonista del romanzo di Saphia AzzedineLa Mecca Phuket” (Il Sirente). Fairouz è una ragazza normale, figlia di immigrati marocchini che vive in una banlieue francese. Una di quelle che da almeno un paio d’anni a questa parte sono divenute famose perchè da lì provenivano alcuni terroristi islamici e perchè è lì che maggiormente si incancrenisce la mancata integrazione che a volte partorisce l’estremismo.

    La sua è una lotta quotidiana contro la docilità, quella che le imporrebbe la sua cultura. In bilico tra la voglia di emanciparsi e l’amore per la sua famiglia. Quello stesso amore che nutre verso i suoi genitori che la spinge a mettere da parte dei soldi, con la complicità della sorella Kalsoum per regalare loro l’hajj, il pellegrinaggio islamico a La Mecca perchè possano finalmente vedere e toccare la Ka’ba e non essere più additati dai vicini in quanto ancora non hanno ottemperato ad uno dei pilastri dell’Islam.

    Da un lato il senso del dovere e del rispetto e quel salvadanaio che si riempie. Dall’altro la voglia di evadere, di regalarsi un sogno. Nel mezzo c’è l’odore dei piatti tipici marocchini, c’è l’atmosfera delle banlieue, c’è la difficoltà degli immigrati di integrarsi.

    Geniale l’idea dell’autrice di scegliere di attribuire ai genitori un linguaggio che è volutamente un ibrido tra il loro idioma originario e quello del Paese che li ospita. Così come è schietto, diretto, sfrontato, in alcuni momenti anche volgare il modo di esprimersi della protagonista. Ma è esso stesso ribellione ad uno schema, è esso stesso una forma di indocilità.

    Un romanzo che ci costringe ad interrogarci sulla condizione delle donne che vivono in determinati contesti famigliari e religiosi. “Sono passate dalla corda per saltare al fasciatoio, senza passare dalla casella baci rubati” sentenzia con amarezza Fairouz parlando di tante ragazze provenienti da famiglie di immigrati. Lei che scandaglia a fondo anche il rapporto tra uomo e donna. “Siamo l’una la metà dell’altro, ce la giochiamo a metà e ci godiamo il risultato a metà. Nelle religioni, le donne subivano sempre di tutto, come se Dio ce l’avesse personalmente con loro per qualcosa. Ma la mela e quella storiella che ne è derivata, può convincere all’inizio. Ma poi Walt Disney ha fatto un sacco di capolavori che trasformano quella storia in una boiata. Che cosa abbiamo mai fatto che non abbiano fatto anche gli uomini, a parte generali in quande quantità?” si chiede.

    Una storia che ruota attorno a questa colletta per regalare l’hajj ai genitori che si chiude con un finale inatteso. Uno stile fluido e piacevole quello della Azzadine che dimostra in questo romanzo di saper trascinare il lettore dalla prima all’ultima pagina senza annoiare mai.

  • Ebe Pierini, “ItalNews”, 12 aprile 2017

    Ebe Pierini, “ItalNews”, 12 aprile 2017

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    La guerra raccontata attraverso i colori da un ragazzo di Aleppo

    di Ebe Pierini, “ItalNews”, 12 aprile 2017

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarImprimere la guerra su tela.
    Dipingerla anche col sangue vero delle vittime.
    É quello che fa Adam, un ragazzino siriano di 14 anni, malato della sindrome di Asperger, orfano di madre. La sua camera piena zeppa di tele dipinte è il suo rifugio. É così che lui esorcizza il dolore, trasponendolo in un dipinto. E quando il cibo scarseggia e i morsi della fame si fanno sentire schiaccia un tubetto di colore e lo mangia.
    É lui il protagonista del romanzo “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” (il Sirente) di Sumia Sukkar, scrittrice britannica di origini siriane.
    I colori e il conflitto.
    Potrebbe apparire un connubio impossibile e invece diventa una chiave di lettura alternativa. Ogni sentimento, ogni stato d’animo viene associato ad una tinta e la guerra assume le sfumature del nero, del grigio, del marrone, del viola, del rosso. Adam affronta il dramma che affligge Aleppo e tutta la Siria grazie all’amore della sua famiglia, di suo padre, della sorella Yasmine, suo vero unico punto di riferimento e dei suoi tre fratelli e alla vicinanza di una gatta randagia che decide di chiamare Liquirizia. Il dolore sfiorerà più volte i membri della sua famiglia e la morte entrerà nella sua casa. A fare da cornice la descrizione di una Aleppo violata dai bombardamenti. La scuole chiuse, le case distrutte, i morti per strada, il cibo che manca, l’acqua centellinata. In questo romanzo ritroviamo la Siria che ci appare ormai dagli schermi televisivi, nei servizi dei telegiornali, nei reportage dei giornalisti.
    In Adam rivivono tutti i bambini che hanno vissuto e continuano a vivere questa terribile esperienza. Lui ci ricorda anche tutte le vittime della guerra in Siria non da ultimi i bimbi morti ad Idlib per i gas delle armi chimiche. Proprio per questo il romanzo è quasi un reportage per l’attualità delle vicende che narra e per la veridicità delle vite che contiene.

  • Katia Debora Melis, “Oubliette Magazine”, 10 aprile 2017

    Katia Debora Melis, “Oubliette Magazine”, 10 aprile 2017

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar: ma la guerra che colore ha?

    di Katia Debora Melis, “Oubliette Magazine”, 10 aprile 2017

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarTerzo libro della collana Altriarabi Migrante, uscito nel 2016 con traduzione dall’inglese di Barbara Benini, è il bellissimo dolceamaro e erudissimo, ma comunque splendido testo d’esordio di Sumia Sukkar, autrice inglese di origini siro-algerine, nata a Londra nel 1992.

    Frequentato il corso di laurea in Scrittura creativa presso la Kingston University londinese, viene incoraggiata da Todd Swift, scrittore ed editore, a pubblicare con la sua casa editrice, la Eyewear, il primo romanzo, “The boy from Aleppo who paint the war” nel 2013.

    Aleppo. Siria. Una famiglia formata da baba, il padre, che lavora tutto il giorno duramente per sostentare i suoi cinque figli. Mama, mamma, la moglie, è morta anni prima.Il figlio più piccolo e voce narrante di quasi tutta la storia, è Adam, quattordicenne che vive a cavallo tra realtà e immaginazione, in un mondo speciale e abbastanza protetto dal nucleo familiare, a causa della sua sindrome di Asperger.

    Tre fratelli gemelli studiano all’università, mentre Yasmina, l’unica donna di casa, infermiera in un centro estetico, è il motore e il vero sostegno di tutta la famiglia, in primis di Adam, di cui conosce perfettamente le speciali esigenze, le manie, abitudini, paure, fobie e le periodiche crisi dovute alla sua patologia.

    In fondo, una famiglia normale, che ha trovato un suo equilibrio e ha creato la “normalità” attorno a Adam. Lui ha sempre amato dipingere e i colori sono il filtro per la sua percezione e comprensione del mondo, di cose, persone, situazioni e stati d’animo. I colori sono le categorie attraverso cui può tentare di capire e di non perdere di vista un orizzonte sicuro e tranquillizzante. Improvvisamente, però, le cose stanno cambiando. Entrano nella sua vita parole incomprensibili nel loro perché: manifestazioni, rivolte, guerra. Guerra civile, impossibile: come si può combattere se stessi?

    È presente nei suoi quadri la guerra, filtrata attraverso i libri, la scuola, la televisione, nei film, prima, e nei notiziari d’ora in avanti. Cresce la sua confusione, crescono le sue domande, cresce il suo disagio. Tra mancanza d’acqua, di energia elettrica, di cibo, e orrori sempre crescenti e che via via toccheranno sempre più da vicino la famiglia di Adam, cambiano i colori intorno, prima nelle persone, che non sono più le stesse, poi anche Aleppo, tutta, che non sarà mai più come prima.

    Per la prima volta dopo la scomparsa della madre, la morte entra prepotentemente nella vita, negli occhi di Adam, gli strappa via il fratello Isa, e ancora macerie e polvere, bombe e sangue, violenze ovunque, in un’escalation senza fine.

    Gli occhi di Adam ci raccontano per quasi tutto il tempo le vicende, salvo i pochi, dolorosissimi capitoli in cui a raccontare in prima persona gli orrori, le sevizie e turpitudini del conflitto, subite in prima persona, sarà Yasmine.

    I tanti perché di Adam non sempre troveranno risposta, non la trovano nemmeno per noi che siamo spesso lontani e increduli spettatori di conflitti, come quello siriano, che non paiono trovare soluzione.

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” è un romanzo tra storia, cronaca e denuncia, che sa mettere in luce i risvolti sentimentali, affettivi, culturali, religiosi e umani di un popolo che da troppo tempo soffre ogni genere d’atrocità.

    Tra fantasia e ingenuità, amori profondi, citazioni letterarie e immagini poetiche, con profonda passione per la cultura, tra immagini cruente, di inaudita brutalità, sino a quadri macabri e ossessivi, come dentro un grande incubo, non si riesce a staccare lo sguardo dalla pagina sino all’ultima riga, profondamente e intensamente coinvolti dalle vicende dei protagonisti.

    Il lettore, così, li accompagna nel loro lungo e doloroso viaggio di fuga verso Damasco, verso la salvezza, verso una nuova vita. Non tutti arriveranno alla meta. Ma là in fondo, chissà dove, c’è ancora qualcosa e qualcuno, ci sono ancora colori che aspettano di essere usati per dipingere un quadro diverso.

  • Riccardo Michelucci, “Avvenire”, 8 aprile 2017

    Riccardo Michelucci, “Avvenire”, 8 aprile 2017

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzeddine

    Intervista. La scrittrice Saphia Azzedine: banlieue, la rabbia non è islam

    di Riccardo Michelucci, “Avvenire”, 8 aprile 2017

    Nel suo nuovo romanzo la giovane scrittrice affronta con tono leggero gli stereotipi sulla sua religione.

    «Credevo in Dio. Facevo il ramadan. Non mangiavo maiale. Non bevevo alcool. Ero vergine. Non sparlavo. Cioè, solo un po’. Ero quella che si chiama comunemente musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno. Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti».

    Un fiume interrotto di parole condito da una vena ironica e a tratti irriverente ci racconta la realtà odierna delle banlieue parigine e la vita degli immigrati marocchini in Francia, dei quali si sente parlare quasi esclusivamente attraverso i fatti di cronaca. La voce narrante è quella della giovane Fairouz, protagonista di “La Mecca-Phuket“, il romanzo della scrittrice franco-marocchina Saphia Azzeddine, appena uscito in italiano per l’editrice il Sirente (pagine 130, euro 15,00). Fairouz vive con la famiglia a Créteil, un sobborgo di Parigi, in «un casermone dove i pettegolezzi facevano da fondamenta e il cervello da cemento» e desidera emanciparsi dalle origini arabomusulmane.
    Un giorno decide insieme a una sorella di raccogliere i soldi necessari per regalare il sogno di una vita ai devoti genitori: il hajj, ovvero il pellegrinaggio islamico canonico alla Mecca. Ma finirà invece per spendere quei soldi in altro modo, cioè prendendo dei biglietti per andarsi a divertire in un resort di Phuket, in Thailandia.

    «Alla fine preferirà ringraziare Dio per i piccoli piaceri della vita, invece che chiedergli perdono», ci spiega Azzeddine. Dopo i precedenti romanzi Confidences à Allah e Mio padre fa la donna delle pulizie (quest’ultimo tradotto alcuni anni fa da Giulio Perrone editore), La Mecca-Phuketcompleta la trilogia che la scrittrice ha dedicato al confronto con la sua religione, un tema apparentemente complesso del quale riesce a parlare in modo disincantato e divertente ma non frivolo, convinta com’è che non sia necessario essere sempre seri o, peggio, arrabbiati, quando si parla di religione.

    Nata ad Agadir nel 1979, Saphia Azzeddine ha lasciato il Marocco a 9 anni e da allora vive in Francia, dove lavora anche come attrice e regista. Ha sei romanzi all’attivo, «e il settimo già consegnato all’editore», precisa. Da quello di esordio sono stati tratti una pièce teatrale e un fumetto, da La Mecca-Phuket persino una trasposizione cinematografica. Quest’ultimo presenta anche una particolare attenzione al linguaggio, e ci fa conoscere i codici linguistici nati nelle periferie disagiate con funzioni di riconoscimento identitario e generazionale.

    In questo caso è stata una precisa scelta dovuta all’ambientazione del romanzo?
    «Per la verità no. Di solito non costruisco niente, non programmo alcunché prima di mettermi a scrivere, né come né quanto, e scrivo sempre in modo molto spontaneo. In tutti i miei romanzi mi sono sforzata di anteporre i personaggi a me stessa. Sono io ad adattarmi alla loro vita, e quindi anche al loro modo di esprimersi».

    Fino a che punto il personaggio di Fairouz è ispirato alla sua personalità? Ci sono altri elementi autobiografici nella storia?
    «Io sono dentro tutti i miei personaggi, non mi nascondo mai dietro la finzione. Li amo e li comprendo. Non necessariamente la penso sempre come loro, però. Fairouz mi assomiglia perché ha la mia stessa rabbia ma anche un suo modo molto personale di concepire Allah, che la porta molto più spesso a ringraziarlo piuttosto che a chiedergli scusa».

    Cosa pensa dell’attuale situazione nelle banlieue francesi?L’immagine che si ha dall’esterno, forse superficiale, è quella di una realtà esplosiva che la politica non sa affrontare, e che anche per questo si incancrenisce col tempo.
    «È una situazione difficile, certo, ma non soltanto a causa del malcontento delle comunità e delle derive di natura religiosa, come vengono descritte tutti i giorni dai mezzi d’informazione. Il problema delle periferie è anzitutto di carattere sociale, ed è alimentato dalle ingiustizie subite dalla popolazione».

    Pensa che questo problema sia andato ad aggravarsi negli ultimi decenni?
    «Sicuramente. Le televisioni e i giornali non hanno mai smesso di costruire una sorta di islamismo immaginario che con l’andar del tempo, per reazione, è diventato realtà. Da almeno trent’anni i musulmani francesi vengono stigmatizzati, criminalizzati, se le giovani donne indossano un foulard c’è chi ne fa subito un affare di Stato. L’islam ha dimostrato di avere le spalle larghe. A forza di descrivere i padri come torturatori e aguzzini, i figli come dei bruti e le donne come persone sottomesse, c’è stato un rigetto nei confronti dello Stato e un allontanamento di queste comunità dalla vita sociale del Paese. È stata una reazione abbastanza spontanea. Senza parlare del problema della colonizzazione, un crimine che ha lasciato tracce che si sentono tuttora, dopo tanti anni».

    Cosa si aspetta dall’esito delle prossime elezioni presidenziali francesi?
    «Non so, non mi aspetto niente. Prima eravamo soliti votare per il male minore. Adesso è diventato difficile anche distinguere, siamo di fronte a dei burattini privi di anima. Qualcuno potrà anche ritenerla una posizione demagogica ma, se è così, è colpa dei politici».

  • Faïza Guène ospite al Festival Mediterraneo Downtown

    Faïza Guène ospite al Festival Mediterraneo Downtown

    Faïza Guène autrice di “Un uomo non piange mai” il 6 maggio a Mediterraneo Downtown (5-6-7 Maggio)

    In concomitanza con l’uscita del libro “Un uomo non piange mai” l’autrice parteciperà ad un incontro di presentazione il 6 maggio all’interno del Festival Mediterraneo Downtown

    Mediterraneo Downtown: dialoghi, culture e società si terrà il primo week end di maggio (5-6 e 7 maggio) e, questa volta, si tratterà di una pacifica e animata invasione del centro storico di Prato.

    Il quartier generale dell’evento sarà il complesso della Ex Campolmi, tra il Museo del Tessuto e la Biblioteca Lazzerini, ma saranno le strade, le piazze, i teatri, i cinema, i musei e le librerie di tutta la città ad essere protagonisti di una manifestazione che assumerà i connotati di un festival popolare, di una operazione culturale e divulgativa, con una offerta che spazierà tra incontri pubblici con testimonial autorevoli, arte contemporanea, concerti, libri, cinema, attività per bambini, incontri di giovani studenti, attività sportive.

    Al centro dei dibattiti del talk show e delle presentazioni di libri, ci saranno come al solito i diritti, declinati sui “femminismi”, diritti delle donne ed Lgbti nel Mediterraneo, le economie e le relazioni economiche sostenibili, giovani e innovative, la libertà di espressione vista attraverso i fumetti e la graphic novel e, naturalmente, le migrazioni: affrontate questa volta da una prospettiva particolare ovvero, “quando la migrazioni bussano alla tua porta”.

    Al Festival presso ex fabbrica Campolmi, di fronte al Museo del Tessuto troverete anche la libreria con tutti i titoli delle collane Altriarabi e Altriarabi Migrante dell’editrice il Sirente. 

    Un uomo non piange mai : Faïza GuèneFaïza Guène pubblica il suo primo libro all’età di 19 anni (Kiffe Kiffe, demain, 2004). Accolto come il prototipo del nuovo romanzo “sociale” francese. L’autrice diventa, così, la portavoce di un disagio tutto francese, quello dei “banlieusards”. “Un uomo non piange mai” è il suo ultimo libro e quello a cui è più affezionata.

    Racconta con garbo e sensibilità la storia di una famiglia algerina emigrata in Francia. Senza giudizio e senza durezza, Faïza Guène si interroga sulla tradizione familiare e sulla questione della libertà.

    «Tradotta in 26 lingue, 400.000 copie vendute, Faïza Guène si è imposta come una delle voci più originali della letteratura francese contemporanea.»

     

  • Viviana Mazza, “Corriere della Sera”, 5 marzo 2017

    Viviana Mazza, “Corriere della Sera”, 5 marzo 2017

    E SE FOSSI MORTO? di Muhammad Dibo

    Intervista. Vi fanno orrore queste immagini. Ma il mio popolo viene ucciso ogni giorno

    di Viviana Mazza, “Corriere della Sera”, 5 marzo 2017

    Muhammad Dibo“Il regime siriano uccide il popolo nelle carceri e con la guerra, lo uccide con gli assedi e con la fame, e queste cose avvengono tutti i giorni, non solo oggi con la strage legata all’uso di armi chimiche. E’ paradossale che ogni volta che le armi chimiche vengono usate in Siria, ci sia clamore sui media, ma poi il mondo torna al suo abituale silenzio pur sapendo che Assad ha continuato a uccidere senza fermarsi un solo giorno per sei anni. Le morti per i gas sono più gravi di quelle avvenute in carcere o con altri metodi? Siamo di fronte ad un mondo sordo che sembra dire ad Assad: uccidi, ma non con le armi chimiche! Fallo con i carri armati, i bombardamenti aerei, ma non con le armi chimiche”. Muhammad Dibo è uno scrittore siriano. Partecipò nel 2011 alla rivolta contro il regime. Dopo l’arresto e le torture in carcere, nel 2014 ha lasciato il Paese. Vive in esilio a Berlino e dirige “Syria Untold“, testata web di attivismo civile. Il 20 maggio sarà al Salone del Libro di Torino per parlare del romanzo “E se fossi morto?” (il Sirente), nel quale racconta che “se vivi in Siria, la fine può arrivare in ogni momento: sotto le bombe o in uno dei tenebrosi sotterranei dei servizi segreti”.

     

    L’America di Trump ha detto che rimuovere Assad non è una priorità: pensa che questo abbia dato carta bianca al regime?
    “La posizione dell’America Trump non è diversa da quella dell’amministrazione Obama. L’unica differenza è che Trump dice apertamente ciò che Obama faceva tacitamente. Obama è stato più pericolo e insidioso per i siriani, li illudeva di essere contro Assad, ma in pratica gli ha fornito tutte le carte per sopravvivere: non ha aperto bocca sull’intervento di Hezbollah e dell’Iran, ha spianato la strada alla Russia e si rimangiato le dichiarazioni sulla “linea rossa” delle armi chimiche.

    Lei crede che, sei anni dopo, siano rimaste solo due opzioni: il regime o i jihadisti?
    “In Siria c’è ancora un popolo che vuole uno Stato libero e giusto, ma è tra le grinfie dei jihadisti e di Assad, due facce della stessa medaglia. Ci sarebbe una terza via: sconfiggere gli uni e l’altro. L’America e l’Europa credono di fare i loro interessi. Il rischio è che ne pagheranno il prezzo: le dittature sono terreno fertile per il terrorismo”.

  • A breve “Un uomo non piange mai” di Faïza Guène

    A breve “Un uomo non piange mai” di Faïza Guène

    “Un uomo non piange mai” a maggio in Libreria

    Questo bellissimo romanzo ci dice molto di più sulla vita di tutti i trattati di sociologia e discorsi politiciL’Express.

    Una cronaca sensibile e divertente, un sottile ritratto di un’epoca, in cui tutti i parametri di riferimento sono in frantumi. “Un uomo non piange mai” racconta con garbo e sensibilità la storia di una famiglia algerina emigrata in Francia. Nato a Nizza da genitori algerini, Mourad Chennoun vorrebbe costruirsi un destino. Il suo peggior incubo: diventare un vecchio ragazzo obeso con i capelli sale e pepe, nutrito da sua madre a base di olio di frittura. Per evitare questo, dovrà emanciparsi da una pesante storia familiare. Ma è veramente nella rottura che diventerà pienamente se stesso? Senza giudizio e senza durezza, Faïza Guène si interroga sulla tradizione familiare e sulla questione della libertà.

    «Tradotta in 26 lingue, Faïza Guène si è imposta come una delle voci più originali della letteratura francese contemporanea.»

    Faïza Guène, née en 1985 à Bobigny, romancière, scénariste et réalisatrice française.

    Faïza Guène nasce nel 1985 a Bobigny, in Francia, da genitori di origine algerina, e cresce a Pantin, nella banlieue “incendiaria” a nord-est di Parigi, dove conosce la realtà del sottobosco urbano che spinge poveri e immigrati all’auto-emarginazione. Grazie all’incoraggiamento del professore di Francese che la segue al liceo, Faïza pubblica il suo primo libro all’età di 19 anni (Kife Kife, demain, 2004). L’autrice diventa, così, la portavoce di un disagio tutto francese, quello dei “banlieusards”.

    Un uomo non piange mai” di Faïza Guène è il V titolo della collana Altriarabi Migrante, che raccoglie le opere di giovani autori europei di origine araba, sostenuta dall’U.E. Tradotto dal francese da Federica Pistono, illustrazione di copertina di Paola Equizi. Nella stessa collana: “L’autistico e il piccione viaggiatore“, “I miracoli“, “il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra“, “La Mecca-Phuket“.

  • Mangialibri, 29 marzo 2017

    Mangialibri, 29 marzo 2017

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzedine

    di Lisa Puzzella

    Quando i signori Moufakhrou sono arrivati in Francia erano entusiasti e pieni di “voglia di integrarsi”, ma la realtà li ha ben presto convinti a rinunciare. Questa scelta, secondo la loro primogenita Fairouz è stata provvidenziale perchè la loro “francesizzazione” non sarebbe certamente stata ben accolta dai ceffi che popolano i casermoni della periferia in cui vivono. Un non luogo dove le lingue dei benpensanti sono instancabili, battono indefesse la grancassa della moralità e del buoncostume. Una sorta di comitato di salute pubblica presieduto dalle beghine di quartiere si occupa della diffusione del pettegolezzo e della notifica delle critiche agli interessati. Nulla le può fermare, né ascensori rotti né i grugniti e sguardi di disapprovazione che Fairouz riserva loro ogni qual volta le osserva scambiare untuosi e ipocriti convenevoli con sua madre al mercato o mentre sono assise a cena, invitate sapendo già che criticheranno tutto, dalla quantità di grasso di montone lasciato nella tajine al fatto che i signori Moufakhrou non sono ancora haji, non hanno effettuato il rituale pellegrinaggio di purificazione a La Mecca. Proprio per sgravare i genitori dal peso dell’onta, Fairouz e sua sorella Kalsoum decidono di accollarsi l’onere di raggranellare la somma necessaria al viaggio, che consegnano scrupolosamente in piccole, sudatissime rate ad un untuoso agente di viaggi sui generis. Ma alla porta accanto alla sua occhieggia ammiccante una “vera” agenzia di viaggi che propone i lussureggianti scenari di Phuket e l’incanto dei suoi tramonti…

    La Mecca-Phuket (S. Azzedine)La Mecca o Phuket? Tajine o pentola a pressione? I valori decadenti dell’occidente e l’edonismo prêt-à-porter o la spiritualità e la solidità dei valori dei padri? Saphia Azzeddine affronta il dilemma con l’originalità a cui ci aveva abituato con i suoi precedenti libri Confessioni ad Allah e Mio padre fa la donna delle pulizie. La Fairouz a cui l’autrice presta il suo sguardo ironico e disincantato in La Mecca-Phuket è una ragazza determinata ad emergere attraverso lo studio e il lavoro, decisa a inculcare gli stessi valori nelle sue sorelle e in suo fratello, a botte se necessario. Ambisce alla classe eterea delle parigine, al loro stile nonchalant e non alla collezione di cineserie che tanto attira le donne come sue madre. È laica, colta, informata e non cede facilmente alle lusinghe degli archetipi culturali; è insofferente verso usi e abitudini che i suoi connazionali hanno cristallizzato nella loro piccola comunità etnicizzata, non vuol sentir parlare di matrimonio anche se sua madre minaccia di morirle davanti ogni volta che rifiuta l’idea di sposarsi per assecondare le convenzioni. La Azzeddine, che è arrivata a Parigi a 9 anni al seguito della sua famiglia marocchina, apre una nuova prospettiva sulla banlieu, sui giovani che “si distruggono il futuro per non doverci pensare più”, sulle ipocrisie dei genitori e la loro ostinata cecità verso i fallimenti dei figli. Non ci sono j’accuse né pietismi postcolonialisti in questo testo, solo la dissezione chirurgica di un colossale fallimento le cui macerie seppelliscono ogni possibile buonismo: “[…] si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine bruciano le donne, quando non sono le donne sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti”. La mancata integrazione ha prodotto una generazione che si dibatte nervosamente tra i vetusti valori dei padri e maldestri tentativi di rigettarli per integrarsi, finendo per cristallizzarsi nella ripetizione di atteggiamenti chauvinisti e meschini, franchouillards in una parola. Dicotomia che è ironicamente iconizzata dal piccolo cameo che l’editore ha scelto per la prima pagina: tajine vs pentola a pressione. La Azzeddine spruzza vetriolo negli occhi dei lettori, scrive di immigrazione come solo John Fante aveva saputo fare. I suoi Moufakhrou, come i Bandini, si dibattono goffamente tra orgoglio e insicurezza, menefreghismo e ipocrita osservanza delle convenzioni.

  • «Il mio Egitto senza regole dove è sparito lo zucchero»

    «Il mio Egitto senza regole dove è sparito lo zucchero»

    Intervista Parla lo scrittore Ahmed Nàgi, condannato per oscenità e liberato dopo 11 mesi di carcere, ma ancora in attesa di giudizio

    LA LETTURA | Il Corriere della Sera di Viviana Mazza

    Sono il primo scrittore a finire in manette per un romanzo nella storia del sistema giudiziario egiziano», dice Ahmed Nàgi con voce pacata al telefono dal Cairo. Il 20 febbraio 2016 l’autore trentunenne di “Vita: istruzioni per l’uso“, edito in Italia da Il Sirente, è stato condannato a due anni di prigione per «oltraggio al pudore» a causa del «contenuto sessuale osceno» del libro. La vicenda ha fatto scalpore in tutto il mondo, gli è stato conferito il Premio Pen per la libertà di espressione. Poi, a dicembre, la Corte di Cassazione ha ordinato la sua scarcerazione provvisoria, ma il caso è ancora aperto. Il 2 aprile saprà se deve tornare in prigione.
    Vita: istruzioni per l'uso : Ahmed Nàgi / Ayman Al ZorqaniIl libro, tuttora in vendita in Egitto, descrive il Cairo in un futuro distopico, in cui la metropoli è stata distrutta — piramidi incluse — da una catastrofe naturale. Nel degrado della città il protagonista non può sorridere né esprimersi, e alcol, sesso, hashish sono rifugi illusori. «È un romanzo sulla vita dei giovani, sotto le pressioni delle autorità e della città», spiega l’autore nella prima intervista a un giornale italiano dopo il rilascio. Scritta durante la «stagnazione» dell’era Mubarak, prima della rivoluzione del 2011, l’opera è stata pubblicata nel 2014, dopo il golpe militare con cui Al-Sisi ha rovesciato il presidente Mohammed Morsi. Ma il libro aveva le carte in regola: era stato approvato dalla censura.

    Perché è stato arrestato?

    «Onestamente non lo so. Quando alcuni estratti del libro sono usciti sul giornale letterario “Akhbar Al-Adab”, un avvocato di nome Hani Salah Tawfik si è presentato alla polizia, accusandomi di avergli procurato alta pressione e dolori al petto turbando la sua idea di pudore. Il procuratore ha presentato il caso in tribunale. Nel primo processo sono stato giudicato innocente, ma il procuratore ha fatto ricorso: la Corte d’appello mi ha condannato. Adesso la Corte di Cassazione mi ha scarcerato, ma mi hanno vietato di viaggiare. Spero che l’udienza del 2 aprile sia l’ultima. Ci sono tre possibilità: che il giudice mi reputi innocente; che mi rimandi in prigione a scontare il resto della condanna; o che riduca la pena e, poiché ho già passato 11 mesi dentro, mi liberi. Gli avvocati sono ottimisti, ma io sono stanco, voglio che tutto questo abbia fine».

    Lei è stato condannato per oltraggio al pudore sulla base dell’articolo 178 del codice penale. Non c’era mai stata una sentenza simile in Egitto?

    «Non era mai successo. Nel 2009 lo scrittore e fumettista Magdi Shafiei è stato accusato di oscenità per la graphic novel Metro (ma si dice che la sua vera colpa fosse aver criticato Mubarak perché voleva trasmettere il potere al figlio, ndr): il giudice lo ha multato. Una multa era la cosa peggiore che poteva succederti».

    Perché a lei è andata diversamente?

    «Perché l’Egitto oggi è un Paese in fluttuazione, che galleggia appena. La situazione legale non è chiara: la nuova Costi- tuzione, approvata dal popolo nel 2014, vieta di incarcerare qualcuno per ciò che scrive o dice, ma ci sono molte leggi che la contraddicono, come quella per cui sono stato incriminato, e i giudici hanno enorme discrezionalità. Intanto, le autorità — il presidente, l’esercito, la polizia — si fanno la guerra per conquistare più potere. Quando la mia vicenda è iniziata, tre anni fa, c’era uno scontro feroce tra il sindacato della stampa e la procura generale, che ha ordinato di aprire tutti i casi contro i giornalisti, anche quelli come il mio, che di solito non arrivano mai in tribunale. Infatti oggi ci sono almeno 25 reporter in prigione. L’idea che mi sono fatto è che il procuratore abbia visto un’opportunità per presentarsi come custode della morale. Quando se la prendono con chi scrive di politica, le autorità sanno che l’opinione pubblica si schiererà con gli imputati. Ma hanno usato il mio caso per suggerire che i giornalisti vogliono corrompere la morale, i bambini».

    Nella prigione di Tora, al Cairo, come è stato trattato?

    «Ci permettevano di uscire dalla cella solo per un’ora al giorno, ma negli ultimi cinque mesi per niente. Per cinque mesi non ho visto il sole, potete immaginare come influisca sulla salute. Non ci sono regole, sei nelle mani delle guardie carcerarie e dei loro umori: un giorno accettano di farti arrivare dei libri, il giorno dopo no. Tora è una specie di città carceraria, contiene 25 prigioni. Nella mia sezione c’erano alti funzionari condannati per corruzione: tre giudici, un ex poliziotto, un ex ufficiale dell’esercito… In 60 in una cella di 6 metri per 30. E c’erano anche persone sotto inchiesta ma non condannate: la legge lo consente. Ho conosciuto un uomo che, dopo 24 mesi dentro, è stato dichiarato innocente. Anche alcuni criminali avevano letto il mio libro: non è un bestseller, sono rimasto colpito».

    In quegli 11 mesi lei ha scritto un libro, nascondendo le pagine per non farsele sequestrare. Di cosa si tratta?

    «È un romanzo storico, ambientato nel XIX secolo, all’epoca della costruzione del Canale di Suez. Scavare il canale era un’impresa basata sul sogno di sposare lo spirito dell’Est e il corpo dell’Ovest. Doveva essere un modo per controllare l’eco- nomia e il mercato e diffondere i valori del progresso».

    Lo scrive in un momento in cui la situazione economica in Egitto è drammatica. Si aspetta nuove proteste?

    «Secondo i dati ufficiali, l’inflazione è al 29%. Quattro mesi fa, la Banca mondiale ha chiesto all’Egitto di smetterla di con- trollare il prezzo della sterlina egiziana e il valore è crollato. Non abbiamo il welfare come voi italiani, ma c’è un sistema di sussidi governativi per beni essenziali come lo zucchero e il pane, che hanno prezzi controllati. Ora l’Egitto è costretto ad applicare i prezzi di mercato, ma gli stipendi non sono aumentati. Lo zucchero non si trova, in un Paese in cui dipendiamo da tre tazze di tè dolcissimo al giorno per l’energia fisica quotidiana. Di recente ci sono state proteste, ma non spero che continuino, sarebbe un disastro perché la gente arrabbiata non manifesta, va a prendersi il cibo nei negozi. Io non sono contrario al mercato libero, ma i cambiamenti troppo rapidi stanno distruggendo la vita delle persone. Non è solo un problema legato al regime, ma anche alle istituzioni occidentali che impongono questa agenda economica. Ai leader europei sta bene un Egitto che galleggi, perché vogliono trasformarlo in un posto di blocco per i migranti. Ai tempi di Mubarak compravamo tutte le armi dagli Usa, adesso abbiamo acquistato due aerei dalla Francia, due sottomarini dalla Germania. Perciò i leader europei adorano Al- Sisi, e gli daranno soldi e armi qualunque cosa faccia, purché controlli i migranti».

    Lei conosceva Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso al Cairo?

    «Voglio esprimere le mie condoglianze alla famiglia di Giulio. L’ho incontrato una volta, a una festa, non abbiamo parlato a lungo, ma ho avuto la sensazione che fosse nobile e gentile. Io sono un po’ cinico, nichilista, ma ho provato ammirazione per quello che faceva. Era un accademico, ma non ambiva solo a scrivere una tesi, voleva aiutare le persone che studiava a migliorare la loro vita».

  • L’assurda saga dello scrittore del Cairo arrestato per oscenità

    “Vita: istruzioni per l’uso” un romanzo di Ahmed Nàgi e Ayman al Zorqani

    Rolling Stone

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    6 Marzo 2017

  • Marta Bellingreri, “Dialoghi Mediterranei”, marzo 2017

    Marta Bellingreri, “Dialoghi Mediterranei”, marzo 2017

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    La Siria negli occhi di un bambino

    di Marta Bellingeri, “Dialoghi Mediterranei”, marzo 2017

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarDalle foto di Aleppo, di Homs, di Idlib, di Daraa, di Raqqa e da tante altre città o paesini siriani, è sempre più difficile o raro immaginare e vedere colori, tranne il rosso del sangue e il grigio dei defunti edifici. A restituirmi, ogni tanto, dei colori, sono le foto e i video delle poche ma tuttora vive manifestazioni pacifiche della rivoluzione siriana che prendono ancora forma, nei pochi periodi di tregua, in diverse città fuori dal controllo del regime [1].
    Poi, è arrivata, tra le mie letture, Sumia Sukkar. Con un romanzo straordinario, Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra (edizioni il Sirente 2016, trad. B. Benini), con la forza dell’immaginazione, dietro la quale ci sono fatti realmente accaduti e testimoniati in questi anni, tramite gli occhi di un giovanissimo adolescente. Non uno qualunque. Adam ha quattordici anni e la sindrome di Asperger, una forma di autismo, che lo fa viaggiare con la mente in un mondo tutto suo. Pieno di colori. Questi colori sono nella sua mente, ma soprattutto nelle persone e nei sentimenti che animano la sua città, seppur pervasa, annientata dal conflitto. Aleppo, e gli anni più atroci che conosca nella sua storia recente.
    Il libro è stato scritto da Sumia, di padre siriano e madre algerina, nata e cresciuta a Londra, poco più che ventenne. Nel 2013 dunque l’Aleppo che descrive è dapprima animata dalle manifestazioni pacifiche (che si presumono essere del 2011 e del 2012, anche se la dimensione temporale è lasciata alla narrazione fuori dal calendario del ragazzo e non è scandita con precisione) e contemporaneamente, immediatamente martoriata dalle forze del regime, con ogni tipo di violenze, rapimenti e bombardamenti.
    Adam dipinge. Dipinge quello che vede, dipinge quello che sente, dipinge con rabbia, tristezza, gioia, originalità. Dipinge scene atroci. Dipinge col sangue veroche trova nella strada di fronte casa. Dipinge per poi mostrare quello che dipinge alla sorella Yasmine, che dedica a lui tutte le sue energie, come ha promesso alla madre, morta qualche anno prima.
    Non poteva che essere uno sguardo straordinario, come quello in fondo di un bambino e adolescente al contempo, a dare colore, diversi colori, alle speranze perdute nel caos del conflitto siriano e soprattutto dell’inaudita violenza repressiva e torturatrice di chi sostiene la comoda – e per questo “inscomodabile” – dinastia al potere, quella degli Asad. Così come Fouad Roueiha, nel suo articolo “Siria. C’era una volta un paese” [2], ci racconta la rivoluzione siriana partendo da cosa la precedeva, ovvero la Siria prima del 2011, prima di scandire paragrafo per paragrafo i cinque anni trascorsi (ormai quasi sei), anche lo sguardo di Adam riflette spesso con la sua semplicità sull’ante-guerra, in cui semplicemente si andava a scuola e si cantava l’inno nazionale, la sua quotidianità con la madre, o più semplicemente una città senza la guerra. Adam è testimone della gioia inziale dei fratelli e della sorella che sentono l’istinto e il dovere di andare a manifestare contro l’oppressione pluridecennale del regime.
    Nel libro, classificabile come romanzo ma anche come reportage narrativo, non c’è un attimo di tregua: è forse questo il carattere che più induce a immergersi nella realtà siriana, quanto meno aleppina, delle vicende della famiglia di Adam e Yasmine. Che sia un omicidio, un rapimento o un aborto, ogni orrore e dolore è succeduto immediatamente da un altro, altrettanto e indicibilmente tragico momento, senza un attimo di respiro, con un forse troppo audace tentativo di inserirequasi tutte in successione le già numerose atrocità che avevano cambiato la Siria per sempre nel 2013.
    L’unica tregua sono le riflessioni speranzose e fantasiose di Adam e l’esito positivo di alcune delle vicende familiari che scorrono. Intravedere quella bellezza e speranza riporta l’inimmaginabile alla dimensione umana di cui raramente ormai si riempe il nostro sentire rispetto a un conflitto lontano. Nella prefazione al loro straordinario ed esplicativo libro Burning Country, Leyla al Shami e Robin Yassin-Kassab riconoscono come l’inizio della rivoluzione i nuovi pensieri e le inaudite parole esplosi nei cuori e nelle menti delle persone che abitavano la Siria, il « Regno del Silenzio»:

    « This is where the revolution happens first, before the guns and the political calculations, before even the demonstrations – in individual hearts, in the form of new thoughts and newly unfettered words» [3].

    Adam, piccolo e indifeso, preoccupato solo della sua sopravvivenza e di quella della sua famiglia, a cui vuole rimanere sempre attaccato, è mosso continuamente da pensieri nuovi e stravolgenti e da una grande curiosità e coraggio che lo spingono sempre al di là della sua finestra e porta di casa. In questo ardire, sta tutta la sua voglia di vedere e testimoniare con i suoi occhi, che poi saranno colori e infine quadri, la realtà dei fatti, così come in fondo hanno per anni fatto cittadini e medi attivisti delle città durante la vita quotidiana sotto assedio o durante battaglie lunghissime. Ma il fatto che sia un bambino a narrarlo, per lo più con una forma acuta di autismo, spinge contemporaneamente la narrazione in uno spazio apolitico che si rifà e si riveste immediatamente di una dimensione politica nel momento in cui riconosciamo della guerra una certezza diventata oggi più che mai vittima: la verità.

    – Perché c’è una guerra, Yasmine?
    – Magari losapessi – mi dice.
    – Ma chi combatte contro chi ?
    – Il governo contro l’Esercito libero.
    – Ma siamo una nazione, Yasmine, perché lo fanno? Perché il governo uccide i siriani? E l’inno nazionale ? Dobbiamo stare uniti.
    – Se solo tutti la pensassero così. La politica è complicata, habibi.
    – Non mi piace la politica. Mi confonde. Perché le persone mentono?
    – Per avidità…
    – Ma noi non siamo avidi, Yasmine, perché allora siamo in mezzo alla guerra?
    – Non possiamo farci niente. Non ti preoccupare, habibi, arriveremo a Damasco e saremo al sicuro per un po’.
    – Quanto dura un po’?
    – Il più possibile Adam.

    Con gli occhi di un bambino, si fa avanti la verità, una delle primissime vittime della rivoluzione siriana fin dai suoi esordi. «E lo sappiamo bene, la verità è sempre rivoluzionaria» [4]. Così un ex prigioniero politico tunisino,agronomo, scrittore e uomo politico di sinistra, Gilbert Naccache, ha concluso il suo intervento alla prima delle audizioni pubbliche sulla tortura dei regimi tunisini del passato e durante la rivoluzione (dal 1955 al 2013) trasmesse alla televisione pubblica tunisina nel novembre 2016. Questo ha costituito un evento storico – e rivoluzionario – che è stato ignorato prevalentemente dai media internazionali e italiani in particolare: un evento storico da cui Paesi come la Siria sono molto lontani. Ma quella verità in uno sguardo infantile e adolescenziale potrebbe ricominciare a riportare sul tavolo le istanze di dignità, libertà, giustizia sociale e democrazia che avevano fatto urlare, cantare, danzare, rischiare, milioni di siriani nel 2011.
    Questo libro restituisce dunque, assieme alla verità semplice della paura e della curiosità, del coraggio e della speranza, un desiderio di umanità e di dialogo. Se questo romanzo, oltre ai numerosi pregi della bella penna di Sumia, ha due imperativi, questi sono ascoltare e dialogare, partendo dalle domande semplici – e talvolta utili a sdrammatizzaree a far ridere Yasmine – di Adam.

    Note
    [1] Nel febbraio e marzo 2016 così come nel febbraio 2017 ed in altri periodi del trascorso anno 2016 si sono svolte diverse manifestazioni pacifiche chiamando alla libertà, ma anche all’unità tra tutti i siriani, contraddicendo non solo la voce che la rivoluzione siriana sarebbe morta, ma anche ribadendo che la rivoluzione non è nata in nome di una settarizzazione del Paese. Inoltre molto spesso queste manifestazioni rappresentavano un puro gesto di solidarietà nei confronti delle città particolarmente colpite, come lo è stata Aleppo nel lungoassedio da luglio a novembre 2016.
    [2] F. Roueiha, “Siria. C’erauna volta un paese” in Osservatorio Iraq, Un Ponte per (a cura di), Rivoluzioni Violate. Cinque anni dopo: attivismo e diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa, Edizioni dell’Asino, Roma 2016.
    [3] L. al-Shami, R. Yassin-Kassab, Burning Country. Syrians in Revolution and War, Pluto Press, London 2016: VIII.
    [4] P. Mancini, “Memoria e verità, il future della Tunisia (prima parte)”, in Tunisia in Redhttp://www.tunisiainred.org/tir/?p=6908.

    __________

    Marta Bellingreri, specializzata in Lingue, Storia e Cultura dei Paesi arabo-islamici e del Mediterraneo, ha vissuto in Siria, Libano, Palestina, Egitto e lavorato in Tunisia e Giordania. Viaggiando, ha scritto racconti, articoli e reportage per L’Espresso, Terre Libere, Il Manifesto, Fortress Europe, Newsweek, al-Monitor, al-Jazeera, Panorama, D di Repubblica. Ha pubblicato Lampedusa. Conversazioni su isole, politica, migranti  (Gruppo Abele, 2013) insieme alla sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, e Il sole splende tutto l’anno a Zarzis (Navarra, 2014). Ha partecipato al film documentario Io sto con la sposa (2014) e lavorato come assistente alla regia per Sponde (2015) di Irene Dionisio. Nel marzo 2017 terminerà il dottorato in Cultural Studies all’Università di Palermo per la cui ricerca ha vissuto due anni in Giordania.
  • Articolo senza titolo 7711

    La Mecca-Phuket di Saphia Azzedine

    di Gianluigi Bodi per Senzaudio

    Quando ho iniziato a leggere questo libro la prima cosa che è affiorata sulla punta della lingua è stata: che voce originale ha questa narratrice!
    Quando ho terminato il libro, in realtà poche ore dopo visto che mi sono lasciato trasportare dalle pagine, non ho potuto che confermare quella prima sensazione quasi istintuale.
    Con “La Mecca-Phuket” Saphia Azzeddine ha scritto un libro davvero molto interessante in cui i personaggi spiccano per originalità e i dialoghi disegnano ogni volta delle parabole sempre diverse.
    Fairouz, la giovane protagonista di questo libro, ha un carattere spigoloso e fatica a piegarsi alle tradizioni consolidate. Semplicemente, ciò che è deciso, per lei non ha interesse. Si muove su una linea sottile tra tradizioni familiari e voglia di integrazione. Abita nelle Banlieu parigine, vive la stessa vita che vivono tanti ragazzi nella sua condizione eppure la dignità che sprizza dalla sua persona è accecante. Sembra quasi di vederla affrontare il prossimo con lo sguardo aguzzo di chi non ha voglia di sottostare a regole che non sente proprie. Attorno a lei i genitori, ancorati ad un retaggio arabo e convinti di non essere degni della città che li ospita, convinti di meritare accondiscenza e sopportazione. Fairouz invece non è così. Lei porta avanti, prima di tutto, sé stessa. Non la propria tradizione, non i retaggi di un passato che le sta stretto. Lei non è ciò che gli altri vogliono che lei sia. E’ dignità, intraprendenza, intelligenza.
    Ma la sua è una vita in bilico tra valori ereditati e valori ai quali tendere. Ed è per questo che la figlia devota decide di regalare un viaggio alla Mecca ai genitori (assieme alla sorella), mentre la figlia che dovrebbe essere Fairouz per assecondare i propri desideri decide di cambiare le carte in tavola. Ed è per questo che il rapporto con il fratello è particolare. Il fratello sembra quasi decidere di essere lo stereotipo che la gente si aspetta che sia. Scansafatiche e dedito a furtarelli che nemmeno riesce a mettere in atto vista la sua inettitudine nel campo. Fairouz invece, da dentro, vede oltre, vede le qualità del fratello, esige che si smarchi dalla macchietta che rischia di diventare.
    Questo è un libro che fa riflettere sull’integrazione da dentro. Non è una morale calata dall’alto. E’ qualcosa che prende vita lì dove la vita deve essere. Saphia Azzeddine ha utilizzato una lingua viva, una lingua che nasce nelle banlieu e mette in comunicazione la strada con i piani alti. Una lingua fresca, se mi passate il termine, in continuo movimento.

    Davvero ottima la traduzione dal francese di Ilaria Vitali. I libro comporta delle insidie linquistiche non di poco conto.

    Saphia Azzeddine è nata ad Agadir nel 1979. Passa l’infanzia in Marocco fino all’età di nove anni, quando si trasferisce con la famiglia in Francia, a Ferney-Voltaire. Dopo la laurea in sociologia, si dedica prima al giornalismo, poi alla scrittura. Esordisce nel 2008 con l’acclamato romanzo Confidences à Allah, adattato a teatro (2009) e in fumetto (2015). Il successo le permette di continuare la carriera di scrittrice, a cui affianca esperienze di attrice (L’Italien, 2010) e regista. Nel 2011 ha adattato per il grande schermo il suo secondo romanzo, Mon père est femme de ménage (2009). Ha oggi all’attivo sei romanzi, incentrati sulla questione dell’identità femminile, tema affrontato con un’ironia graffiante che si tinge a tratti di poesia.
    6 Marzo 2017
    Nella stessa collana:
    Rodaan al Galidi “l’Autistico e il piccione viaggiatore
    Abbas Khider “I miracoli
    Sumia Sukkar “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra
  • Babelmed, 5 marzo 2017

    LA MECCA-PHUKET di Saphia Azzedine

    di Karim Metref

    Nella sua collana “Migrante”, la casa editrice Il Sirente di Roma è uscito un nuovo titolo “La Mecca-Phuketdella scrittrice Franco-marocchina Saphia Azzeddine.

    La Mecca-Phuket è un racconto lungo che cerca di narrare le contraddizioni e il dilemma vissuto da una ragazza di origini marocchine cresciuta in una banlieue povera di Parigi. Dilemma vissuto in modo diverso da molti ragazzi delle banlieues, specie quelli provenienti dalle ex colonie dell’impero francese, divisi tra una società d’adozione che li rigetta e una famiglia d’origine che li vuole tenere attaccati a usi, costumi e valori di terre che loro spesso  hanno frequentato poco o nulla. Usi, costumi e valori dei quali hanno conoscenze molto superficiali e stereotipate. Ed è per questo che quando si arrendono al rifiuto della società francese e decidono di diventare esattamente quello che la maggioranza aspetta da loro, allora diventano una caricatura dell’arabo o ultimamente del musulmano. Dei veri e propri stereotipi ambulanti.

    La protagonista del racconto Si chiama Fairouz Moufakhrou ed è la primogenita di una coppia di marocchini arrivati in Francia con tanta voglia di “integrarsi” e vivere come i francesi. Ma ecco che il sistema coloniale, importato dall’Africa in metropoli insieme a milioni di braccia a basso, dopo il secondo conflitto mondiale, gli respinge nelle banlieue costruite per loro e li forza a stare insieme ai loro simili.

    Un meccanismo che Ahmed Djouder ha ben spiegato in “Disintegrati” : «Uno: ci colonizzate, ci stuprate. Due: approfittate della nostra povertà per ricostruire il paese. Tre: ci rifiutate. Colonizzazione (stupro), immigrazione (deportazione) e disintegrazione (disintegrazione)». (Disintegrati. Ahmed Djouder; Milano; Il saggiatore,2007).

    I genitori di Fairouz fanno quello che possono e soprattutto quello che sanno. Ma la famiglia rimane sempre una “che abita in un appartamento dove bolle sempre la pentola a pressione”. I fratelli e sorelle più piccoli si lasciano trascinare e diventano poco a poco dei perfetti “banlieusards”, sgrammaticati, di poca cultura, che vestono, male e che assumono in pieno i sintomi della loro emarginazione.

    Fairouz invece ha studiato. Ha visto la luce (o almeno qualcosa che ci assomiglia) e vuole tirare i suoi dalle tenebre.  La protagonista, in questo, assomiglia molto all’autrice del libro Saphia Azzeddine.

    Saphia Azzeddine è nata nel 1979 in Marocco. Ci passa la sua prima infanzia poi all’età di nove anni si trasferisce con la famiglia in Francia. Laureata in sociologia, oggi scrive, fa giornalismo e monta spettacoli teatrali ispirati ai suoi lavori. E’ una piccola star del mondo della cultura parigino. Una star che cerca di smarcarsi dai ruoli generalmente riservati agli artisti e agli intellettuali “arabi” in Francia:  “Fanno sempre la parte dei guastafeste, rabbiosi dal sangue caldo, intellettuali con cui non si scherza, laici demagoghi o rapper analfabeti.”

    In realtà in questa descrizione Saphia/fairouz dimentica una categoria: il comico-beur. “Beur”  è la parola “arabe” rovesciata in “verlan”, il linguaggio delle banlieues, e che si danno i ragazzi di origine nordafricana. La figura del comico-beur appare sul palcoscenico negli anni 80 con l’artista Smaïn Faïrouze conosciuto come “Smaïn”,(https://fr.wikipedia.org/wiki/Sma%C3%AFn). In seguito la figura del comico-beur fa scuola e si moltiplica con vari altri artisti tra cui il più conosciuto è Djamal Debbouze (attore presente in molte commedie francesi: “Il favoloso mondo di Amélie”, “Asterix e Obelix”… https://it.wikipedia.org/wiki/Jamel_Debbouze). Al punto che, come descritto nell’eccellente “Allah superstar” di YB (Allah superstar.  Y. B.  Torino : Einaudi, 2004), fare il comico-beur diventa come la legione straniera, come il calcio e come il Rap, una delle poche possibilità di uscire dal ghetto, senza passare per la criminalità.

    Questa figura fa scuola a tal punto che impregna non solo il mondo del cabaret ma anche il cinema, il teatro e poi anche la letteratura. Ed è in questa nicchia di mercato che vanno ad iscriversi i lavori della Saphia Azzeddine. Lei a dir il vero fa parte di una nuova categoria, che però deriva sempre da quella prima, io la chiamerei lo “scrittore-non-beur”.

    Il comico-beur usa in prima persona il linguaggio povero e sgangherato dei ragazzi delle banlieue. Lo  scrittore-non-beur, fa parlare in quella lingua quelli che per lui sono “sfigati” e poi risponde dando lezioni di lingua e di savoir-vivre in un francese perfetto. Per dire: guardate che io ho studiato. Lo scrittore-non-beur insomma è una specie di comico-beur che passa il suo tempo a dimostrare che lui/lei non è un comico-beur.

    E di fatto Fairouz (e probabilmente anche Saphia)  trova patetico e vergognoso tutto quello che riguarda la vita della sua comunità: i beurs-banlieusards. Sogna di uscire dalla sua periferia, fare carriera (poco importa come e dove), avere un sacco di soldi, consumare veri prodotti di lusso – e non le cianfrusaglie e le marche taroccate che la sua famiglia compra abbondantemente al mercato del quartiere-, insomma diventare una “bourge” bianca.

    Tipo  Jeane,

    Jeanne (…) ha una superba cucina color tortora e guscio d’uovo (,,,). Era un cliché seducente. I capelli, il look, il suo bimbo, il suo appartamento, mi ritrovavo davanti il più bel cliché del mondo. Slanciata, capelli vaporosi, caviglie esili, vita sottile, pelle di pesca e culo da namibiana. Le stava bene tutto (un tutto fatto di lino e cachemire)”

    Ma lei rimaneva Fairouz. Fairouz Moufakhrou per di più. Un nome da star libanese appesantito però da un cognome di contadini del profondo sud Marocchino.

    “Fairouz Moufakhrou fa tanto arabo che cerca di avere un po’ di cultura ascoltando grande musica, ma a dire la verità preferisce le gnawas e Cheb Khaled, uno che va pazzo per il sintetizzatore credendo che sia un pianoforte e che pensa che sia bello appendere alle pareti dei tappeti con sopra dei leoni. Ecco che cosa suggerisce il mio nome, una sfigata che abita in un appartamento dove non cambiano mai l’aria e che è stata cullata per tutta l’infanzia dal rumore della pentola a pressione!”

    Il sogno di Fairouz è però ostacolato dal suo amore per la famiglia e dal senso di dovere che ha in quanto primogenita di occuparsi di tutti. Tutta una famiglia di poveracci che soffre di miseria congenita al seguito non aiuta a fare strada nella spietata società francese. Ma ciò nonostante lei non si tira indietro. Sogna di obbligare il fratello e le sorelle a parlare correttamente e di piazzarli in buone posizioni socio-professionali. Per i genitori decide di realizzare un sogno di lunga data: il pellegrinaggio alla Mecca. Desiderio non dettato da qualche particolare devozione religiosa o dalla voglia di viaggiare, ma semplicemente dalle pressioni sociali: se sei immigrato in Francia, con figli come si deve, allora devi fare il pellegrinaggio e aggiungere il prefisso Hajj al tuo nome. Non puoi rimanere un Mohammad qualunque ma devi -proprio devi- diventare Hajj Mohammad. Se non lo sei sei un fallito e basta. E Fairouz questo lo sa e non vuol far fare ai suoi genitori la figura dei falliti presso i loro simili, essendo loro già falliti per definizione per la società di maggioranza.

    “Loro vincevano senza volere e io perdevo per dovere. Al loro ritorno, li avrebbero onorati con un pontificante hajj o hajja accanto al nome. Finalmente avrebbero potuto andare in giro a testa alta. In fin dei conti non c’era nient’altro che contasse.”

    Con l’aiuto della sorella, e qualche volta del fratello -un fannullone che passa il suo tempo, con i suoi amici, altri perdenti di periferia, a sognare e combinare piani fallimentari- Fairuz apre un conto presso l’agenzia di viaggi del Signor Oughidour specializzata in pellegrinaggi e poco a poco raccolgono la somma necessaria per mandare i due anziani alla “casa di Dio”.

    Fairouz si arrende quindi non alla fede ma al consumismo e all’ipocrisia religiosa di una società franco-maghrebina che non tiene delle culture d’origine e di quella francese che gli aspetti più superficiali: i soldi, i beni di consumo, le apparenze, il conformismo…

    Ma mentre fa il suo percorso dai mille ostacoli per raggiungere la sostanziosa somma necessaria per il progetto, la vetrina di un’altra agenzia attira la sua attenzione. Una agenzia “normale”, che vende pacchetti vacanza, esotismo pronto al consumo e abbronzature garantite su spiagge da sogno: Phuket, la Mecca della società di consumo, è in promozione!

    Mano a mano che si svolge il racconto, le cose diventano sempre più complicate e stressanti per la povera Fairouz. Non è facile da sola salvare dalla mediocrità tutta una compagnia di persone che tutto sommato non vogliono essere salvate. E più il fratello, le sorelle e, soprattutto, i genitori perseverano sulla “via sbagliata” e più lei perde entusiasmo per il pellegrinaggio finto-religioso e si sente più attratta dal pellegrinaggio finto-lussuoso. A quale divinità dell’avere e dell’apparire devolverà Fairouz il suo modesto obolo? Al dio vestito di gellaba marocchina e con un rosario in mano?  O a quello in bikini e che nella mano tiene un cocktail alla frutta?

    Per saperlo vi tocca leggere il leggero ma divertente libro di Saphia Azzeddine fino alla fine. Io non dico più niente. “Wallaladim”, come si dice nelle banlieue.

  • Spazio alla redazione con un contributo di Peter de Kuster

    Spazio alla redazione con un contributo di Peter de Kuster

    The Heroine’s Journey of Chiarastella Campanelli

    di Peter de kuster 

    What is the best thing that I love about my work?

    Invent projects I believe in and be able to realize them

    What is my idea of perfect happiness?

    Living in the present rejoicing each instant without thinking of the moment after

    What is my greatest fear?

    Stop dreaming

    What is the trait that I most deplore in myself?

    Don’t believe enough in myself

    Which living persons in my profession do I most admire?

    I appreciate various people for the strength and the passion they put into their work such as Saphia Azzeddine, the author we have just published, in perfect balance in her art and in its realization as a woman.

    What is my greatest extravagance?

    Take the time off and relax

    On what occasion would I lie?

    If it is necessary to keep calm those around me

    What is the thing that I dislike the most in my work?

    The human factor when organizing events and authors deny their presence.

    When and where was I the happiest, in my work?

    In my office last year when we found out to have been selected by the European Union for the literary translation project, and I was the one who created the project.

    If I could, what would I change about myself?

    Mood swings

    What is my greatest achievement in work?

    Managed through my work to influence the publishing panorama of my country with our publications.

    Where would I most like to live?

    Happy with my family in any place

    What is my most treasured possession?

    The ability to dream, to have passion, to find the beauty in everything, plan and be skilled in public relations.

    What is my most marked characteristic?

    Being a little naïf and genuine

    What is my most inspirational location, in my city?

    The sights like the garden of orange trees or climbing on the many church towers and see my city from above. Rome is the Eternal City, but the inspiration is always within us.

    What is my favourite place to eat and drink, in my city?

    La Madia a small bar in the Torrino area (Rome)

    What books influenced my life and how?

    “La coscienza di Zeno” that I read when I was 16; it made me realize that it is human to have weaknesses.

    Who are my favorite writers?

    Italo Svevo, Pier Paolo Pasolini, Orhan Pamuk, Susan Vreeland.

    Who is my hero or heroine in fiction?

    Marcello Mastroianni

    Who are my heroes and heroines in real life?

    People who have energy and know how to transmit it.

    Which movie would I recommend to see once in a lifetime?

    “Blade Runner” and “8 e ½”

    What role plays art in my life and work?

    Art is the focus of my life.

    Who is my greatest fan, sponsor, partner in crime?

    Festivals and Book Fairs.

    Whom would I like to work with in 2017?

    Santa Maddalena Foundation and some foreign publishers for children who develop certain issues related to fairy tale and art.

    Which people in my profession would I love to meet in 2017?

    All our authors

    What project, in 2017, am I looking forward to work on?

    Start to open the way for new publishing projects. Open our catalogue to publications for children with a ‘Waldorf line’, to dream and bring to life the most remote part of the soul.

    Where can you see me or my work in 2017?

    Mediterraneo Downtown Festival (Firenze, Prato 5-7 May) Salone del Libro di Torino (Torino, 18-21 May) Festival Nues (Cagliari, November 2) Più Libri Più Liberi (December, Rome).

    What do the words “Passion Never Retires” mean to me?

    The passion is the base that supports ideas.

    Which creative heroines should Peter invite to tell their story?

    The writer Selma Dabbagh in publication for our publisher for September 2017 (il Sirente / Altriarabi Migrante series)

  • Accaparlante, 26 febbraio 2017

    Accaparlante, 26 febbraio 2017

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    “La città è in macerie, ora ci hanno tolto tutto e l’unica cosa che ci rimane sono i Pilastri della Fede […] non c’è un centimetro pulito sui nostri corpi. Abbiamo i vestiti strappati e non ne possediamo altri, ogni giorno camminiamo per strada in cerca di aiuto. Non abbiamo più le scarpe e le piante dei piedi cominciano a spaccarsi. Fa veramente male, quando camminiamo per tanto tempo in cerca di un novo posto dove stare […] Ho passato tutta la notte con la voglia di grattarmi e non sono riuscito a dormire. Nella mia testa continuavano a scorrere scene da libri che ho letto. Volevo alzarmi e dipingere, ma non avevo nessun posto dove farlo [non c’è più colore ad Aleppo. Tutto è grigio, anche noi”. Adam ha quattordici anni e la sindrome di Asperger, vive ad Aleppo con il padre, la sorella e tre fratelli più grandi. Quando scoppia la guerra la sua famiglia, come tante altre, ne viene travolta e lui cerca rifugio nella pittura che gli permette di dar voce ad emozioni e paure che non saprebbe esprimere diversamente. Sumia Sukkar, attraverso la voce innocente di Adam, racconta il conflitto siriano da cui il suo popolo è stato travolto, spesso senza capire cosa stava accadendo.

    di Annalisa Brunelli, Accaparlante, 26 febbraio 2017

    Recensione del libro “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar. Tradotto dall’inglese da Barbara Benini.

  • L’autistico e il piccione viaggiatore

    L’autistico e il piccione viaggiatore

    L’autistico e il piccione viaggiatore

    “Geert tolse l’etichetta e mise il violino rotto sul tavolo. Studiò con attenzione le varie parti e lo spazio tra esse, attraverso il quale il suono si era propagato per oltre due secoli. Non pensò, come avrebbe fatto un vero costruttore di violini, al tipo di legno o alla tecnica con cui era stato assemblato, ma a quello spazio. Per lui il legno che lo circondava era il violino e lo spazio la musica”. Fin da piccolissimo, Geert ha dimostrato di non essere un bambino come gli altri, prende tutto alla lettera e ha difficoltà nelle relazioni sociali. La madre gestisce un piccolo negozio dell’usato dove Geert trascorre le notti ad assemblare fra loro gli oggetti più disparati e a riflettere sul loro possibile utilizzo. Quando trova un violino in pezzi, di cui ignora l’enorme valore, prova a ricostruirlo e lo fa in modo totalmente nuovo e originale. Non si renderà mai conto di quanto siano preziosi gli strumenti che è in grado di realizzare ma questa attività e il successivo incontro con un piccione che, nonostante i suoi tentativi di regalarlo, torna sempre da lui, gli cambieranno la vita.

    Annalisa Brunelli, Accaparlante, 19/02/2017

    Recensione del libro “L’autistico e il piccione viaggiatore” di Rodaan al Galidi, traduzione dall’olandese a cura di Stefano Musilli.

  • Articolo senza titolo 7683

    “La Mecca-Phuket” di Saphia Azzedine, giovane franco-marocchina ritrae il suo ambiente con lucida ironia

    di Cristiana Missori, ANSAmed, 13/02/2017

    ”L’ascensore era spesso in panne ma i chiacchiericci trovavano sempre il modo di gironzolare da un piano all’altro. Di me dicevano che ero una sfrontata, di mia sorella che era una ragazza per bene e di mia madre che lasciava troppo grasso nel tajine di montone. Mio padre, tutto sommato, lo risparmiavano, anche se era l’unico di tutto il palazzo a non essere ancora hajj, il che lo tormentava. Perché i miei genitori avevano un’unica ossessione: fare il pellegrinaggio alla Mecca”. Il palazzo è quello di una banlieue parigina, il racconto, è quello di Fairouz, figlia di immigrati marocchini in Francia, che combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini.

    Insieme a una delle sue sorelle minori, Kalsoum, decide di raggranellare la somma necessaria per regalare ai suoi genitori devoti il sogno di una vita: il hajj. A narrare la sua storia, è Saphia Azzeddine – giovane autrice franco-marocchina – che in La Mecca-Phuket (in uscita a fine febbraio nelle librerie per la collana Altriarabi Migrante de Il Sirente, pp. 130 Euro 15), compie un affresco molto ironico, a tratti irriverente e divertente, di quel che accade nell’edificio in cui vive la sua protagonista.

    Stretta fra la voglia di vivere laicamente le sue origini arabo-musulmane: ”ero quello che si chiama comunemente una musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno”, annuncia Fairouz in una delle prime pagine del libro. ”Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continuamente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti”.

    Altrettanto lucida quando descrive i difetti della sua comunità di origine: ”Sembra che. Ho sentito dire che. Poi la gente dirà che. Ecco più o meno quello che rovina le società arabo-musulmane in generale e il mio palazzo in particolare. Abitavo in un casermone in cui i pettegolezzi facevano da fondamenta e il cemento da cervello (…). La megera del nono aveva riferito a mia madre (per il suo bene) quel che si diceva nelle alte sfere del palazzo. Una macchina nuova era proprio necessaria prima di adempiere a un dovere islamico? Quelle maldicenze tormentavano i miei poveri genitori che fingevano di fregarsene”.

    Saphia Azzeddine, nata ad Agadir nel 1979, ha all’attivo sei romanzi. Da quello di esordio, Confidences à Allah (2008) sono stati tratti una pièce teatrale e un fumetto.

  • Arriva “La Mecca – Phuket”

    “La Mecca – Phuket”  in anteprima  al Festival del Libro di Firenze

     “La Mecca – Phuket” di Saphia Azzedine in anteprima per voi allo stand de il Sirente a Libro Aperto, Primo Festival del libro a Firenze (17 – 19 febbraio Fortezza da Basso, Firenze).

    Per chi invece non passa per Firenze lo troverete a fine febbraio nelle migliori librerie.

    Un libro per vincere qualche stereotipo sul mondo arabo-islamico, con un’ironia graffiante e un linguaggio spezzato, tipico del migliore argot banlieusard, vi ritroverete catapultati nelle banlieue parigine, dove navigando tra intelligenza pratica e stupidità teorica, Fairouz, figlia d’immigrati marocchini in Francia, combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini. In modo nervoso ma efficace, saprà riappropriarsi della sua vita, muovendosi tra quel che le ha trasmesso la famiglia e quello che si profila all’orizzonte. All’orizzonte, oltre la Francia, c’è la Mecca… ma dopotutto, perché non Phuket?

    Di pochi giorni fa la notizia di un paventato ritorno dello spettro della violenza nelle banlieue, ecco cosa ne pensa Fairouz protagonista del libro “La Mecca-Phuket”.

    Credevo in Dio. Facevo il ramadan. non mangiavo maiale. non bevevo alcool. Ero vergine. non sparlavo. Cioè, solo un po’. Ero quello che si chiama comunemente una musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno. Ci tengo a precisarlo, perché visti da lontano si ha l’impressione che oggi i musulmani rompano le palle, sempre, continua- mente e a tutti quanti. Quando non bruciano le macchine, bruciano le donne, quando non sono le donne, sono le sinagoghe e quando non sono le sinagoghe, se la prendono con le chiese, i musei e i neonati. Ma Dio è misericordioso, la Francia molto clemente e il musulmano abbastanza filosofo, in fin dei conti.

    A volte, venivano nel mio quartiere squadre di giornalisti in cerca di scoop circondati da guardie del corpo per rendere conto della minaccia islamico-integralista-estremista-oscurantista-salafita-wahabita, in soldoni per intervi- stare qualche coglione con una tunica bianca, ignorando coscienziosamente dei ragazzi ancora sulla retta via ma che non avrebbero tardato a cedere per non essere stati appoggiati da nessuno. Impedivo a mio fratello di prenderli a sassate con i suoi amici quando li vedeva arrivare con l’aria fraterna. Ma in realtà gli impedivo soprattutto di farsi prendere o di far casino, in modo che capissero che era troppo venire a servirsi a casa nostra e poi non dividere alla fine del mese. Gli spacciatori perlomeno hanno la decenza di far mangiare tutto l’indotto, dal coltivatore al palo. Dopo il loro reportage abietto, avevano la coscienza talmente sporca che si redimevano con un documentario sdolcinato in seconda serata (“Dr. House” non si tocca, non scherziamo) sui “ragazzi di banlieue che ce l’hanno fatta” e le “ragazze di origine araba che non si sottomettono”.

    Traduzione dal francese di Ilaria Vitali, “La Mecca-Phuket” di Saphia Azzedine

     

  • Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    E’ arrivata la seconda ristampa de “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”, Disponibile nelle migliori librerie

    Festeggiamo con l’ultima recensione apparsa su Leggere:tutti

    «Perché c’è una guerra, Yasmine?» si chiede Adam, il piccolo protagonista del romanzo d’esordio di Sumia Sukkar “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”, pubblicato nella versione italiana dall’editore il Sirente.

    Una storia fatta di colori. Quelli che Adam utilizza per fissare alcuni momenti della sua quotidianità su tele delle quali si mostra particolarmente orgoglioso, ma altrettanto geloso, al punto da mostrarle solo a chi è degno della propria considerazione. Colori che, nella mente del protagonista, hanno una consistenza, un suono, un sapore.

    È questo, infatti, un romanzo da leggere utilizzando tutti i sensi: se la vista è rapita dalla tavolozza di colori che caratterizza l’intera storia, l’udito è stimolato dal suono lontano delle armi che devastano, giorno dopo giorno, la città di Aleppo o dal continuo sof are di Liquirizia, un gatto randagio che diviene parte integrante della vita quotidiana di Adam. Il gusto, invece, ha il sapore dolce del miele, che per giorni diviene l’unica fonte di sostentamento di un’intera famiglia, o quello acre degli avanzi rimediati in un bidone dell’immondizia. All’olfatto è af data la possibilità di riconoscere la propria sorella Yasmine, completamente cambiata nel corpo e nello spirito, dopo un periodo di detenzione tra le mani di spietati aguzzini, che non si fermano nemmeno davanti alle urla disperate di donne ridotte in n di vita. Infine, è il ricordo di ciò che si poteva s orare o tenere stretto, l’esperienza tattile di Khaled, uno dei fratelli maggiori di Adam, cui toccherà la dolorosa umiliazione di vedersi privato delle mani.

    Il punto di forza di questa storia sta senz’altro nei protagonisti: Adam, piccolo narratore di questa storia, fa dell’ingenuità quella caratteristica che permette al lettore di accettare ogni cosa senza storcere il naso. Yasmine, sorella maggiore e, di fatto, madre di Adam per necessità, è un personaggio che cresce rapidamente, con lo scorrere delle pagine. Da ragazza innamorata, diviene una donna matura in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza af dandosi alla propria tenacia, senza troppo badare alle cicatrici che le ha lasciato addosso l’ennesima guerra insensata.

    Khaled, Isa, Tareq, Baba e Amira sono i gregari perfetti di una squadra allestita sapientemente per accompagnare il lettore in una storia dai contorni onirici, ma con una fortis- sima componente di veridicità.

    Un romanzo che parla della guerra con gli occhi incantati di un bambino, che non smette di dipingere e di percepire i colori.

    Paquito Catanzaro Leggere:Tutti
    SUMIA SUKKAR

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    Il Sirente, 2016
    pp. 268, euro 15,00

  • Anna Teresa, “Tea Time Translation” (25 gennaio 2017)

    Anna Teresa, “Tea Time Translation” (25 gennaio 2017)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    di Anna Teresa, “Tea Time Translation” (25 gennaio 2017)

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia Sukkar“Mi siedo sul pavimento vicino a Yasmine e baba e penso a come siamo arrivati a questo. Le nostre vite procedevano secondo una routine perfetta, in cui mi trovavo proprio bene, ma ora non so più chi siamo, né cosa stia succedendo. Per via della guerra ho così tante incertezze in testa, come un nuvolone grigio in attesa di scrosciare e tuonare giù. Io non voglio che mi tuoni addosso.”

    Da leggere con una tazza di karkadè, rosso come il colore amato da Adam, che rappresenta Yasmine, ma anche come il sangue, protagonista onnipresente della guerra.

    Durante il Pisa Book Festival 2016, alla presentazione del suo romanzo, l’autrice Sumia Sukkar spiegava che la scelta di scrivere questo libro è stata guidata dalla volontà di dare un volto, una voce e una storia ai siriani coinvolti nella guerra che ha stravolto il loro paese e di risvegliare i lettori da quella sorta di assuefazione per cui, ormai, quando scorrono in TV le immagini di bombe, guerra e attentati provenienti dalla Siria non ci si stupisce più.

    Sumia Sukkar, nella versione italiana con il magistrale aiuto della traduttrice, Barbara Benini, trascina il lettore in una Aleppo agli albori della guerra, dove la famiglia di Adam, quattordicenne affetto da sindrome di Asperger e appassionato di pittura, conduce una vita quotidiana simile alla nostra, con il padre e i fratelli più grandi che vanno a lavorare e Adam che frequenta la scuola, raggiungendola a piedi da solo ogni giorno, a dimostrazione di quanto la città sia tranquilla. In un attimo, ci si immerge nella storia, la famiglia di Adam potrebbe essere la nostra, cenano insieme, alla TV guardano quegli stessi film americani che passano sui nostri schermi. Ma ad Aleppo qualcosa che Adam non capisce sta accadendo, si parla di libertà e ribellione, e in un vortice irrefrenabile arriva la guerra, che Adam non comprende, ma che anche gli adulti sembrano capire poco.

    “Non so nemmeno perché ci sia una guerra. Perché c’è una rivoluzione? Perché stanno portando via la mia famiglia? Che cosa è successo mentre dipingevo e andavo a scuola? Perché improvvisamente parlano tutti di politica, mentre prima si parlava solo di arte, moda, religione e viaggi?”

    Non si sa più chi sono gli amici e chi i nemici, perché la violenza si diffonde prepotente, fino a far diventare abituali scenari da film splatter, pieni di sangue e parti di corpi umani.

    Sebbene in qualche capitolo la prospettiva cambi, per mostrare lati più oscuri della tragedia che si sta svolgendo in Siria, la maggior parte della narrazione proviene dallo sguardo innocente di Adam che, attraverso la sua malattia, ha il dono di vedere il colore di persone ed emozioni: Yasmine “normalmente è rosso rubino”, “Kahled è arancione, Tareq ha il colore delle foglie di tè e Isa è verde”. Solo la distruzione e la disperazione totale lo porteranno a vedere nient’altro che grigio.

    Di solito, quando un libro mi piace, è perché mi arricchisce in qualche modo e cerco di consigliarlo a tutti perché vorrei che anche gli altri ne fossero altrettanto arricchiti. In questo caso, credo proprio che si tratti di un testo fondamentale per il lato umano di ciascuno di noi e per guardare il disastro siriano da una prospettiva diversa. Consiglio a tutti di leggerlo, perché dobbiamo cercare di restare umani.

    Dopo aver letto Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra, riesco a capacitarmi ancora meno del fatto che l’autrice lo abbia scritto a soli 21 anni. Gli argomenti trattati, dalla guerra siriana alla sindrome di Asperger, e il modo in cui la scrittrice ne parla lasciano a bocca aperta.

    Quando la storia finisce, la mente vola subito all’attualità di Aleppo, dove la guerra non si è ancora fermata e i bambini sono costretti a vivere situazioni terribili come quelle narrate da Adam. Sumia Sukkar ha ragione a cercare di sensibilizzare chi ha la fortuna di essere lontano da tutto questo dolore e l’incoscienza di non capire che, al di là della distanza geografica, siamo uguali, a prescindere da quale sia la nostra religione, pelle o nazionalità.

    Come ha scritto Francesca Paci su La Stampa, “chiuso il libro resta la Storia, difficile fare ancora finta di niente”.

    Leggete anche voi Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra e fatemi sapere quali sono le vostre impressioni. Per chi è della zona, giovedì, 2 febbraio, ne parleremo al circolo di lettura IL SOGNALIBRO presso la Libreria Mondadori di Sarzana. Vi aspetto lì!

  • La Mecca-Phuket di Saphia Azzedine presto in libreria

    La Mecca-Phuket un romanzo di Saphia Azzedine

    A febbraio in libreria!

    “C’è un giorno, quando si è bambini, in cui si salta la corda per l’ultima volta, in cui si gioca per l’ultima volta a mosca cieca, e non si sa ancora che sarà l’ultima. nessuno si ricorda della sua ultima partita a palla avvelenata, arriva senza preavviso. In quel momento, stava succedendo la stessa cosa: ignoravo che quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrei accettato di sacrificarmi…”

    Arriva “La Mecca-Phuket“, quarto titolo della collana Altriarabi Migrante, questa volta siamo in Francia, nella banlieue di Parigi. Navigando tra intelligenza pratica e stupidità teorica, Fairouz, figlia d’immigrati marocchini in Francia, combatte ostinatamente contro se stessa per emanciparsi dalle sue origini. In modo nervoso ma efficace, saprà riappropriarsi della sua vita, muovendosi tra quel che le ha trasmesso la famiglia e quello che si profila all’orizzonte. All’orizzonte, oltre la Francia, c’è la Mecca… ma dopotutto, perché non Phuket?

    “Saphia Azzeddine ci offre la sua ricetta di convivenza tra culture, condividendo la sua saporosa riflessione su questioni oggi cruciali in Francia e anche in Italia: l’identità nazionale, l’appartenenza, il futuro delle seconde generazioni.” Sapientemente tradotto dal francese da Ilaria Vitali che ha curato anche la nota introduttiva, ” ‘La Mecca-Phuket’ racconta di una generazione in bilico tra vecchi e nuovi mondi, alla ricerca della propria strada.” “Per raccontare la propria indocile realtà, la generazione di Saphia Azzeddine ha creato nuovi codici linguistici, sincretici e polifonici. È nato nelle banlieue disagiate un singolare linguaggio in codice con funzioni di riconoscimento identitario e generazionale, definito “argot des cités”.”

    Le illustrazioni dei libri della collana Altriarabi Migrante sono a cura di Paola Equizi, che ha svolto un singolare lavoro di grafica in accordo con l’editore. Curando anche l’immagine del frontespizio in cui appare sempre abbinata un’immagine relativa al paese d’origine e un’immagine legata al paese di accoglienza. In questo caso un tajine sta cucinando lentamente i suoi cibi prelibati placidamente vicino al fischio vigoroso e dinamico di una pentola a pressione.

    Saphia Azzeddine
    Saphia Azzeddine

    Saphia Azzeddine è nata ad Agadir nel 1979. Passa l’infanzia in Marocco, all’età di nove anni, si trasferisce con la famiglia in Francia. Dopo la laurea in sociologia, si dedica prima al giornalismo, poi alla scrittura. Esordisce nel 2008 con il romanzo Confidences à Allah, da cui è stato tratta una pièce teatrale e un fumetto. Il successo le permette di continuare la carriera di scrittrice, a cui affianca esperienze di attrice e regista. Ha oggi all’attivo sei romanzi, incentrati sulla questione dell’identità femminile, tema affrontato con un’ironia graffiante che si tinge a tratti di poesia. In traduzione italiana Mio padre fa la donna delle pulizie (Gliulio Perrone Editore 2011).

    Selezionato come progetto di traduzione letteraria con il bando Europa Creativa, Altriarabi Migrante raccoglie le opere di giovani e talentuosi autori europei con origini arabe. Nella stessa collana sono stati pubblicati “l’autistico e il piccione viaggiatore” di Rodaan al Galidi, “I miracoli” di Abbas Khider e “il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar.

  • Maria Emilia Piccone, “Leggere a Lume di candela” (20 gennaio 2017)

    Maria Emilia Piccone, “Leggere a Lume di candela” (20 gennaio 2017)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    Voci da mondi diversi

    di Maria Emilia Piccone, “Leggere a Lume di candela” (20 gennaio 2017)

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarEra il 2012 quando la città di Aleppo, in Siria, iniziò ad essere al centro della guerra civile fra forze governative e ribelli. Adam, “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra“, rappresenta tutti noi che viviamo lontani e siamo ignari delle cause che hanno scatenato la guerra, che facciamo fatica a capire. Anche Adam non capisce: ha quattordici anni ma non si comporta e non si esprime come un suo coetaneo. Sembra più infantile, ci dice lui stesso che sente dire di sé che è ‘strano’ e che i compagni di scuola lo prendono in giro per questo e lo lasciano in disparte. E’ il più giovane in una famiglia numerosa- ha tre fratelli e una sorella. Ed è la sorella Jasmine che si prende cura di lui dopo che la mamma è morta. Adam non vuole essere toccato, non vuole che il suo cibo sia mescolato a quello di altri e ha una passione per i colori. Anzi, ha una predisposizione per il disegno e la pittura, riesce ad esprimere nei suoi quadri quello che ha dentro di sé e mai riuscirebbe a comunicare con le parole-sono i colori che gli danno la chiave di accesso della realtà. Jasmine è rosso rubino per lui- e il rosso è un colore di forza vitale e d’amore. Prima dell’inizio dei bombardamenti l’atmosfera di Aleppo è arancione e azzurro di cielo e di luce e di sole. Anche i libri hanno un colore: Aschenbach, il protagonista di “Morte a Venezia”, è grigio (d’altra parte il grigio della cenere è nel suo stesso nome, anche se Adam non lo sa). Poi cambierà tutto, perché il rosso diventerà il colore del sangue, Adam arriverà a dipingere con il sangue, e il mondo si incupirà nelle tonalità del nero e del grigio e del viola.

      Quello che Sumia Sukkar, nata e cresciuta in Inghilterra in una famiglia siriana-algerina, descrive, è un frammento di guerra, con scene apocalittiche viste attraverso gli occhi di un ragazzino che forse ha la sindrome di Asperger, che si chiede che cosa stia succedendo, chi siano i buoni e chi i cattivi e perché si fanno la guerra? non sono forse tutti siriani? I suoi punti fermi crollano uno dopo l’altro, proprio come gli edifici che si sbriciolano in un grigiore di polvere e macerie- prima un fratello (l’intellettuale che scrive poesie), poi l’altro (ritornerà preceduto da una scena raccapricciante), poi la sorella (sappiamo che cosa attenda una donna catturata durante una guerra, e il velo in testa non è certo uno scudo. Quando riappare, Adam non la riconosce), il padre è precipitato in una demenza precoce causata dal dolore. Soltanto un gattino, salvato dalle rovine, può ricompensare, in parte, Adam per quello che ha perso. La lunga marcia verso Damasco è il cammino della speranza verso la salvezza di un riparo.

    Il romanzo di Sumia Sukkar non ha la pretesa di essere un libro di storia, pare essere un libro scritto di getto, come se la giovane scrittrice fosse rimasta sconvolta nel vedere la distruzione nelle immagini del paese in cui la sua famiglia ha radici. Manca di precisione e alcune delle scene descritte appaiono improbabili (le reazioni di feriti gravissimi in ospedale, il ritorno di un fratello in condizioni che non voglio anticipare ma che sono in contrasto con il suo comportamento troppo naturale). Non viene mai detto chiaramente quale sia la sindrome di Adam ed è meglio così: se non è definita, per il lettore è più facile accettare le discrepanze tra i suoi atteggiamenti. E tuttavia, ciò detto, è un libro che si legge facilmente e che ci avvicina ad un paese, ad una guerra, ad un dramma che non possono lasciarci indifferenti.

  • Il Silenzio e il Tumulto di Nihad Sirees

    Le Monde Diplomatique, Stefania Pavone

    Nihad SireesLa metafora del tumulto e il silenzio lacera la vita dello scrittore Fathi Shin, dissidente del regime siriano, io narrante del romanzo omonimo percorrendone l’intera vicenda da cima a fondo. Una dicotomia con cui si apre la narrazione: il il tumulto è il fuori, la folla adorante il leader pari al vociare di un’orchestra dissonante nel sogno di Fathi, il silenzio è il luogo degli affetti, della scrittura, dell’amore per Lama, della centralità della figura materna. Tutto inizia in un’estate caldissima: lo scrittore Fathi Shin, bandito dal regime siriano per la critica dissidente dei suoi scritti si agita nel letto. Sono anni che non fa più nulla, preda di un inusitata indolenza. Da fuori gli arrivano gli echi della folla inneggiante il leader per i suoi venticinque anni di potere. Gli intellettuali sono schiacciati dal servilismo, la poesia una caricatura del regime. In mezzo alla disperazione del silenzio cui è stato piegato dalla dittatura si aprono spazi di vita: lo humor graffiante verso il potere e l’amore per Lama caratterizzato da una forte passione sessuale che lo riscatta dalla miseria della sua condizione si fanno zone di resistenza della vita dall’oppressione di un potere grottesco e ineffabile. La storia di Fathi precipita quando la madre decide di sposare il signor  Ha’il, divenuto in maniera grottesca funzionario del leader per averne evitato la caduta a terra a seguito di uno scivolamento nel corso di un comizio. Dopo aver salvato uno studente durante una manifestazione. Lo scrittore viene catturato dai servizi segreti e messo in prigione. La cella è il ritorno del silenzio dopo il tumulto dell’interrogatorio. Fathi Shin si ritroverà davanti proprio il signor Ha’il a chiedergli di diventare uno scrittore del regime. O di morire. Ancora una volta l’alternativa scivola tra il silenzio e il tumulto. Dice Fathi: “cerco di non pensare all’alternativa in cui il signor Ha’il ha voluto incastrarmi, due opzioni una più terribile dell’altra. Non ho che la scelta tra la padella e la brace, non esiste una soluzione intermedia. Perché non mi lasciano solo nella mia solitudine? Che fastidio può dare il mio silenzio al regime? Il tumulto del potere o il silenzio della tomba. Avrei senza dubbio optato per il secondo ma so perfettamente che questo nel discorso del signor Ha’il non è che una metafora per indicare qualcosa di ben più tremendo. Ha pianificato ogni particolare in maniera diabolica, coinvolgendo mia madre nel suo piano.“. Ma non ci sarà una soluzione al dilemma del ruolo dell’intellettuale sotto la dittatura. Il romanzo si conclude con un sogno: Fathi assiste allo stupro della madre da parte del signor Ha’il e la vede godere nonostante la violenza esercitata dall’uomo. Un tumulto in cui il silenzio questa volta non può arrivare se non in una risata che Lama e Fathi stendono sulla scena.

    Recensione del libro ‘il silenzio e il tumulto‘ dello scrittore siriano Nihad Sirees, tradotto dall’arabo da Federica Pistono

    Il Sirente ha continuato ad occuparsi di Siria con i seguenti titoli:

    L’autunno, qui, è magico e immenso (Golan Haji)
    E se fossi morto? (Muhammad Dibo)
    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra (Sumia Sukkar)

  • Il romanzo di Sumia Sukkar. Il dramma «a colori» di Aleppo

    Il romanzo di Sumia Sukkar. Il dramma «a colori» di Aleppo

    Adam ha la sindrome di Asperger e a 14 anni dipinge la guerra abbinando cromatismo e dolore. Aspro e delicato romanzo dell’esordiente anglo siriana

    Avvenire, Riccardo Michelucci

    «Non c’è più colore ad Aleppo. Tutto è grigio, anche noi. Lo scontro inaspettato tra il grigio e l’arancione mostra le buie conseguenze di una guerra, ma riflette anche un sottile filo di speranza. Il blu notte intorno alle pupille mi parla, mi dice degli orrori che ha visto. Ci manca un colore più chiaro: il bianco. Il cielo dovrebbe essere dipinto di bianco per prendersi gioco della presunta fine della guerra e mostrare l’ingenuità che resta». Il dramma della Siria prende forma sotto i nostri occhi attraverso la voce innocente e lo sguardo disincantato di Adam, un ragazzino siriano di quattordici anni affetto dalla sindrome di Asperger, che cerca di dare un senso alle proprie emozioni attraverso la pittura. I colori gli servono per descrivere la gente e l’orrore che lo circonda, per cercare di comprendere gli effetti devastanti della guerra sulla vita della sua famiglia e delle persone che gli stanno attorno. Dopo aver ottenuto il plauso della critica inglese, Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra, immaginifico romanzo d’esordio della giovane scrittrice anglo-siriana Sumia Sukkar, viene adesso proposto anche in italiano dalla casa editrice Il Sirente, specializzata in letteratura araba, con la traduzione di Barbara Benini.

    Con un lungo e ininterrotto flusso di coscienza Adam esprime un misto di incredulità e paura, di tenerezza e innocenza. Dipinge la guerra perché «offre infinite possibilità pittoriche» e la sua piccola arte finisce per trasfigurarsi in un estremo atto di resistenza. Ma contrariamente alle apparenze il romanzo non è una favola e quindi non ci risparmia orrori e crudezze. È piuttosto un originale reportage intimista, il tentativo di spiegare le conseguenze della guerra sulla mente di un bambino la cui leggera forma di autismo lo porta a una forte relazionalità affettiva con gli altri, soprattutto con la sorel- la Yasmine, il suo principale punto di riferimento dopo la morte della mamma. Ogni capitolo ha il nome di un colore, persino ai personaggi sono assegnate tonalità e sfumature diverse a seconda della vibrazione delle loro emozioni: Adam vede le persone avvolte da un’aura colorata percependo i loro stati d’animo e i loro sentimenti, mentre la guerra è grigia e copre tutto come uno spesso strato di polvere che rischia di soffocare la nostra umanità. La necessità di comprendere quello che accade attorno a lui lo trasfigura poi nel ruolo di testimone: «Un giorno, quando sarà finita la guerra, avrò i miei quadri per mostrare alla gente cosa stava realmente succedendo. I miei quadri non mentono».

    Sumia Sukkar Pbf_2016

    L’autrice, Sumia Sukkar, spiega di essersi ispirata ai racconti di prima mano ascoltati dai suoi familiari siriani e dagli amici che tuttora vivono in Siria. «In questi casi ci può essere la tentazione di edulcorare quello che sta accadendo – afferma – ma io ho scelto al contrario di raccontare i fatti in tutta la loro drammaticità. Quello che volevo trasmettere era l’oscenità e la crudezza della situazione nella quale si trova attualmente la Siria». Durante la stesura del romanzo Sukkar è stata costantemente in contatto su Skype con una zia che vive a Damasco, e le storie terribili che le ha raccontato sono state poi in parte riversate nel romanzo. «Ho bisogno di dipingere e posso già figurarmi il quadro nella testa – dice Adam –. Due ragazzi giovani sdraiati nell’acqua a gambe e braccia divaricate, liberi, ma con il viso sfigurato, bruciato. Si riesce anche a distinguere dove erano veramente gli occhi e il naso. Sarebbe un dipinto in bianco e nero, con il viso a spettro cromatico. Sarà orribile e meraviglioso allo stesso tempo».

    Il libro deve gran parte della sua originalità proprio alla voce narrante, quella di un quattordicenne che a causa della sindrome di Asperger è dotato di una sensibilità fuori dall’ordinario e dell’intelligenza di un bambino più piccolo della sua età. La sua tenera ingenuità diventa un monito contro l’assurdità di tutte le guerre, come quando sente una folla che acclama Assad e si chiede: «Se stanno dalla parte del presidente, perché allora uccidono la gente del suo Paese?». Oppure quando si affaccia alla finestra di casa sua e gli uomini che vede in strada gli sembrano un dipinto, qualcosa che Salvador Dalì dipingerebbe nel suo famoso quadro Volto della guerra. La giovane scrittrice (aveva appena ventidue anni quando il libro è uscito in Inghilterra) spiega che la scelta si è resa necessaria per rendere più intenso ed efficace l’impatto narrativo della storia.

    È quasi inevitabile tracciare un paragone con il romanzo best seller di Mark Haddon uscito una decina d’anni fa, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Anche in quel caso il protagonista era Christopher, un quindicenne affetto dal medesimo disturbo pervasivo dello sviluppo, costretto ad affrontare fatti tragici con un’emotività al di fuori dell’ordinario. Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra ha però il grande pregio di rappresentare con uno sguardo inedito e sorprendente una delle più terribili crisi umanitarie del nostro tempo, di dimostrare come la fantasia e l’immaginazione possano proteggerci dagli orrori del mondo, e di individuare una speranza per il popolo siriano nella sua fede incrollabile in Dio e nella forza degli affetti. In Gran Bretagna è stato adattato sotto forma di documentario radiofonico passando nel prestigioso Saturday Drama della Bbc e sono già stati acquistati i diritti per la realizzazione di un film tratto dal libro.

    08/01/ 2017

  • Intervista a Sumia Sukkar

    Intervista a Sumia Sukkar

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarQuando incontro Sumia Sukkar al Pisa Book festival 2016 davanti a un caffè sono piuttosto spiazzata dalla ragazza giovane ed elegante che mi guarda da sotto le larghe falde di un impegnativo cappello di feltro. Sumia, classe 1992, è inglese, figlia di padre siriano e madre algerina. Ha studiato scrittura creativa alla Kingston University e il suo romanzo d’esordio ha catalizzato l’attenzione della critica di mezzo mondo.

    Ne Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra hai scelto di trattare l’esperienza più dolorosa che un essere umano possa vivere e di farlo dalla prospettiva incrociata di un ragazzino con la sindrome di Asperger e di colei che se ne prende cura, sua sorella Yasmine. Sei stata ispirata da qualcuno che conosci o questi personaggi sono il frutto di intense ricerche?
    Quando ho iniziato a pensare al libro, lui era solo uno dei personaggi e ho fatto qualche ricerca, per cui sapevo in partenza sapevo che nella mente di una persona malata di Asperger tutto è bianco o nero, non ci sono sfumature. Per documentarmi ho incontrato persone autistiche, ho visitato centri che se ne prendono cura, ma, soprattutto mi sono ispirata al fratello di un mio amico che ha la sindrome di Asperger, l’ho intervistato, osservato, studiato. Man mano che studiavo la sindrome, il personaggio prendeva sempre più spazio nella trama che andavo costruendo nella mia testa, fino diventarne il protagonista.

    Adam in un certo senso è un essere senza pelle: ogni emozione, ogni esperienza impatta direttamente sui suoi nervi scoperti, sulla sua carne indifesa. I colori sono il suo modo di categorizzare il mondo e decifrare le emozioni, l’alfabeto attraverso cui disegna le cose con cui viene a contatto…
    Esattamente! Adam è un ragazzo senza filtri, grezzo, che vive tutte le situazioni per quello che sono, senza mediazioni, è come privo di difese, di pelle, come dici tu, e Yasmine è il solo filtro tra lui e il mondo. Un mondo che lui vede e interpreta con occhi diversi dagli altri, attraverso i suoi dipinti, i colori che dà alle esperienze. È un ragazzo che vive moltissime emozioni ma non sa come affrontarle, esprimerle. È per questo che dipinge tanto, per dare loro voce.

    La casa è per Adam il suo santuario, un luogo dove coltivare le proprie ossessioni. Un luogo in cui sa come muoversi, sa esattamente quante mattonelle saltare, come attraversare con un balzo il tappeto davanti al suo letto, dove non ha bisogno di parlare con nessuno eccetto Yasmine…
    La sua casa è il suo castello, la conosce in ogni minimo dettaglio: l’aspetto del suo letto, il disegno del tappeto, sa su quali mattonelle può camminare, è il luogo in cui si sente più sicuro, che lo protegge da un modo esterno che lo terrorizza, popolato com’è di persone con cui non sa interagire, che non lo capiscono, lo giudicano, lo spaventano. La casa lo protegge e man mano che la situazione fuori si fa più minacciosa, il suo legame con la casa diventa più forte, non vorrebbe mai uscirne e quando lo fa, non vede l’ora di tornarci. Penso che la casa gli ricordi sua madre, la sicurezza, l’amore; la casa lo accoglie come solo le braccia di una madre sanno fare, mentre il mondo esterno è terribile e sconosciuto.

    Quando i pilastri di questo suo rifugio iniziano a scricchiolare e sbriciolarsi (perde Isa, Yasmine scompare, Khaled perde le mani, la mente del suo baba si annebbia) stranamente lui si adatta con sorprendente velocità. È come se nonostante la sua mente confusa lui tirasse fuori una sorta di istinto che lo porta a capire che per sopravvivere al dramma e aiutare i suoi cari deve adattarsi, non trovi? 
    C’è un detto nella religione islamica: “Dio non ti dà nulla che tu non possa affrontare” . Tutto quello che viviamo riusciamo per forza di cose ad affrontarlo. Vale anche per Adam. Man mano che la guerra si intensifica, che la sua famiglia si disintegra, diventa una persona indipendente, che nonostante le limitazione dell’Asperger diventa più capace di affrontare le situazioni, esce dal proprio guscio perché non ha altra scelta dato che quel guscio è ormai distrutto. Impara ad adattarsi per non morire.

    La guerra è generalmente descritta da punti vista maschili e le donne entrano nel quadro solo per l’impatto che essa ha sulle loro vite, ma nel tuo libro fai di Yasmine una protagonista in prima persona, una combattente appassionata che è stata marchiata a fuoco dalla guerra. Perché? 
    La guerra non riguarda mai tutti, non in quanto uomini o donne ma in quanto genere umano, senza discriminazioni di età e di genere. Come femminista penso che i libri oggigiorno non abbiano molti punti di vista femminili ed è anche per questa disparità letteraria che per me è importante mostrare che, invece, anche le donne soffrono e combattono armi in pugno per difendere le proprie famiglie e ciò in cui credono.

    Leggendo il tuo libro si ha l’impressione che ogni singolo dettaglio sia denso di significato, anche quelli tipografici come la scelta delle maiuscole o delle minuscole. È come se la grandezza dei caratteri di ogni singola parola riproducesse il modo in cui quella parola risuona nella mente di Adam. Come mai, ad esempio, hai scelto di usare sempre la minuscola per il nome di nabil? 
    È nabil l’unico vero amico di Adam, l’unica persona al di fuori della famiglia da cui può sempre correre, con cui può sempre essere se stesso. L’uso della maiuscola lo renderebbe una figura più formale, estranea. Nella mente di Adam nabil è come un cuscino, qualcosa su cui si può saltare sentendosi sicuri, protetti, è la sua zona protetta.

    Sei un’immigrata di seconda generazione, nata a Londra da un siriano e un’algerina e questo libro è chiaramente un omaggio alla Siria, Paese di origine di tuo padre. Come ti relazioni con questi Paesi, li consideri anche tuoi? 
    Sono cresciuta in Inghilterra con genitori di nazionalità diverse, eravamo multiculturali, aperti alle influenze inglesi ma conservavamo le tradizioni di entrambi i paesi dei miei genitori. Penso di aver preso molto da tutte e tre le culture, parlo tre lingue e ho imparato che è fondamentale rispettare le diversità nelle persone, valorizzarle. Sono stata cresciuta nella religione islamica ma mio padre ci leggeva anche passi della Bibbia perché essenzialmente le religioni giudaica, islamica e cristiana hanno la stessa origine e insegnano gli stessi principi fondamentali. Religione significa umanità, pace, rispetto.

    C’è un dialogo bellissimo nel tuo libro Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra. Yasmine rassicura Adam dicendo “presto arriveremo a Damasco e saremo al sicuro per un po’ e lui risponde “Quanto dura un po’?” “Il più possibile”. Penso che questo dialogo rappresenti la sintesi perfetta dell’incomprensibile irrazionalità della guerra. L’incapacità del cervello umano che non sa processare l’orrore di cui è testimone…
    Infatti sintetizza i miei sentimenti sulla guerra in Siria. Questa guerra è iniziata 5 anni fa e la gente dice che finirà presto, che tornerà la pace ma quanto ancora deve durare? Quando sarà abbastanza? I siriani hanno dovuto nel corso degli ultimi cinque anni lasciare il loro Paese, trasformarsi in esuli, rifugiati, hanno perso tutto e quelli che sono rimasti sono compressi in aree sempre più piccole, sempre più pericolose, non hanno scelta, vengono uccisi senza poter cercare scampo, senza poter far sentire la loro voce. Non voglio sapere quanto deve ancora durare, quando i morti saranno abbastanza, quanto deve durare un “altro po’”. Questa guerra che è iniziata come una reazione spropositata del regime alla richiesta di riconoscimento dei diritti umani fondamentali da parte del popolo, ormai è solo un grido di aiuto.

    di Lisa Puzella su Mangialibri 11/01/2017

  • Un corpo senza pelle

    Un corpo senza pelle

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra di Sumia Sukkar

    Rosso rubino è il colore preferito da Adam, è il colore che emana da sua sorella Yasmine quando è felice. La sua risata è divertente: è come sbucciare una mela su una superficie bagnata e splendente. Il grigio è il colore della negatività, Gustave Aschenbach di Morte a Venezia pulsa di grigio, deve essere cattivo, il grigio è il colore dei bulli che lo tormentano a scuola. L’arancio mescolato al blu è il terrore negli occhi di qualcuno. Il viola è il colore della morte, il colore che esalava dalla bara di mamma quando se ne è andata. Adam capisce i colori, il loro alfabeto e se ne serve per dipingere il suo mondo, che si riduce alla casa che è anche il suo santuario, un luogo in cui può nutrire le sue ossessioni e dove gli altri le rispettano. Sa esattamente quali mattonelle saltare per arrivare al frigo senza che accada nulla di brutto, sa come saltare dalla soglia di camera sua al letto schivando il tappeto, sa quanti passi a destra fare prima di uno a sinistra, conosce gli umori dei suoi cari: baba, che torna a casa tutte le sere alle 16:48, i suoi Tareq e Khaled con cui non parla mai perché la sua voce si rifiuta di uscire dalla gola, suo fratello Isa e sua sorella Yasmine con cui riesce a comunicare anche se non ama molto farlo. Vive in un mondo governato da regole e abitudini che non riesce a decifrare. Adam non capisce le menzogne: perché le persone, scelgono di raccontare qualcosa che non è accaduto tralasciando invece qualcosa che è accaduto? Adam non capisce le barzellette, ma sa ridere, solo Yasmine e il suo amico e vicino di casa Ali sanno come farlo ridere. Adam non capisce le metafore, ma ne usa a piene mani per interpretare le emozioni. Adam non capisce la guerra: perché qualcuno dovrebbe voler fare del male a qualcun altro, privarlo della vita o delle mani o del suo bambino non nato, o della casa o di tutto questo insieme? Queste cose lo confondono, il verde della malattia lo rattrista e in queste occasioni battere i piedi, dondolarsi, contare, non basta a calmarlo, ha bisogno di tirare l’elastico che ha al polso una, due, mille volte, anche se il rumore infastidisce baba e i segni rossi si fanno sempre più marcati…

    Adam proclama di non capire le emozioni, ma, con l’irrompere della guerra nella sua vita, con l’instabilità crescente dei pilastri che sorreggono il suo mondo, la fuga da Aleppo verso la salvezza a Damasco, la fame, la sete, il dolore, le ferite sue e dei suoi familiari, le perdite, i distacchi temporanei o definitivi che siano, tutta la sua esistenza è scardinata, il blumarino e il bianconeve ‒ i colori della morte e del dolore e della perdita ‒ sono sempre più presenti, ecco che le emozioni gli fluiscono attraverso, gli sferzano la carne, non ha più barriere né pelle per difendersi. Non rimangono che il gatto Liquirizia e un orecchio che nasconde in tasca e tira fuori quando ha bisogno di confidarsi, di riversarci dentro il mare di dolore e confusione che lo soffoca. La sindrome di Asperger de Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra è una parte essenziale del libro esattamente quanto la guerra. Adam racconta se stesso e ciò che gli è esterno attraverso l’unico alfabeto che gli è familiare: i colori; le sue ossessioni sono la barriera di difesa tra un ragazzo che sembra vivere gli eventi attraverso un corpo senza pelle, tutto lo tocca in maniera dolorosa e stordente, il mondo suona le sue note stonate e cacofoniche strimpellando direttamente sulle corde dei suoi nervi. La voce di Yasmine, che si alterna alla sua nel racconto della fuga, è invece potente, stentorea, quasi dolorosamente concreta. È una donna appassionata, una combattente risoluta, che ha pagato col proprio corpo il prezzo della ribellione, che ha rinunciato a molto per amore di Adam e che guiderà tutta la famiglia nella marcia massacrante attraverso il deserto, si prenderà cura di tutti, di Amira e del bambino fantasma che abita nel suo corpo, di Khaled senza mani, di Ali e Adam e Tareq; prende decisioni dure come lasciar andare via verso la salvezza baba malato; ingoia il dolore della perdita di Isa e sopporta le torture e il carcere. Un libro complesso, potente, che affronta due temi difficilissimi con leggerezza e originalità non disgiunte da una profonda capacità di indagine, un testo in cui tutto ha un suo senso e contribuisce a declinare e disegnare le emozioni di Adam e di tutti gi attori di un dramma che da nazionale si fa intimo, personale. Molto significativa è la scelta dell’autrice di non usare le maiuscole per alcuni nomi propri o di usarle in un certo modo per dare forza grafica agli stati d’animo. Nel complesso un bellissimo libro, a partire dalla veste editoriale curatissima impreziosita da una stupenda copertina e da un cameo in prima pagina che sintetizza il tema del libro.

    Mangialibri, Lisa Puzella, 11/01/2016

  • «I miracoli» di Abbas Khider

    «I miracoli» di Abbas Khider

    Khider produce l’affresco lieve, ironico, leggero, speziato al punto giusto di un’odissea

    Un libro che occhieggia invitante dal tavolino davanti al posto accanto al suo, un lungo viaggio in treno attraverso la Germania, un passeggero che non può non sentirsi attratto dal voluminoso plico di fogli con l’ammiccante titolo nella sua lingua di origine “Memorie”. Quando per un fortuito malinteso il plico gli finisce sulle ginocchia gli basta un’occhiata per capire che l’occupante del posto non tornerà a reclamarlo e un attimo per lasciarsi assorbire nella lettura. Hamid Rasul ha affidato alle pagine vergate in incerti tratti a matita la propria vita: la giovinezza in Iraq, le angherie del carcere di regime ad appena diciotto anni, la fuga dapprima in Giordania, poi in Ciad, Libia, Turchia, Grecia, per approdare infine all’agognata ma deludente Europa, arrivando in Germania dopo una sosta obbligata sul suolo italiano. Saranno molte le false partenze che dovrà sopportare prima di giungere in Europa, e, nel corso di ciascuna farà incontri strepitosi, visiterà nuove celle di prigione, incontrerà donne fascinose, vivrà grandi amori, passioni fugaci e intense amicizie, troverà mille espedienti di sopravvivenza…

    I miracoli : Abbas KhiderDi pari passo con i sentimenti ispiratigli dalle molteplici figure femminili che sin dalla prima adolescenza hanno turbato i suoi sogni e occupato i suoi pensieri, procede il più grande degli innamoramenti, quello che lo coglie adolescente e non lo abbandonerà più, accompagnandolo nelle sue peregrinazioni fino al treno su cui un passeggero che si chiama come lui sta leggendo i sui scritti: l’amore per la scrittura, per la poesia. È una frenesia che lo coglie ogni qual volta incontra una nuova donna, o quando la sua vita sta attraversando fasi delicate, è talmente totalizzante da spingerlo a qualsiasi follia pur di procurarsi la carta, che gli è più necessaria del cibo. Inizierà rubando i fogli in cui i suoi genitori commercianti di datteri avvolgono la merce, poi ruberà quelli in cui i vari banchetti del mercato avvolgono il cibo. Scriverà sui muri di tute le celle in cui sarà detenuto, e, quando da esule in Germania la sua paga di 60 euro al mese non gli consentirà di comprarla, ruberà i giornali per scrivere lungo i margini, e poi ne ruberà dei fogli a Sara, la sua fidanzata tedesca, che, alimenta , complice, questa abitudine. Abbas Khider, alter ego del protagonista ha creato ne I miracoli una sorta di gioco di specchi attraverso il quale il passeggero lettore legge la propria storia e la racconta a se stesso e al lettore. Nessuna delle esperienze narrate, però, è mai opprimente o dipinta in toni foschi e melodrammatici. È solo a posteriori che ci si rende conto dell’intensità del dolore, dell’estensione delle privazioni, della profondità delle offese che quest’uomo ha condiviso con i suoi compagni di viaggio, dagli scafati camerieri al piccolo Sherzad, costretto a viaggiare con unico bagaglio la sua storia e dovendo lasciare dietro di sé anche i pochi fogli che di volta in volta riesce a racimolare e riempire. Le condizioni di vita, l’annichilimento di esseri umani costretti a vivere in 20 in una stanza e a sopravvivere cambiando le cassette dei film porno nel retro di un bar malfamato oppure insegnando arabo in un villaggio di montagna del Ciad dove i muri sono misteriosamente ricoperti del suo nome. Il dolore, la sofferenza per le torture, i tentativi falliti di lasciare la Grecia e la Turchia, i compagni di viaggio persi in mare, quelli costretti a pagare con la propria dignità o quella dei loro cari viaggi costosissimi e senza garanzie, tutto viene in qualche modo circonfuso da un alone dolce, profumato come il sentore delle donne che ha incontrato e che lo hanno innamorato, della poesia che torna a ispirare la sua mano ogni volta che un certo sogno di un tempio si ripresenta. La dolcezza di un paio di seni, la classificazione metodica dei posteriori che ha incontrato in tre continenti, fanno sempre da contrappunto a una narrazione che riesce a non far mai perdere il sorriso all’attonito lettore. Khider produce l’affresco lieve, ironico, leggero, speziato al punto giusto di un’odissea che a tratti si fa romanzo picaresco e che lascia sulle dita, quasi palpabile, un aroma di zucchero e cannella, un senso di meraviglia che irretisce il lettore di riga in riga, a partire dalla splendida copertina e dalla grafica concettuale della prima pagina del volume, che, in linea col resto della collana riporta un delicato cameo che riassume bene la storia del suo autore, un tubero sul quale ha attecchito una pianta irachena.

    Recensione del libro I miracoli di Abbas Khider Mangialibri, Lisa Puzella, 11/01/2017

  • La guerra filtrata dai colori di Adam

    La guerra filtrata dai colori di Adam

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra su SuperAbile

    (il magazine per la disabilità)

    Nato con la sindrome di Asperger, il quattordicenne Adam è il protagonista del romanzo Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra (Editrice il Sirente), in cui Sumia Sukkar racconta il conflitto siriano attraverso lo sguardo di un ragazzo a cui non «piace incontrare persone nuove». Proprio perché Adam cerca di esprimere le sue emozioni attraverso la pittura, ogni capitolo prende il nome di un colore, quello che avvolge le persone a seconda dei loro stati d’animo, ma il suo preferito è il rosso rubino, anche se non sopporta vedere il sangue.

    «Ogni tanto uso toni pastello, altre volte forti e accesi», dice il protagonista, che cerca di resistere alla violenza assurda della guerra attraverso l’arte, concentrandosi anche su immagini e suoni. Nel drammatico viaggio verso Damasco, lascerà cadere la barriera del contatto fisico con la sorella Yasmine, in seguito a un bombardamento che li ferisce entrambi. «Guerra significa perdere ciò che ami. Pace è ciò che resta quando finisce la guerra», sintetizza. Britannica di padre siriano e madre algerina, l’autrice Sumia Sukkar ha 24 anni ma ha scritto il suo romanzo d’esordio tre anni fa, dopo aver studiato scrittura creativa alla Kingston University di Londra. Un successo di critica e di pubblico: nel 2014 il riadattamento radiofonico è andato in onda nel programma Saturday Drama della Bbc e sono stati acquistati i diritti del libro per la realizzazione di un film.

    SuperAbile Inail, Laura Badaracchi, Gennaio 2017

  • Reset (Francesca Bellino, 11 gennaio 2017)

    Reset (Francesca Bellino, 11 gennaio 2017)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Reset (Francesca Bellino, 11 gennaio 2017)

    “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” il nuovo libro di Sumia Sukkar

    Quando esplode una bomba per Adam, il giovane protagonista di “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar (Il Sirente, traduzione di Barbara Benini), diventa tutto grigio. Ogni emozione per lui corrisponde a un colore e ogni choc lo spinge a dipingere. Adam vive ad Aleppo, ha 14 anni, è affetto dalla sindrome di Asperger, disturbo dello sviluppo imparentato con l’autismo, ed è sua la voce narrante della storia che Sumia Sukkar, giovane autrice nata a Londra nel 1992 da padre siriano e madre algerina, ha scelto per raccontare la vita di una famiglia siriana nel mezzo della drammatica crisi cominciata nel 2011.

    Un punto di vista originale che enfatizza e potenzia la sensazione di incomprensibilità e di assurdo che si prova di fronte al conflitto siriano e che porta l’attenzione sul mondo dell’infanzia ferita dalle guerre. I bambini siriani, infatti, come sottolinea anche l’autrice “si sono svegliati improvvisamente un giorno e si sono trovati adulti, perdendo una parte essenziale dell’esperienza della crescita”.

    Scuole chiuse, polvere su ogni superfice, mancanza di cibo e di elettricità, corpi stesi a terra, boati improvvisi, paura, violenza e distruzione ovunque. “Non c’è più colore ad Aleppo. Tutto è grigio, anche noi”. Questa è la realtà che il piccolo Adam vive d’un tratto nella sua bella Aleppo, città che Sumia Sukkar non ha mai visto ma che si è fatta raccontare dai parenti in lunghe e strazianti conversazioni via Skype.

    Più che il luogo per l’autrice era importante mostrare le difficoltà di comprensione della situazione che si vivono oggi in Siria e che lei stessa prova. Una realtà che Sumia sente appartenerle profondamente pur essendo nata in Inghilterra e sentendosi “a casa” a Londra. Adam, il protagonista, non capisce quello che succede intorno a lui. La guerra gli fa girare la testa. Non riesce a rintracciare i pensieri, metterli in ordine e a dire ciò che sente.

    “Ho scelto un personaggio con la sindrome di Asperger per dargli un tocco di innocenza, in contrasto con le cose orribili che accadono in guerra” spiega l’autrice al suo debutto narrativo che ha già raccolto molti successi, tra cui la drammatizzazione radiofonica della storia trasmessa nel prestigioso “Saturday Drama” della BBC, dopo la quale sono stati acquistati i diritti per la realizzazione di un film tratto dal libro.

    Sumia fa girare la vita del protagonista intorno al colore. Adam vede le persone avvolte da un’aurea colorata a seconda dei loro stati d’animo e, per provare sollievo, dipinge il suo terrificante vissuto, giorno per giorno, choc dopo choc, mentre la sua meravigliosa città viene divisa e distrutta dai bombardamenti. Restano nelle strade solo scheletri di palazzi, pozze di fango, fasci di fili elettrici penzolanti e fumo nell’aria, la gente muore o scappa e anche la sua casa finirà in macerie. L’unico modo che il ragazzino trova per non pensare, per esprimere le sue emozioni e per sopravvivere a un’atmosfera cupa, impolverata e nebbiosa è la pittura.

    L’arte diventa così una forma di resistenza a questo momento buio in cui il giovane protagonista si trova tanto da valutare la possibilità di disegnare con il sangue, inteso come metafora di vita. “Come può il sangue prendere il posto del colore?” si chiede a un certo punto quando gli compare davanti agli occhi e una parte di sé lo spinge a prenderne un po’ per dipingere. “Il sangue è veramente denso, ma c’è ne così tanto che sembra acqua… / Sembra caldo e freddo allo stesso tempo. Quando tocchi il sangue, è come se le tue sensazioni si scollegassero. I miei sensi sono confusi…” dice Adam e tira indietro la mano. Poi fa uno schizzo: un occhio nel mezzo della pagina con una pupilla che ha dentro una storia. Come se quella storia fosse tutta da scrivere: la storia della nuova Siria che rinascerà dopo la distruzione.

  • Francesca Paci, “La Stampa” (9 gennaio 2017)

    Francesca Paci, “La Stampa” (9 gennaio 2017)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Sumia Sukkar, c’è un ragazzo che ha visto morire i colori di Aleppo

    La scrittrice algerino-siriana racconta la guerra attraverso gli occhi di un giovane pittore

    di Francesca Paci, “La Stampa” (9 gennaio 2017)

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarGli ultimi giorni di Aleppo, dopo quattro anni di assedio governativo aggravato dalla pressione dell’Isis, sono cupi, grigi, le foto che giungono dall’interno raccontano le macerie e la scomparsa dei colori. Aleppo ricorda Sarajevo, si è detto. Ma forse ricorda ancora di più Guernica, la città basca sventrata dai franchisti così come la dipinse memorabilmente Picasso. Si può fingere di non vedere, ma la fine del mondo è lì, a due ore di volo dall’Italia. Chi non si accontenta delle cronache, che faticando a tenere il passo della distruzione profonda inseguono la conta dei morti, può mettere mano oggi a un breve romanzo intitolato “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra“, l’opera prima della 24enne algerino-siriana Sumia Sukkar in cui senza la presunzione di spiegare l’inspiegabile il piccolo protagonista Adam illustra passo passo la perdita di colore della sua vita.

    L’esperimento letterario funziona. Siamo ad Aleppo, un periodo indefinito ma recente. Adam ha 14 anni, ha perso la mamma quando ne aveva 11 e vive ad Aleppo con il padre, i fratelli Khaled e Tariq e l’adorata sorella Yasmine, dalla cui variopinta personalità s’ispira per dipingere quadri su quadri. La sua tavolozza registra pennellata dopo pennellata l’involuzione della tragedia siriana iniziata nel 2011 come pacifica protesta contro il dittatore di Damasco e degenerata nell’inferno in cui, con gli ideali, sono morte almeno 400 mila persone.

    Adam dipinge, sogna la compagna di scuola «dagli occhi color Nutella» di cui ha dimenticato il nome, legge Morte a Venezia di Thomas Mann e nota che Gustav Aschenbach ha un nome grigio. La Storia subisce un’accelerata e la sua vita si ferma, imprigionata in un eterno presente dove si annulla tutto, l’amore segreto di Yasmine, l’arrivo in famiglia della bellissima cugina Amira rimasta vedova, il ricordo delle vacanze al mare, la militanza dei fratelli sempre più braccati dai governativi, i vicini di casa sterminati in salotto e lasciati a marcire nel loro sangue, la follia incipiente del padre che prende a chiamare tutti con il nome della moglie defunta, Maha.

    «Non so chi sono i buoni e chi sono i cattivi» dice a un certo punto il protagonista ripetendo un pensiero della sorella. Aleppo è un fantasma così come le bandiere dei ribelli, la gente viene giustiziata a raffica, al mercato bersagliato dai combattimenti si trovano solo datteri dal sapore antico. Ormai imperversa il nero. Quando degli uomini “biondi e grandi” rapiscono Yasmine sotto i suoi occhi impotenti Adam boccheggia: «Ho il cuore nello stomaco (…). E’ come se il catrame bollente ci fosse calato sopra».

    I colori incalzano la lettura e la guerra siriana non sembra più quell’eco lontana in sottofondo alle nostre pene referendarie. Yasmine nelle mani dei suoi aguzzini subisce le torture più atroci e si tinge di indaco, fin quando viene liberata da un gruppo di ribelli che inneggiano a un Dio della cui esistenza si fa fatica a convincersi. Adam dipinge come un forsennato, immagina di sentire l’amato George Orwell suggerirgli che il sangue è il sostituivo della pittura e ne raccoglie in strada per cancellare almeno dalle sue tele il grigio che gradualmente avvolge la città e la vita.

    L’epilogo del libro non è ancora l’epilogo di Aleppo, almeno non mentre scriviamo. Il protagonista si aggrappa a un gatto salvato dai connazionali affamati che vorrebbero nutrirsene e si mette in cammino verso Damasco con la sorella e quanto resta della famiglia. La strada è lunga in tutti i sensi, la salvezza una chimera, il ricordo dell’inno nazionale un requiem disperato, vita e sogno si confondono e confondono il lettore. «Perché c’è una rivoluzione? (…). Non c’è più colore ad Aleppo. Tutto è grigio, anche noi». Chiuso il libro resta la Storia, difficile fare ancora finta di niente.

    All’inizio (del libro) fu l’arancione. Sono passati 11 mesi da quando i primi attivisti ispirati da piazza Tahrir hanno portato in strada la richiesta di democrazia. Il mondo di Adam è ancora in piedi, in casa si mangiano verdure ripiene e circola l’aroma del caffè, la tv diffonde la disinformazione del regime ma funziona, la finestra inquadra l’abbandono dell’un tempo vivace caffè Shams eppure l’aria profuma ancora di vita. Poi la scuola chiude, l’acqua e l’elettricità cominciano a scarseggiare, il frigorifero si svuota, per strada compaiono cadaveri scomposti e Adam vede viola, lo stesso viola che aveva visto emanare dalla bara della mamma. I dimostranti dilagano, i fratelli e la sorella sono dei loro, gli slogan ripetono «Abbasso il regime», si spara, esplodono le bombe e si lasciano dietro macerie su macerie, il viola si mescola al rosso del sangue.

  • Giuseppe Iannozzi, 6 dicembre 2016

    Giuseppe Iannozzi, 6 dicembre 2016

    La distopia di Ahmed Nàgi fra George Orwell e Jonathan Lethem

    Il 16 maggio 2016 PEN ha assegnato ad Ahmed Nàgi il PEN/Barbey Freedom to Write Award, riconoscendo la sua lotta di fronte alle avversità per il diritto alla libertà di espressione.

    Checché se ne dica, 1984 di George Orwell, si sia d’accordo o no, ha dato il là a un nuovo modo di fare e di intendere la Letteratura, la distopia socio-politica è così entrata a far parte dell’immaginario collettivo e, soprattutto, ha fornito a tanti e tanti scrittori il coraggio di dirsi contro i regimi totalitari denunciando l’invivibile precarietà del proprio tempo storico.

    Ahmed Nàgi scrive Vita: istruzioni per l’uso, è questo il titolo italiano del romanzo Istikhdam al-Hayat illustrato da Ayman al-Zorkany e pubblicato in Italia da Il Sirente nella collana Altriarabi. Il romanzo si presenta al lettore come una vera e propria distopia in perfetto stile orwelliano: una catastrofe naturale ha sovvertito l’ordine del Cairo, la vita non è più quella dei tempi passati, lungo le strade si trascinano disperati più morti che vivi, le malattie imperversano e mietono vittime a iosa. La tecnologia, anch’essa, è sol più un ricordo. Il cielo che copre il Cairo è vuoto e all’orizzonte nessuna speranza. Ciononostante Bassan tiene vivo un sogno, un sogno grande: la ricostruzione del Cairo. Si adopera insieme alla Società degli Urbanisti perché il sogno possa un giorno essere realtà tangibile. Bassan fa la conoscenza di Ihab Hassan, che ha un’idea per restaurare la bellezza e il fulgore che sembrano esser stati per sempre perduti nelle sabbie del tempo.
    Il Cairo è di fatto un inferno, una cloaca sotto un cielo plumbeo, così lo immagina lo scrittore e giornalista egiziano Ahmed Nàgi condannato a due anni di carcere per aver scritto e dato alle stampe questo lavoro distopico. Al pari di Orwell, Ahmed Nàgi descrive una società ridotta ai minimi termini: i sentimenti sono vietati, provare emozioni non è possibile perché l’ordine della repressione vuole che tutti gli individui siano allineati, vuoti e nell’anima e nella psiche.

    Il lavoro di Nàgi è stato subito bollato come “offesa alla pubblica morale”: perché? L’autore descrive, per sommi capi in verità, una scena di sesso in una società dove i sentimenti sono stati aboliti. Nel corso del sesto capitolo un gruppetto di giovani sognano e sognano forte: rollano canne, ingollano birra e soprattutto si leccano le pupille sognando l’amore. Non ci si lasci però ingannare: la scena non contiene nessun elemento realmente scabroso, è difatti essa poi solo un espediente letterario vecchio come il cucco per ridare all’amore l’amore, null’altro che questo.

    La vita: istruzione per l’uso
     di Ahmed Nàgi non è un romanzo feticista che parla a spron battuto di sesso pur non mancando di ritrarre personaggi quantomeno bizzarri, da vero e proprio burlesque, questo è bene sottolinearlo, è invece fotografia di una società sceverata di vivere la libertà, di operare, senza costrizioni e pressioni esterne, le sue proprie scelte: la città possiede uomini e donne, nessuno è padrone di niente e nessuno deve permettersi di credere nel libero arbitrio.

    Ahmed Nàgi non fa alcun accenno ai fatti occorsi prima e dopo la rivoluzione (2011), ma non è una dimenticanza la sua, è invece una scelta precisa come a voler sottolineare che nulla è cambiato veramente dopo la destituzione del trentennale regime del Presidente Hosni Mubarak. Affinché il Cairo possa essere una città viva per la vita, per i sentimenti e la carnalità anche, c’è una sola possibilità e questa è rappresentata da La Società degli Urbanisti retta dalla maga Paprika. Il progetto di Paprika, forte della sua magia, è quello di creare un nuovo centro urbano ipertecnologico: distruggere il Cairo affinché risorga diverso, completamente nuovo. Nàgi dà così inizio a una vera e propria distopia dai contorni inquietanti e non poco realistici.

    Vita: istruzioni per l’uso di Ahmed Nàgi è un perfetto romanzo distopico, perfetto perché, con estrema sapienza, l’autore fa sua la lezione di George Orwell e quella di Jonathan Lethem.

    06/12/2016  Giuseppe Iannozzi

  • Passando per  Aleppo

    Passando per Aleppo

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra di Sumia Sukkar

    Editrice Il Sirente ha pubblicato Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra, di Sumia Sukkar (traduzione di Barbara Benini). Non si tratta di una serie di racconti ma di un romanzo che della forma breve ha lo stile essenziale.

    È un libro diretto, senza fronzoli, che racconta in modo originale il dramma siriano attraverso lo sguardo di un giovane affetto dalla sindrome di Asperger. Adam e la sua famiglia vivono le profonde sofferenze di un intero popolo, sofferenze descritte in modo empatico sotto forma di reportage letterario (una sorta di candido new journalism), da chi la guerra non la capisce e attraverso la propria creatività e la propria innocenza tenta inconsapevolmente di dare speranza a chi lo circonda. Scritto quando l’autrice aveva solo ventuno anni, Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra, è un romanzo dal linguaggio semplice e leggero, capace di narrare profonde ingiustizie e dinamiche familiari e sociali devastate da un conflitto che sembra non avere fine. Un testo utile, a mio avviso, per i lettori più giovani, spesso disinteressati a forme di saggistica pomposa e arzigogolata.

    Dall’articolo Appunti da un bordello turco (passando per New Orleans, Aleppo e Bucarest) di Lorenzo Mazzoni pubblicato il 29 novembre 2016 su il Fatto Quotidiano

  • Un esperimento ben riuscito

    Un esperimento ben riuscito

    “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi e Ayman al Zorqani

    /SPAZIO AI LETTORI

    14468503_949408731837457_4502732547258521044_oL’ultimo romanzo di Ahmed Nàgi arriva finalmente in Italia, fra processi allo stesso autore per presunta violazione al decoro e tanti interrogativi per arabisti alle prime armi come il sottoscritto: che tipo di libro sarà? Fantascientifico o più affine al “realismo magico” visto in Frankenstein a Baghdad di Ahmed Saadawi? Sarà davvero così esplicito da farlo incarcerare? E molti altri, fra cui possiamo includere anche il dubbio riguardante la scelta di creare un’opera ibrida fra testo scritto e graphic novel attraverso le illustrazioni di Ayman Al Zorqani. Nel romanzo inizialmente ci viene presentata una Cairo totalmente trasformata in seguito a delle violente tempeste di sabbia che hanno costretto i superstiti a trasferirsi in una nuova città poco distante dalla prima. Subito dopo viene introdotto il protagonista supremo del libro ossia Bassam Baghat, un documentarista alle prime armi, che per caso viene a conoscenza dell’esistenza della “società degli urbanisti”, misteriosa organizzazione che progetta di migliorare il mondo partendo da una nuova pianificazione metropolitana. A capo della sezione cairota vi sono Ilhab Hassan e Paprika che nutrono idee opposte riguardo alla direzione da prendere riguardo al futuro della società e che a causa di ciò entrano in conflitto, coinvolgendo Bassam e la sua compagnia. Paradossalmente il punto debole di questo romanzo risulta essere la trama stessa, troppo confusa e a tratti ingiustificatamente complessa; l’obbiettivo di Nagi non è però quello di portarci una storia “classica” quanto piuttosto quello di farci immergere appieno nella mente di Bassam, continuamente immersa nei fumi dell’alcool e dell’hashish e connessi anche con un malessere interiore. Per chi ha provato tali sensazioni saranno allora chiare le scelte dell’autore da un punto di vista narrativo, le illustrazioni di Al Zorqani, ad esempio, stilisticamente perfette con i toni del romanzo, avranno il compito di disorientarci e divertirci, comparendo spesso in punti inaspettati del romanzo e portando avanti nel lettore il senso di smarrimento. Altra domanda che questo lavoro di Nagi si portava dietro era la presunta “eccessiva crudezza” nelle descrizioni di droghe e dei rapporti sessuali che i vari personaggi intrattengono: a parer mio, pur essendo molto esplicito nel rappresentare tali scene, lo scrittore non porta nulla tanto sconvolgente da giustificare, anche in un paese come l’Egitto, tali reazioni nel pubblico. Ciò fa aumentare il sospetto, presente fin dall’inizio, che la condanna sia stata un pretesto per incarcerare chi indubbiamente poteva essere scomodo per il regime, seppur in maniera lieve. Questo libro si colloca senza dubbio fra i più coraggiosi esperimenti letterari del romanzo arabo, sperimentando soluzioni narrative coraggiose ed innovative per la realtà medio-orientale. Purtroppo la sua trama, complicata per ammissione stessa dell’autore (il quale ci scherza anche su), lo fanno un romanzo non adatto a tutti e che potrebbe essere arduo da comprendere a chi tali sensazioni non le ha mai sperimentate; dovrebbe in compenso colpire, al contrario, chi in tali situazioni si è trovato ed in generale i più appassionati di letteratura araba e sperimentale, rendendolo un libro fondamentale per la propria raccolta.

    dalla penna di un nostro lettore/ Tommaso Khâlid Valisi

  • Shlonak Sumia Sukkar?

    Shlonak Sumia Sukkar?

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Sumia Sukkar su Interferenze Radio 3 Mondo

    La guerra in Siria attraverso le parole di Sumia Sukkar, autrice di “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”, ieri su Radio 3 Mondo. Di che colore sarebbero oggi i due protagonisti del tuo romanzo Adam e Yasmine?

    “Ci alziamo tutti, io vado in camera mia, prendo subito il mio set per dipingere e comincio immediatamente a disegnare la scena sotto la pioggia. Sembriamo una famiglia felice, solo che dietro di noi ci sono palazzi crollati e il cielo sembra più scuro che mai, persino di notte. non so come spiegare quanto è nero il cielo. In questo cielo blu marino non c’è traccia della luna, solo un fumo nero che lo ricopre. Un giorno, quando sarà finita la guerra, avrò i miei quadri per mostrare alla gente cosa stava realmente succedendo. I miei quadri non mentono.” da ‘il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra‘ capitolo Verde

  • DISEGNARE LA NUOVA EUROPA | incontro con Jérôme Ruillier

    DISEGNARE LA NUOVA EUROPA | incontro con Jérôme Ruillier

    Jérôme Ruillier a Milano per presentare ‘Se ti chiami Mohamed’

    Jérôme Ruillier autore del graphic-novel ‘Se ti chiami Mohamed’ presenterà il suo libro il 18 Novembre alle ore 18,30 presso l’Institut Français di Milano (Corso Magenta, 63). Jérôme Ruillier ne parlerà con Ilaria Vitali (traduttrice del libro ‘Se ti chiami Mohamed‘, ricercatrice presso l’Università di Bologna, specialista di scritture migranti di lingua francese). Il 19 Novembre finissage, esposizione di alcune tavole insieme ad altri autori. Un’iniziativa di Institut français Milano e Eunic Milan, in collaborazione con WOW Spazio Fumetto – Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata.

    ruillerUn graphic novel originale, che con semplicità e chiarezza ricostruisce la storia dell’immigrazione maghrebina. Ispirandosi al giornalismo investigativo, Jérôme Ruillier racconta di vite precarie, di frequenti umiliazioni, di una complessa tessitura di rapporti che i tanti Mohamed hanno mantenuto con il paese d’origine e con quello d’accoglienza. Racconti autentici, lontani dai cliché, che abbracciano vari temi, dalla ricerca identitaria all’integrazione, dall’esclusione sociale al razzismo. Se ti chiami Mohamed ha ottenuto nel 2012 il dBD Award per il miglior fumetto reportage e il patrocinio di Amnesty International Italia.

    Titolo aprente la collana Altriarabi Migrante, finanziata con il progetto ‘Creative Europe’ dell’U.E., raccoglie le opere di giovani autori europei di origini arabe. Descrive i lineamenti della nuova geografia culturale europea, tratteggia il nuovo tessuto sociale multiculturale, multietnico e plurireligioso di cui sono composte le nostre città. Invita a combattere xenofobie e islamofobie. Invita a comprendere e a ritrovarsi.

  • Radio Eco (Elena Alei, 14 novembre 2017)

    Radio Eco (Elena Alei, 14 novembre 2017)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    Domenica 13 Novembre in aula Fermi è stato presentato un libro estremamente interessante ed inedito: Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra. (editrice Il Sirente). Coinvolta nell’incontro l’autrice del libro, la giovanissima scrittrice britannica Sumia Sukkar e il moderatore Luca Murphy

    Radio Eco (Elena Alei, 14 novembre 2017)

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarSumia Sukkar, figlia di genitori siriani,  ha pubblicato questo libro a soli 21 anni, appena il giorno dopo aver conseguito la laurea in scrittura creativa. “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” tratta del conflitto siriano tramite il racconto di un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, dunque attraverso un punto di vista del tutto nuovo e puro, incontaminato e oggettivo.

    Proprio per questo motivo l’autrice ha pensato di adottare questo tipo di lente, facendo ruotare il tutto attraverso i pensieri di Adam, ragazzo la cui famiglia sta cercando di scappare da Aleppo, centro del conflitto siriano, per arrivare a Damasco. Adam ha soli 14 anni e, affetto dalla sindrome di Asperger( spettro dell’autismo), cerca di rappresentare le sue emozioni attraverso la pittura. La sua malattia lo porta a percepire il conflitto a suo modo e a voler dipingere le sue sensazioni, attribuendo a ogni cosa che vede un colore.

    Ogni capitolo ha il nome di un colore: Adam vede le persone avvolte da un’aurea colorata a seconda dei loro stati d’animo e dipinge il suo terrificante vissuto durante una guerra che non riesce a comprendere, vede solo un incomprensibile violenza che riduce la sua vita e la sua casa in macerie e divide la sua bella città in barricate di guerra. Un libro in cui l’arte sembra diventare una forma di resistenza in un momento veramente buio.

    Adam dà colore a ciò che è ormai una realtà in scala di grigi: sommersa dalla polvere.  Obiettivo dell’autrice è rendere il conflitto tramite un occhio per cui tutto è bianco e nero ed innocente, al netto delle rappresentazioni falsate che i media continuano a darci del conflitto: sempre inevitabilmente storpiate da numerosissimi fattori.

    Sumia per scrivere la storia ha avuto testimonianze dirette dalla zia che vive in Siria: il libro è un intreccio di finzione e realtà. Le descrizioni sono innocentemente brutali.Ciò che voleva era capire l’essenza della storia da raccontare e togliere gli eccessi. In questo i personaggi l’hanno aiutata molto  diventando  parte di lei e mostrandole la storia. Mettere a fuoco l’essenza umana del conflitto, trasmettere il valore della bontà umana: elemento a cui Sumia crede profondamente. Proprio per questo motivo l’autrice non si vuole far portavoce di una fede particolare o di un credo politico, ma semplicemente trasmettere un valore universale. Non a caso l’autrice è stata cresciuta da due genitori figli di una società multiculturale, i quali le  hanno fatto leggere sia la  Bibbia che il Corano, il cui senso intrinseco è per lei la bontà umana, il non fare del male al prossimo. Adam è infatti un nome che unisce le tre religioni che compongono la Siria per comprendere nella narrazione tutte le religioni siriane.
    Sumia non sa tuttora quale sia la sua fede ma crede nella bontà umana. Quando pensa a Damasco, ricorda i tempi spensierati in cui a natale da piccina andava a trovarvi la nonna e sentiva l’odore di gelsomino nell’aria e  tutto era colorato: un odore  che è stato sostituito da sangue, un colore impolverato dal grigio che uccide tutto.

    Il processo che ha portato alla scrittura del libro è stato lungo coinvolgendo editing e scrittura e portando l’autrice  a frequentare numerosi centri per l’autismo, dove ha potuto capire in maniera profonda la natura della sindrome.

    Adam sembra soffrire di sinestesia: il metterlo su carta è un processo certamente difficile. Qui sta proprio la rarità di questo libro che offre immagini crudissime attraverso una lente innocente, limpida, semplice. Le immagini che ci sono proposte sono brutali, ma il mezzo attraverso cui ci sono trasmesse è semplice: è il fattore umano base. Questo perché, come afferma l’autrice,” non cerchiamo il modo più semplice di scrivere ma il modo più passionale. Quando non arrivano le parole prende il sopravvento il colore: ho scelto di raccontare un ambiente grigio dove però i colori di Adam brillano.”

    Non a caso questo libro  ha ottenuto il plauso della critica inglese. La drammatizzazione radiofonica del libro è passata nel prestigioso “Saturday Drama” della BBC, dopo la quale sono stati acquistati i diritti per la realizzazione di un film tratto dal libro.

    The National l’ha definito“Orribile e bello allo stesso tempo”, noi vi invitiamo ad acquistarlo e leggerlo.

  • Ilaria Guidantoni, “Saltinaria” (13 novembre 2016)

    Ilaria Guidantoni, “Saltinaria” (13 novembre 2016)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra

    Un libro reportage dall’interno della guerra siriana, l’atrocità della guerra raccontata con la spontaneità di un bambino senza pelle, affetto dalla sindrome di Asperger, che rende questo singolare romanzo: ad un tempo, poetico, tenero, a tratti noir, con accenti perfino pulp e un’anima surreale. La resistenza strenua dell’io che non crolla verso all’orrore che deforma l’essere umano. Dio e l’amore per gli altri come salvezza, attraverso un mondo visto a colori, popolato in forma di sineddoche

    di Ilaria Guidantoni, “Saltinaria” (13 novembre 2016)

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia SukkarIl panorama della letteratura siriana contemporanea – per quel poco che conosco quasi interamente attraverso la casa editrice Il Sirente – è interamente occupata dal dramma della guerra e della tortura. Tutti gli autori presentano una crudezza senza pari che indugia paradossalmente come in una terapia catartica sui particolari delle violenze, spesso subite direttamente dagli autori che le raccontano. La guerra sembra suggerire l’immaginazione e invaderla, occuparla tutta. Questo romanzo di Sumia Sukkar – scrittrice britannica di padre siriano e madre algerina, nata a Londra nel 1992 – è profondamente originale perché contiene solo un nucleo legato alla prospettiva orrorifica del conflitto, spietata, senza nulla che addolcisca la pillola. L’avvio è decisamente singolare, poetico pur nella tristezza e sgomento di una famiglia che vive e respira all’unisono la tensione di uno stato dittatoriale e si risveglia nel mezzo della guerra. Il conflitto esplode e riempie deformando la quotidianità, sconvolgendo l’ordine esteriore e interiore della vita, come una creatura mostruosa che siamo abituati a considerare partorita solo dalla fantasia nei racconti e che invece diventa realtà. La cronaca è raccontata dagli occhi di un bambino che vuole fare il pittore e la dichiarazione, anche se la passione per dipingere attraversa tutte le pagine, arriva verso la fine, con l’arrivo a Damasco tra mille sofferenze e una marcia estenuante che diventa un pellegrinaggio, in fuga da Aleppo. “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”, frase pronunciata come il risveglio dell’autocoscienza da Adam, detta il titolo. La visione che il romanzo presenta è doppiamente originale perché la narrazione è “a colori” che diventano la materia per il tutto, dando vita alla rappresentazione di un mondo in forma di sineddoche. Adam è affetto dalla sindrome di Asperger, un disturbo che per certi versi ha i caratteri dell’autismo anche se il ragazzo ha una forte relazionalità affettiva con gli altri e soprattutto l’amata Yasmine che sacrificando tutta se stessa regge le fila della famiglia dopo la morte della mamma, chiamata semplicemente mama. Questa particolare angolazione rende il racconto poetico, tenero e struggente a tratti, perfino ironico quando non pulp, come a dire che la fantasia e l’immaginazione possono salvare il mondo, talora proteggerci dall’esterno, farci trovare una via alternativa con altre porte e finestre rispetto a quelle fisiche. Le persone stesse attraverso la vibrazione delle nostre emozioni diventano colori, dal rosso rubino, il preferito del protagonista al grigio della guerra, che copre tutto come una spessa coltre di polvere che rischia di soffocare l’umanità che è in noi. Il libro è un inno alla vita, non di meno, perché la forza degli affetti più forti e la fede incrollabile in Dio diventano strumenti ai quali appoggiarsi come le stampelle per chi ha un arto rotto. E’ incredibile per una società che commercializza tutto come la nostra sentire un bambino che prega con tanto trasporto e che ringrazia Dio per quello per cui la maggior parte dell’umanità lo maledirebbe ed è proprio per questo e solo a tale condizione che la fede diventa slancio di vita. Un libro che merita una lettura sia per lo stile e l’originalità del racconto invitandoci a riflettere sul diritto di ognuno di noi ad esprimere sentimenti e ad essere “diverso” e sulla “banalità del male”, sempre in agguato nella storia.

  • AHMED NÀGI – VITA: ISTRUZIONI PER L’USO

    AHMED NÀGI – VITA: ISTRUZIONI PER L’USO

    A maggio 2016, durante il salone del libro di Torino, sono passato davanti allo stand delle edizioni “Il sirente”. Ho fatto quattro chiacchiere con la persona che in quel momento era allo stand (non farò nomi e cognomi ne tantomeno dirò la sua mansione). Tra una parola e l’altra mi chiede se mi poteva interessare un piccolo libricino. Era un estratto da un libro. L’estratto era importante perché riproduceva la parte incriminata del libro, la parte che aveva portato alla condanna dell’autore. Sono passati alcuni mesi, il libro è uscito, io l’ho letto e ho una cosa da dire: non leggete i libri perché gli autori sono stati imprigionati, leggeteli perché vi potrete rendere conto della prigione che sta diventando il mondo.

    Il libro in questione è “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi. Nell’edizioni Il Sirente ci sono delle illustrazioni di Ayman Al Zorqani che fanno da complemento al libro e spesso si intrecciano con la narrazione.

    Siamo in Egitto, verrebbe quasi da dire che stiamo visitando una realtà distopica, se non fosse che il nostro rapporto con l’Egitto tutto piramidi e sfingi è cambiato irreparabilmente con la morte di Giulio Regeni. Non si tratta più di una meta turistica per famiglie annoiate, si tratta di altro, di qualcosa che sale oscuro dalla sabbia. La maledizione di Tutankamen è ricaduta sugli abitanti stessi.

    Ahmed Nàgi ci racconta, con una scrittura diretta che non si abbandona ai compromessi, un Egitto frammentato, malato e cinico. Racconta una città, Il Cairo, dove le passioni sono marcite, l’amore è un piccolo puntino lontano, il potere e la politica hanno sovrastato tutto come una colata di cemento. All’interno di questa cornice veniamo ad incontrare personaggi che fatichiamo a riconoscere come reali, ma che sfortunatamente (il più delle volte) lo sono. Bassàm Bahgat protagonista del romanzo e regista di documentari che hanno lo scopo di raccontare la città e sono sponsorizzati dalla “Società degli Urbanisti.” Ihàb Hassan, un intellettuale membro di questa fantomatica società che per nutrirsi spreme polli seminudi. Mona Mei, il lato sentimentale amoroso ed erotico e altri personaggi che fanno da corollario al protagonista.

    Anche se, a dirla tutta, la protagonista principale è la città di Il Cairo. Una città distrutta da una catastrofe. Una città moralmente in declino, dai costumi scostumati che riflettono l’abbandono delle persone alla mediocrità e al disprezzo per il prossimo.

    Il libro di Ahmed Nàgi non va letto perché l’autore è rinchiuso in un carcere perché ad un cretino qualsiasi con un po’ di potere è venuto mezzo infarto leggendo una scena di sesso esplicito, questo libro va letto per rendersi conto di dove ci può portare la strada che abbiamo intrapreso. Una strada in cui nulla sembra avere più davvero importanza.

    Notevole la traduzione di Elisabetta Rossi e Fernanda Fischione.

    Un plauso alla casa editrice. Da quando ho conosciuto “Il Sirente” una lacuna letteraria si sta lentamente riempiendo. C’è ancora tanta strada da fare, ma un po’ alla volta, seguendoli, conto di riuscire a colmarla del tutto.

    Ahmed Nàgi è uno scrittore e giornalista egiziano, collabora con numerose testate nazionali internazionali. Autore d’avanguardia, usa la Rete per scuotere il panorama letterario conservatore. Arrestato nel Marzo 2016 e condannato a due anni di prigione dal tribunale di Bulaq (Egitto) per “offesa alla pubblica morale” a causa del suo ultimo libro “Istikhdam al-Hayat” (“Vita: istruzioni per l’uso”). Per le nostre edizioni ha pubblicato “Rogers e la via del drago divorato dal sole” (il Sirente, 2010).

    Senzaudio, Gianluigi Bodi 10/11/2016

  • Cristiana Missori, “ANSAmed” (7 novembre 2011)

    Cristiana Missori, “ANSAmed” (7 novembre 2011)

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    Pisa Book Fest apre finestra su Siria con Hamadi e Sukkar

    di Cristiana Missori, “ANSAmed” (7 novembre 2011)

    Dall’11 al 13 novembre torna il Pisa Book Festival, il salone nazionale del libro dedicato alle case editrici indipendenti italiane. Ospitata al Palazzo dei Congressi, la maIl ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra : Sumia Sukkarnifestazione – che dal 2003 riunisce editori, scrittori, traduttori, illustratori e artisti italiani e stranieri – aprirà una finestra sulla tragedia siriana con un doppio appuntamento: quello con Shady Hamadi, che presenterà il suo ultimo libro, ‘Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza’ (Add Editore, 2016) e Sumia Sukkar, con il suo ultimo romanzo, ‘Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra‘ (il Sirente, 2016). Due giovani autori – il primo nato a Milano nel 1988 madre italiana e padre siriano; la seconda, nata a Londra nel 1992, da padre siriano e madre algerina – che raccontano il dramma e la sofferenza del popolo siriano. Hamadi, attraverso il suo personale esilio (fino al 1997 gli è stato vietato di entrare in Siria in seguito all’esilio del padre Mohamed, membro del Movimento nazionalista arabo), affronta temi quali identità, integralismo, rapporto tra le religioni, libertà e lotta contro la dittatura. Sukkar invece sceglie di farlo attraverso gli occhi di un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, che vuole capire il conflitto siriano e i suoi effetti dipingendo le sue emozioni.

  • Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra (Maria Tortora, “Lankenauta”, 2 novembre 2016)

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra (Maria Tortora, “Lankenauta”, 2 novembre 2016)

    Ho terminato la lettura de “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” qualche giorno fa. Nel frattempo ho letto un altro libro: “Il cervello autistico” di Temple Grandin con Richard Panek (Adelphi). Due letture apparentemente distanti ma che, in realtà, si intersecano perfettamente considerando che Adam, il ragazzino quattordicenne protagonista oltre che voce narrante del libro della Sukkar, è affetto dalla sindrome di Asperger che, per chi non lo sapesse, viene spesso assimilata all’autismo. Temple Grandin, una donna autistica statunitense, biologa e scrittrice, ne “Il cervello autistico” si sofferma spesso, ed inevitabilmente, sulle problematiche legate ai malati di Asperger. Adam mi è venuto in mente ripetutamente durante la lettura del libro della Grandin. Adam che pone le stesse domande, Adam che conta i passi che servono per raggiungere la sua stanza, Adam che ha paura dei posti che non conosce, Adam che deve compiere sempre gli stessi movimenti, Adam che ripete numeri per rassicurarsi, Adam che sente tutti i colori del mondo, Adam che osserva la guerra in Siria e deve metterla dentro ai suoi quadri.

    L’idea di Sumia Sukkar è convincente e diversa: raccontare la guerra siriana attraverso gli occhi ingenui, disincantati ed inconsueti di un ragazzino affetto dalla sindrome di Asperger. Perché magari a pochi viene in mente che anche in Siria esistono bambini con problematiche di tal genere. Bambini che, come Adam, vedono il loro piccolo rassicurante mondo familiare e domestico andare in frantumi per colpa di un conflitto che non riescono a comprendere, per colpa di milizie del Governo che invece di proteggere il popolo siriano lo massacrano. Dentro le infinite domande di Adam c’è sconcerto e incapacità di capire. Come spiegare quel che accade ad un bambino come Adam? A lui piace andare a scuola, piace mangiare i dolci, piace giocare, piace disegnare e riempire i fogli di colori ed immagini. Cose semplici e sempre uguali. Le bombe, i morti, il sangue, le mutilazioni, le esplosioni, i proiettili. Tutto è troppo diverso e troppo difficile per lui. Per fortuna Adam trova in sua sorella Yasmine un rifugio, lei è il suo appoggio e la sua salvezza.

    La madre di Adam è morta da qualche tempo. Era malata ma lui è riuscito almeno a salutarla e a capire che sarebbe andata via. La guerra, invece, porta via le persone senza che Adam riesca neppure a dire loro un semplice “ciao”. La guerra fa crollare le case e riempie gli occhi e la bocca di polvere. La guerra ha tolto l’acqua e la corrente. Non ci si può lavare e non si può guardare la TV. Yasmine non può comprare nulla e il frigo è sempre vuoto. Gli altri fratelli di Adam escono quasi ogni giorno per partecipare a cortei di protesta ma anche quello diviene pericoloso perché c’è chi spara e chi muore. Adam vede sangue, vomita e sviene. Non sopporta l’odore del sangue, non regge il contatto con quel liquido vischioso ma è comunque costretto a guardare tanto sangue nella sua Aleppo. Chiunque, attorno a lui, perde il proprio colore. Anche il rosso rubino di Yasmine si scolora: la guerra trasforma tutto in grigio o viola, il colore del dolore.

    Ogni capitolo del libro rappresenta un colore diverso e, di conseguenza, una percezione diversa. Ci sono l’arancione, il bianco, il blu, il granata, il nero, il verde, il magenta e altri ancora. Ci sono però tre capitoli che interrompono la narrazione colorata di Adam. In questi capitoli la parola passa a Yasmine, presa e segregata chissà dove da uomini che non si erano mai visti. Yasmine rapita davanti ad un negozio e portata altrove mentre era con Adam. Viene torturata, insultata e stuprata proprio come avviene a molte altre donne in un Paese in guerra. E così la Sukkar riesce ad innestare nel racconto di Adam la vicenda tutta femminile e molto dolorosa della giovane donna. Il riflettore, quindi, viene spostato, su quello che una donna rischia quotidianamente in Siria.

    Entrare nel cuore di un conflitto come quello che da diversi anni sta devastando la Siria non è affatto semplice. Sumia Sukkar, però, è riuscita in tale intento grazie all’invenzione di un personaggio autentico, puro e sensibile come Adam. La guerra rimane la mostruosità che è ma la voce e lo sguardo di Adam, coi suoi immancabili colori e la sua luminosa innocenza, hanno il potere di mutare le prospettive e di ricalcolare la realtà perché riescono a trasmettere sfumature e dettagli che ai “normali” solitamente sfuggono. Sovrapporre un conflitto mortale alla candida delicatezza e al talento prezioso di un ragazzino affetto dalla sindrome di Asperger è sicuramente un’idea intelligente sviluppata, in questo romanzo, attraverso una narrazione empatica, attenta ed intensa. “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” è uscito per la prima volta, nel Regno Unito, nel 2013 quando l’esordiente Sumia Sukkar aveva appena 22 anni. Un’opera prima che lascia ben sperare.

    EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

    Sumia Sukkar è nata a Londra nel 1992, figlia di padre siriano e madre algerina. Ha sempre amato scrivere e, proprio per questo, ha frequentato il corso di laurea in Scrittura Creativa alla Kingston University di Londra. Qui ha conosciuto Todd Swift, poeta britannico-canadese oltre che direttore della Casa Editrice Eyewear. Il professore, colpito dal talento della Sukkar, le ha offerto un contratto di pubblicazione. Il primo romanzo di Sumia Sukkar, “The boy from Aleppo who painted the war”, è uscito nel 2013. Un anno più tardi, nel 1014, a BBC ne ha tratto un riadattamento radiofonico nel corso del programma “Saturday Drama”. Il romanzo “The boy from Aleppo who painted the war” è stato tradotto in italiano e pubblicato dall’Editrice il Sirente nel 2016.

    Sumia Sukkar, “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra“, Editrice il Sirente, Fagnano Alto, 2016. Traduzione dall’inglese di Barbara Benini. Titolo originale: “The boy from Aleppo who painted the war“, 2013.

    Pagine Internet su Sumia Sukkar: Twitter / Scheda Eyewear Publishing / Linkedin / Intervista

     Lankenauta, Maria Tortora, 2 Novembre 2016
  • MUTAZIONE EGIZIANA Un romanzo, due giovani autori

    MUTAZIONE EGIZIANA Un romanzo, due giovani autori

    Vita: istruzioni per l’uso di Ahmed Nagi e Ayman al Zorqani

    Scrittura e disegno in un’opera di denuncia della restaurazione-metamorfosi in atto al Cairo. Ahmed Nàgi, il romanziere, è in carcere. Ayman al-Zorqani, l’illustratore, spiega perché: «Vogliono cittadini senz’anima e senza impegno politico e sociale».

    A suo favore ci sono una forte campagna internazionale con tanto di petizione sulla piattaforma Change.org e il premio Barbey Freedom to Write che gli scrittori di Pen International assegnano ogni anno a un collega che si è distinto per aver difeso il diritto di espressione. La gloria però non l’ha salvato e lo scrittore egiziano Ahmed Nàgi resta ancora in prigione, dove sta scontando due anni di carcere a causa di alcu- ne scene di sesso descritte nel suo ultimo libro e ritenute contrarie alla pubblica morale.

    Opera a cavallo tra il romanzo tradizionale e quello grafico, Istikhdam al-Hayat (tradotto in italiano da il Sirente, come Vita: Istruzioni per l’uso) è il secondo libro di uno dei più rappresentativi scrittori egiziani della nuova generazione. Quella di Nàgi (che in italiano ha già pubblicato, nel 2010, Rogers e la Via del Drago divorato dal Sole) è non solo una delle voci più originali dello scenario letterario cairota dei nostri giorni, ma anche una delle più critiche del regime egiziano. Non solo durante l’epoca di Hosni Mubarak, ma anche dopo la restaurazione dei militari, coronata dall’elezione alla presi- denza dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi.

    È anche per questo, oltre che per le complesse vicissitudini in cui si trova Nàgi a causa della sua opera, che a mobilitarsi – contribuendo alla pubblicazione della versione in italiano – è stata anche Amnesty International, particolarmente pre- occupata della deriva autoritaria egiziana. Un vortice che ha portato, tra il gennaio e il febbraio 2016, alla scomparsa, alla tortura e alla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni.

    «La tragedia di Giulio è solo la punta dell’iceberg di un meccanismo repressivo che non guarda in faccia nessuno e cerca giustificazioni in primis securitarie. Dietro l’arresto di Naji si nascondono motivazioni ben diverse rispetto a quelle pubblicamente dichiarate. È sempre stata una persona invisa ai potenti. Colpendo lui, si vuole mandare un messaggio a tutti coloro che esercitano il loro diritto di espressione senza farsi intimorire dalle minacce del regime», dice a Nigrizia Ayman al-Zorqani, coautore, con le sue illustrazioni, del libro di Nàgi. «Processi come questi si tenevano già prima del 2011 e la ripresa di questa pratica mostra lo stato di salute della democrazia egiziana», aggiunge Ayman, secondo il quale il nome di Ahmed è solo l’ultimo nella lista degli scrittori che hanno pagato a causa di ciò che narrano attraverso i protagonisti dei loro romanzi.

    Il libro si apre con un’improvvisa catastrofe naturale che cambia per sempre l’aspetto del Cairo. La scena ricorda una tempesta di sabbia che ha realmente sconvolto la capitale nel dicembre 2010 e l’intero romanzo s’intreccia con la storia dell’Egitto degli ultimi cinque anni. C’è un legame con la rivoluzione egiziana?

    Ahmed ha iniziato a scrivere questo libro proprio nel periodo della tempesta che lo aveva impressionato perché gli ricordava le descrizioni sulla fine del mondo. Certamente c’è un legame con quanto accaduto nel 2011, anno che ha marcato l’orizzonte temporale egiziano. C’è un prima e un dopo. La politica non è cambiata, ma tutti noi cittadini sì. La rivoluzione più importante è stata quella sociale, alla quale ha contribuito il cambiamento avvenuto all’interno di ognuno di noi. E Nàgi questo cambiamento l’ha ben rappresentato nel protagonista del libro, Bassem. Quando gli viene chiesto di realizzare il progetto della nuova metropoli, Bassem cambia prospettiva e inizia a lavorare su un progetto che mette al centro le esigenze della popolazione.

    Il Cairo descritto in questo libro è una città triste, sporca, povera e violenta che non attrae i turisti che il governo spera possano tornare numerosi lungo il Nilo. Questo sordido realismo ha infastidito qualcuno?

    Ha infastidito parecchie persone. L’arte e la libertà di espressione non possono però essere a servizio degli slogan. C’è chi dall’alto vuole imporre un’unica narrazione della realtà. E Nàgi è stato punito proprio perché questa visione l’ha contrastata, preferendo usare altre chiavi di lettura.

    Nelle viscere del Cairo che voi descrivete, bollono cose che cercano di essere tappate da quanti vivono nei piani alti. Che umanità le frequenta?

    Sotto l’immagine Cairo patinata che il governo vuole mostrare al mondo intero ribolle un’umanità molto diversa. La struttura sociale del Cairo è stratificata. Per quanto vi sia la tendenza a uniformarsi a un’immagine che viene spesso imposta dall’esterno, sono molte le istanze anticonformiste. Negli anni che hanno condotto alla rivoluzione del 2011, le viscere del Cairo sono state terreno fertile per la nascita di quel movimento rivoluzionario che è stato capace di affrontare un regime pluridecennale.

    Ora però nei sotterranei del Cairo rassegnazione e timore sembrano predominare. È così o c’è dell’altro?

    Questi sono certamente i sentimenti dominanti, ma non sono gli unici. Anzi, la vicenda di Nàgi mostra che non tutti cedono alla paura. C’è chi cerca di difendere i propri valori per evitare che gli vengano sottratti del tutto. Non è facile, ma se vogliamo rimanere umani dobbiamo aggrapparci a questa lotta. Altrimenti diventeremo altra cosa, animali, come quelli che hanno voluto la restaurazione, uniformandosi alla narrazione dominante.

    Questa metamorfosi è parte portante del libro. E la descrizione di esseri umani in forma animale è quella che attrae maggiormente anche la sua curiosità grafica. Perché?

    Ahmed mi ha lasciato ampia libertà di lavorare sul testo, ma mi sono soffermato particolarmente sui passaggi dedicati agli animali del Cairo, ovvero gli abitanti che affollano la capitale egiziana dei nostri giorni. Parliamo di persone che sono state forgiate dall’architettura, dalla storia, dal traffico della città nella quale vivono, anzi sopravvivono. Nel libro, Nàgi spiega come tutti questi fattori, ai quali si somma la pressione del regime, rischia- no di rendere gli esseri umani figure più vicine agli animali, perché senz’anima e senza impegno politico e sociale. Ho voluto dare a molti di loro un volto spaventoso, perché così sono. La speranza è che non tutti, in Egitto, diventiamo così.

    Nigrizia – Novembre 2016 – Azzurra Meringolo

  • Il documentarista inquieto mette a nudo l’anima porno del Cairo

    Il documentarista inquieto mette a nudo l’anima porno del Cairo

    NARRATIVA EGIZIANA. AHMED NÀGI

    Un giovane dal vorace appetito sessuale svela odi, frustrazioni, famiglie incestuose

    La prima domanda è retorica: è ancora possibile nel 2016 andare in galera per un libro? La seconda è terra terra: cosa ci sarà mai tra le pagine di ‘Vita: istruzioni per l’uso’ se è bastata la pubblicazione del suo VI capitolo sul periodico egiziano Akhbar al Adab perché otto mesi fa l’autore Ahmed Nàgi fosse arrestato e condannato a due anni di carcere con l’accusa di oltraggio al pudore? La risposta a questo interrogativo ci porta al vero motivo per cui leggere il romanzo appena tradotto in italiano dall’intraprendente editore il Sirente. Perchè al netto del sostegno dovuto ai letterati imbavagliati, che a marzo ha visto il PEN attribuire a Nàgi il prestigioso premio Barbery Freedom to Write, c’è la letteratura.

    La storia raccontata da Nàgi è come una serie di scatole cinesi il cui valore cresce via via che la dimensione diminuisce. Il primo livello riguarda le vicende di Bassam Bahgat, giovane documentarista dal vorace appetito sessuale che all’indomani di un esiziale terremoto viene assunto dalla misteriosa Società degli Urbanisti per riprogettare, e in realtà distruggere, l’anima contradditoria, ma proprio per questo indomita, della capitale egiziana. Oltre Bassam però, c’è l’Egitto contemporaneo.

    Descrivendo i miasmi, gli umori, le cicatrici esterne e quelle intime di una Cairo enorme eppure claustrofobica, Nàgi ci suggerisce cos’è che, al netto dei coiti, masturbazioni e full immersion alcoliche tra nebulose di marijuana, ha davvero scatenato l’ira del regime contro di lui.

    “La musica è morta negli anni’70” dice a un tratto Rim, l’amante di Bassam che finirà per curare la propria depressione votandosi a una nuova annichilente illusione in cui sdoppiarsi, con e senza hijab. “cazzate-replica lui – Dov’è la tomba della musica?” e lei “Guarda il letamaio che hai intorno”.

    Chi ha ucciso la musica al Cairo lasciando gli abitanti in un silenzio sinistro che è sintomo di afasia, infantilismo politico, disperato onanismo fisico e intellettuale? La risposta è nelle infinite allusioni di cui è fin troppo infarcito il romanzo.

    C’è l’anima nera della città, epicentro della rivoluzione del 2011 ma anche tanfo di sterco e piramidi di rifiuti, donne pingui ricoperte da strati di stoffe nere e uomini in perenne quanto improduttiva eccitazione sessuale, squallidi micro-bus all’arrembaggio degli incroci fatali, odio, frustrazione, voglia di rivalsa sulla Storia, folli di Dio, trans, artisti, bambini di strada, poliziotti con gli occhiali neri, uomini d’affari obesi, stranieri in motorino in quartieri selezionati tipo Maadi, famiglie incestuose, interi distretti che vivono con la corrente prelevata abusivamente dai lampioni.

    C’è il Generale, carica in cui è riassunta l’identità stessa del potere, che “da quando è al timoneha precluso ai giovani l’accesso alla politica”. Ma ci sono anche loro, i “giovani agitati tra folle preconfezionate”, l’ombra di quanto furono i temerari ragazzi di Tahrir, poveri illusi alla deriva laddove non c’è più spazio per la ribellione e “perfino il caos si agita in aree circoscritte o entra nella catena di produzione di un enorme ingranaggio che opera per mantenere l’equilibrio”.

    Ci sono i fanatici religiosi, la cui presenza aleggia sull’intero romanzo nelle forme più diverse: il colore verde (come la natura ma anche come l’Islam) che “non comparve alla vigilia della tragedia ma molto prima”, la grande manipolatrice paprika intenzionata a deviare il corso del Nilo che “ti aiuterà a vedere ciò che non si vede e a vedere ciò che non esiste”, la stessa Società degli Urbanisti il cui segreto più importante è “la modalità con cui trasmette il senso di sicurezza , l’avresti avvertito mentre uno di loro ti stringeva la mano sollevandoti il peso dalle spalle, come un bambino piccolo che trona nel grembo materno”. E poi c’è la società civile, alleata con la politica e la religione per impedire “che venga a galla quanto avviene nelle viscere” del Cairo.

    Non risparmia nessuno Nàgi nel romanzo illustrato dai feroci disegni di Ayman al Zorqani. E quando arrivi al capitolo VI, il cuore pornografico del libro per cui ufficialmente l’autore è in cella, appare chiaro che lì, come nelle pagine precedenti, la nudità intollerabile per il regime non è quella di Bassam e le sue amanti ma quella dell’Egitto contemporaneo, la religione eterno oppio dei popoli, il regime militare stesso. Il bambino dei vestiti nuovi dell’imperatore non avrebbe oggi alcuna chance al Cairo.

    La Stampa/ Tutto Libri di Francesca Paci 22/10/2016

  • “Ormai Il Cairo è il regno dell’arbitrio”

    “Ormai Il Cairo è il regno dell’arbitrio”

    L’INTERVISTA  Ayman al-Zurqany – Il disegnatore in Italia per presentare un libro messo all’indice

    di Francesca Bellino

    Quando lo scrittore e blogger egiziano Ahmed Nàgi ha scritto “Vita: istruzioni per l’uso” non poteva immaginare quanto gli avrebbe condizionato la vita. L’ha scritto prima delle rivolte del 2011 con la speranza di vedere migliorare la condizione dei giovani del Cairo, ma la sua schiettezza e il suo talento narrativo sono stati ripagati con una condanna del Tribunale di Bulaq a due anni di carcere per “offesa alla pubblica morale” per i riferimenti espliciti a droga, sesso e alcool.

    Insignito del Premio Barbey Freedom to Write da Pen International e ora pubblicato in Italia da il Sirente (traduzione dall’arabo di Elisabetta Rossi e Fernanda Fischione), il romanzo è arricchito dalle illustrazioni del disegnatore Ayman al Zorqani venuto in Italia a presentare il libro in assenza dello scrittore.

    Ayman, come sta Ahmed Nàgi?

    Non posso andare a trovarlo. Possono entrare in carcere solo i parenti più stretti e gli avvocati. Ci scriviamo lettere e riesco a vederlo durante i processi, da lontano. Fisicamente non sta male, ma psicologicamente sì. I carcerieri non gli consegnano i libri. Non vogliono dargli speranza.

    Perché è stato arrestato?

    E’ la prima volta che in Egitto uno scrittore viene arrestato per un suo testo. Un cittadino lo ha denunciato dopo aver letto sul periodico letterario Akbar el Adab un estratto del romanzo uscito due anni fa, sostenendo che il testo gli aveva dato “un estremo senso di malessere”, divenuto malessere di Stato montato da un funzionario di polizia che probabilmente voleva sfruttare la situazione. E così ha ingrandito la vicenda. Ma al fondo della vicenda c’è un meccanismo innescatosi con l’arrivo di Al Sisi che ha causato anche la morte di Giulio Regeni.

    Ovvero?

    Con Mubarak nessun piccolo funzionario avrebbe mai potuto prendere una tale iniziativa. Si aspettava sempre un suo ordine. Con Al Sisi, invece, si è avviato un nuovo fenomeno che è quello delle iniziative dal basso, come è accaduto con la denuncia di Nàgi. Ai tempi di Mubarak nessuno straniero sarebbe stato ucciso e nessuno scrittore arrestato senza il suo volere.

    Quali sono le novità sul caso Regeni?

    La versione che viene raccontata è che una spia del regime aveva chiesto allo studente di aiutarlo ad avere un passaporto per l’Italia, ma in seguito a divergenze l’informatore avrebbe accusato Regeni di essere una spia e lo avrebbe denunciato a poliziotti di basso rango che, di loro iniziativa, lo avrebbero torturato a morte.

    Che clima c’è in Egitto?

    Di grande paura. Anche chi non ha fatto nulla ed è allineato ai costumi tradizionali e conservatori cairoti, quando incontra per strada un poliziotto teme gli possa accadere qualcosa.

    E gli artisti come vivono?

    Nel constante contrasto fra il desiderio di esprimerci e la voglia di dedicare tempo alla nostra arte e il bisogno di opporci alla visione conservatrice.  Con Mubarak c’era una libertà di espressione di facciata e dei limiti precisi da non superare, quindi molta autocensura. In “Vita: istruzioni per l’uso” Nàgi mostra le varie città contenute nel Cairo, quella di superficie e quelle sotterranee, la distruzione della metropoli e il vuoto che ne rimane. Ma né io, né lui abbiamo mai avuto l’intenzione di dire come deve essere la Cairo del futuro.

    Il Fatto Quotidiano 12/10/2016

  • Esce in Italia Vita: istruzioni per l’uso  Ma lo scrittore è in carcere in Egitto

    Esce in Italia Vita: istruzioni per l’uso Ma lo scrittore è in carcere in Egitto

    Non è il primo caso di censura di un’opera letteraria, ma non era mai successo in Egitto che un autore venisse condannato a due anni di prigione per un romanzo

    di Viviana Mazza per il Corriere della Sera

    Il romanzo esce giovedì 6 ottobre in Italia. Ma l’autore, il trentunenne egiziano Ahmed Nagi, al lancio (nei giorni precedenti a Roma) non c’era: è in prigione. Il 20 febbraio scorso è stato condannato a due anni di carcere per «oltraggio al pudore» a causa del «contenuto sessuale osceno». Non è il primo caso di censura di un’opera letteraria in Egitto, ma è il primo caso di uno scrittore arrestato per il proprio libro.

    Si intitola Istikhdam al-Hayat, tradotto come Vita: istruzioni per l’uso dalla casa editrice Il Sirente. Racconta la realtà sociale del Cairo, immaginando un futuro distopico in cui la metropoli è stata colpita da una terribile catastrofe naturale e una «Società degli Urbanisti» vuole distruggerne l’architettura millenaria per creare un centro futuristico, governato dalle macchine e dalla tecnologia. Il capitolo che ha messo nei guai lo scrittore è il sesto. Vi si racconta di una serata in cui il protagonista ventitreenne Bassam beve alcol, fuma hashish e fa sesso. «Cosa fanno i giovani di vent’anni al Cairo? — scrive l’autore in un passaggio — Leccano pupille, leccano fiche, succhiano cazzi, sniffano polvere, inalano hashishmisto a sonniferi? Fino a quando questo genere di feticismo continuerà a essere eccitante, innovativo e stimolante? Chi ora siede in questa stanza, da giovane ha provato molte droghe, sia ai tempi dell’università che dopo. Ma guardali, sono come atolli separati, incapaci di dare un senso ai loro giorni senza stare assieme».

    «Triste mentre Ahmed è in carcere»

    In Italia è venuto il coautore di Vita: istruzioni per l’uso. «È triste essere qui mentre Ahmed è in prigione», dice al Corriere Ayman Al Zorqani, che ha realizzato illustrazioni che si alternano ai capitoli del romanzo. Aveva incontrato Ahmed Nagi prima della rivoluzione del 2011, ed era rimasto colpito dal suo stile. «Parlava di politica in modo sarcastico, e per questo era più efficace, faceva arrabbiare le autorità perché si faceva beffe di loro», spiega. Nagi si stava anche facendo un nome: Vita, istruzioni per l’uso è il suo secondo romanzo pubblicato in Italia, dopo l’esordio con Rogers e la Via del Drago divorato dal Sole (Il Sirente, 2010). I due avevano deciso subito di collaborare, ma dopo l’inizio della rivoluzione sospesero ogni cosa, per poi riprendere a lavorare al romanzo nel 2012.

    La rivista di sinistra e il manager della Fratellanza

    L’arresto di Nagi è in parte il frutto di conservatorismo sociale ma anche di inettitudine e vendette personali. La storia ce la racconta Al Zorqani, in una lunga conversazione. Nagi lavorava per il periodico culturale Akhbar Al Adab. Nel 2013, durante l’era della Fratellanza Musulmana, erano stati piazzati a capo dei giornali uomini fedeli ai nuovi governanti. «I giornalisti di Akhbar Al Adab sono di sinistra e atei, mentre il nuovo manager, tale Magdi Afifi, conservatore e religioso tentava di controllare quello che scrivevano». È stato in questo periodo che uno dei caporedattori ha pensato di pubblicare un estratto del romanzo al quale Nagi stava lavorando. «Ahmed gli ha consegnato tre capitoli tra cui scegliere e poi è partito per un viaggio già previsto negli Stati Uniti — continua Al Zorqani —. Nel frattempo, a metà del 2013 i Fratelli Musulmani sono stati rovesciati, poi Al Sisi è diventato presidente e ha sostituito tutti manager dei giornali con uomini a lui fedeli. Ma si è dimenticato di Akhbar Al Adab. E così questa è stata l’età dell’oro per il periodico». Infatti, «il manager nominato dai Fratelli Musulmani non voleva essere epurato e perdere il lavoro e così restava zitto, non interferiva con il giornale. Ma quando il capitolo sesto di Nagi è stato pubblicato, c’è stato chi l’ha trovato offensivo, anche se il suo contenuto non è senza precedenti. E’ stato allora che le autorità hanno scoperto che Afifi era il manager e l’hanno licenziato in tronco».

    La furia di Afifi

    E allora Afifi si è arrabbiato. «Aveva sopportato per quattro mesi un giornale pieno di parolacce e contenuti immorali e senza Dio. Pensava almeno di poter riuscire a conservare il posto – ci dice Al Zorqani —. A questo punto non poteva opporsi alla decisione di Al Sisi, ma almeno poteva vendicarsi di quei miscredenti. Così deve aver visto nel capitolo del libro di Nagi una specie di dono divino: gli permetteva di colpevolizzare la redazione e anche di spingere il governo a essere più conservatore. Così è andato presso l’ordine dei giornalisti, ha denunciato Akhbar Al Adab affermando che pubblicava pornografia, contenuti volgari e contrari all’Islam. Le autorità hanno cercato di evitare che scoppiasse un caso, non volevano che Afifi apparisse come un eroe, ma odiavano anche Ahmed e il suo lavoro. Quando è tornato dagli Stati Uniti lo hanno sospeso, anche se non licenziato. A lui non importava. Nel frattempo, abbiamo completato la grafica e fatto stampare il libro in Libano, poi la polizia doganale egiziana ha dato l’autorizzazione all’ingresso delle mille copie e il romanzo stava avendo un discreto successo, ne avevamo vendute 900».

    La nuova denuncia

    Era passato un anno, insomma, quando è arrivata una nuova denuncia, stavolta da parte di un privato cittadino, di nome Ghani Salah, che si è detto turbato dai riferimenti al sesso contenuti nello stralcio pubblicato dalla rivista. Al Zorqani sospetta che l’istigatore fosse il solito Afifi. Quel che è certo è che nessuno si aspettava che lo scrittore potesse essere arrestato. «Non è la prima volta che la letteratura egiziana contemporanea presenta personaggi poco edificanti — scrive l’arabista Elisabetta Rossi —: basti pensare per esempio a ‘Abdallah, protagonista del romanzo di Ahmad al-‘Aydi Essere ‘Abbas al-‘Abd… che beve alcolici, fuma hashish e intrattiene relazioni libere con le ragazze; la sua schizofrenia lo porta a uno stadio di alienazione che lo dirotta verso un rapporto conflittuale con la società e la città in cui vive, Il Cairo». Certo, ci sono stati libri proibiti in passato in Egitto, sottolinea Al Zorqani, sin da «L’Islam e le fondamenta del potere politico» di Ali Abdel Raziq nel 1925 (che era in realtà un libro contro il re Fuad) fino al graphic novel di Magdi Shafiei bandito nel 2007 per una scena d’amore (in realtà dava fastidio il fatto che criticasse il presidente Mubarak perché voleva trasmettere il potere al figlio). «Ma non c’erano precedenti per l’arresto di Ahmed Nagi. E così lui aspettava al massimo una multa, non certo il carcere».

    La condanna

    Le autorità di polizia e poi il giudice in appello hanno voluto fare bella figura, secondo il disegnatore. Dopo il proscioglimento in primo grado, «la pubblica accusa ha deciso di trasformare l’indignazione del privato cittadino in indignazione dello Stato», ha detto all’Ansa Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia che ha patrocinato il libro. A nulla sono valse le proteste di 700 intellettuali egiziani e il Premio «Barbey Freedom to Write» conferito da «Pen» al giovane scrittore. «Ahmed all’inizio pensava che i media potessero aiutarlo», spiega Al Zorqani. «C’era stato un forte movimento in suo favore. Anche i conservatori cui non piace questo libro e che credono debba essere proibito non pensano che lui debba andare in prigione».

    Prigioniero politico

    Secondo Al Zorqani, a un certo punto, Nagi è stato visto come un oppositore politico e ciò rende difficile anche una riduzione della pena. «Ci sono state celebrità che in tv hanno detto che questo non è l’Egitto in cui credono, hanno presentato questo caso come una questione personale contro Al Sisi. E anche le autorità lo stanno trattando come un prigioniero politico. Due settimane fa, sono stati graziati alcuni criminali comuni, ma lui no, è rimasto dentro». Anche Amnesty International sospetta che la colpa di Nagi non siano stati tanto i dettagli su sesso e droga sparsi nel libro, quanto il realismo con cui descrive «una Cairo triste, violenta, putrida e cattiva». «Per tutto il tempo che vivi o ti muovi dentro al Cairo, sei costantemente denigrato. Sei destinato a incazzarti. Anche se impieghi tutte le forze della Terra non puoi cambiare questo destino. Sei soggetto in ogni momento ai pettegolezzi che ti arrivano da sopra e da sotto, da destra e da sinistra», riflette il protagonista Bassam. «La ricostruzione del Cairo e l’attenzione alla sua architettura sono dunque tematiche centrali del romanzo», nota Elisabetta Rossi che ha intervistato l’autore prima dell’arresto. «L’intento della “Società degli Urbanisti” non sembra così distante dalla realtà: pare quasi rispondere all’attuale e ambizioso progetto di Al Sisi di costruire, coi finanziamenti sauditi, una moderna capitale egiziana nel cuore del deserto».

    «Il processo» di Kafka (a fumetti)

    Al Zorqani ci dice di aver visto l’amico un mese e mezzo fa, l’ultima volta. Era dentro la gabbia in cui vengono tenuti gli imputati in tribunale. «Non aveva un brutto aspetto, non sta male fisicamente, ma è in uno stato di panico. So dalla sua fidanzata che non riesce a dormire. E’ in cella con altre 40 persone e vorrebbe restare solo. La buona notizia è che è un carcere per uomini d’affari corrotti perciò non ci sono scontri e zuffe, ma non può nemmeno andare in bagno senza un guardiano». Al Zorqani gli ha mandato «Il processo» di Kafka in arabo e «Hush», il fumetto di Jim Lee. «Quando vedono i disegni, le guardie non fanno problemi. Pensano che i fumetti siano per bambini».

  • Libri: in italiano ultimo libro Nàgi, ma lui è in carcere

    (di Luciana Borsatti) (ANSAmed) – ROMA, 3 OTT – Una sedia vuota per uno scrittore che non c’è e che in Egitto detiene anche il primato di primo autore finito in carcere per il proprio libro. Era quella riservata ad Ahmed Nagi, autore di “Vita: istruzioni per l’uso” (Il Sirente, pp. 270, 18 euro), in un incontro ieri a Roma cui ha potuto partecipare solo il grafico Ayman Al Zorqani, che ha co-firmato il libro per le sue provocatorie illustrazioni.

    Il 20 febbraio scorso Nàgi è stato condannato a due anni di carcere per ‘oltraggio al pudore’, dopo che un capitolo del libro – già dato alle stampe – era stato pubblicato su un periodico letterario. Il processo era nato dalla denuncia di un privato cittadino che si era sentito turbato dai riferimenti al sesso frequenti in un racconto pur primariamente incentrato sulla realtà sociale del Cairo – metropoli che, dopo una terribile catastrofe naturale, una “Società degli Urbanisti”, vuole ricostruire cambiandola radicalmente.

    Ma dopo il proscioglimento in primo grado, “la pubblica accusa ha deciso di trasformare l’indignazione del privato cittadino in indignazione dello Stato – afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia che ha patrocinato il libro – facendo scattare la condanna”. Contro la quale a nulla sono valse le proteste di 700 intellettuali egiziani e il Premio Barbey Freedom to Write conferito da Pen al giovane scrittore. Tanto da far pensare, sottolinea ancora Noury, che la colpa di Nagi non siano stati tanto i dettagli su sesso e droga sparsi nel libro, quanto il realismo con cui descrive “una Cairo triste, violenza, putrida e cattiva”: l’aver mostrato cioè “l’immostrabile”. “E’ triste essere qui con Ahmed in prigione”, ha detto Al Zorqani. Pare che Nàgi stia fisicamente bene, ha aggiunto, ma sia costretto a subire “molte pressioni psicologiche”.

    Il libro – scritto prima della rivoluzione del 2011 – “è una discesa tra le mille stratificazioni del Cairo”, racconta il grafico, dove a lui è andato tra l’altro il compito di descrivere con tratti impietosi “gli animali” della metropoli, stereotipi di personaggi che “cercano di rendersi accettabili”. Nagy, noto anche per essere stato uno dei primi blogger egiziani, non è l’unico autore che ha visto la propria opera censurata, me è stato appunto il primo a subire una condanna in carcere gli stessi motivi. In questo modo le istituzioni dell’era del presidente Sisi hanno voluto dare “un messaggio” anche agli altri, sostiene il giovane disegnatore, e per questo difficilmente potrà avere sconti di pena. Quanto al consenso sociale di cui l’ex generale gode, valuta Al Zorqani, è diminuito rispetto all’epoca del suo insediamento, certamente tra i giovani e anche per aver mancato di incontrare le aspettative di varie classi sociali in campo economico. Ma da qui a dire che non sarebbe ora in grado di vincere nuove elezioni ce ne passa: dipende da chi altro correrebbe per la carica, lascia capire il grafico, e resta forte tra gli egiziani il bisogno di stabilità che Sisi ha incarnato.

    Ma sul fronte dei media il panorama descritto da Al Zorqani è quasi desertificato: o sono schierati con Sisi o sono la voce dei Fratelli musulmani (estromessi dal potere nel 2013, ndr).

    Ampliato inolte lo spazio di manovra e di arbitrio di cui il singolo appartenente agli apparati di sicurezza può ora valersi rispetto al passato: come a dire, spiega, che un caso come quello di Giulio Regeni, torturato e ucciso da mani ancora ignote, ai tempi dell’ex presidente Mubarak non sarebbe potuto accadere senza che i vertici lo sapessero. (ANSAmed).

  • Un romanzo visionario che con coraggio  sfugge agli schemi letterari egiziani

    Un romanzo visionario che con coraggio sfugge agli schemi letterari egiziani

    Un romanzo visionario che con coraggio  sfugge agli schemi letterari egiziani

    Da Reset-Dialogues on Civilizations

    Recensione di “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi di Francesca Bellino del 22 settembre 2016

    “Benvenuti nell’infernale Cairo, dove la vita è una continua attesa e l’odore di immondizia e sterco di animali di qualunque sorta è in ogni dove” scrive lo scrittore e blogger egiziano Ahmad Nàgy in uno dei tanti passaggi del suo romanzo Vita: istruzioni per l’uso, (Il Sirente, traduzione dall’arabo di Elisabetta Rossi e Fernando Fischione), in cui descrive la capitale egiziana come una soffocante “realtà da incubo”, un luogo dove anche il fiume Nilo si intristisce quando lo attraversa.
    É senza dubbio Il Cairo, con il suo declino e la sua auspicata e necessaria “riedificazione”, la protagonista del romanzo che per Nàgi ha significato una condanna dal tribunale di Bulaq lo scorso 20 febbraio a due anni di carcere per “offesa alla pubblica morale” seguita alla pubblicazione sul periodico letterario Akhbar el Adab di un estratto del romanzo pubblicato in Egitto nel 2014 con il titolo Istkhdam al-Hayat. Il “reato” si riferisce in particolare all’esplicita scena di sesso con cui si chiude il sesto capitolo che racconta una serata tra ventenni trascorsa rollando canne, bevendo birra, discutendo sulle ultime mode come il feticismo sessuale di leccare le pupille e sognando l’amore.

    Insieme a una fotografia critica del Cairo, il romanzo offre al lettore anche una dettagliata e disperata descrizione della contemporanea gioventù egiziana, spaesata, frustrata, impossibilitata a manifestare e vivere i sentimenti, alla continua ricerca di libertà e benessere in una società triste e repressa che improntata le relazioni sull’apparenza e il giudizio altrui.
    “Qui dicono: Fa’ come vuoi, ma esprimi i tuoi sentimenti come vogliono gli altri” scrive Nàgi evidenziando che “quando vivi o ti muovi dentro il Cairo, vieni costantemente offeso. Anche mettendo insieme tutte le forze della terra, non potresti cambiare questo destino”.
    Tutto il romanzo che si presenta in una forma narrativa sperimentale, arricchito dalle illustrazioni dell’artista cairota Ayman al-Zurqany, è attraversato da questo sentimento di rassegnazione e da un senso di sconfitta e d’impossibilità di cambiare il destino individuale e della nazione. “Non sei padrone di te stesso, non sei padrone di niente in questa città. È lei che ti possiede” scrive l’autore per marcare l’impotenza dei giovani egiziani e la loro sofferenza di vivere in una città capace solo di addestrare alla speranza.

    Nàgi non fa cenni al prima o dopo rivoluzione 2011. Per lui i problemi strutturali delle relazioni sentimentali e carnali della società egiziana restano sempre uguali: tesi e difficili. “I fortunati che in questa città superano la fase della repressione sessuale – spiega -, finiscono per trovarsi in un’area in cui il sesso non è che un ramo secondario dell’amicizia. Altrimenti, diventa un chiodo fisso”.
    L’atmosfera catastrofica si respira sin dalle prime pagine in cui l’autore propone una distopia, un fenomeno spaventoso, “lo Tsunami del deserto”, per cui gli abitanti del Cairo si risvegliarono sepolti sotto tonnellate di sabbia e polvere. Per parlare del presente, dunque, Nàgi ipotizza un futuro in cui nasce “La Società degli Urbanisti”, un’organizzazione retta dalla potente maga Paprika, che vuole distruggere il Cairo delle contraddizioni per creare un nuovo centro urbano futuristico in cui a far da padrona è la tecnologia. In questo modo Nàgi introduce nella narrativa araba con derive fantascientifiche, la catastrophic fiction, un genere che gira intorno alla distruzione del pianeta terra con catastrofi naturali, proprio come avviene nell’incipit del libro. Ricostruire il Cairo dopo la sua necessaria distruzione (intesa come evento purificatore), diventa il cuore della storia.

    Nàgi, già conosciuto in Italia per il suo esordio, Rogers e la via del Drago divorato dal Sole (Il Sirente, 2010), dimostra anche questa volta la sua abilità descrittiva nell’offrire al lettore una radiografia dei “raggruppamenti umani invisibili” che abitano la città millenaria: dai fanatici religiosi che si muovono in gruppi di fratelli e sorelle agli omosessuali, dai bambini di strada immersi nei fumi della colla tra le baraccopoli agli spacciatori di hashish, dagli uomini d’affari obesi agli scambisti e ai sadomasochisti.
    A queste pagine va aggiunta l’esilarante carrellata degli “animali del Cairo”, una serie di caratteri che si posso incontrare per le strade della capitale egiziana: dal cane randagio all’artista pesce-gatto, dalla fanciulla velata al rinoceronte selvatico, dallo scarafaggio ai dervisci, dal verme allo sheykh-tigre, al taxi biologico al topo nero.
    Nàgi, al quale PEN International ha assegnato il Premio Barbey Freedom to Write, non è l’unico caso di voce critica zittita nell’era Al-Sisi. Del libro e di libertà d’espressione violata si parlerà al Festival della Letteratura Mediterranea a Lucera il 25 settembre alla presenza, tra gli altri, dell’autore delle illustrazioni Ayman al-Zurqany nel focus “Tutti i segni della dissidenza”.

  • “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”  di Sumia Sukkar

    “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” di Sumia Sukkar

    IL RAGAZZO DI ALEPPO CHE HA DIPINTO LA GUERRA di Sumia Sukkar

    In libreria “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”, terzo e imperdibile titolo della collana Altriarabi Migrante.

    Ogni capitolo ha il nome di un colore in questo libro denso e profondo che ci racconta la guerra siriana e la distruzione di Aleppo dall’interno di una famiglia, che raccoglie tutte le sue forze per cercare di sopravvivere intimamente e fisicamente alla devastazione della propria città.

    …orribile e bello allo stesso tempo…” dove l’arte diventa una forma di resistenza

    Adam ha quattordici anni e soffre della sindrome di Asperger, una forma di autismo che non provoca ritardi significativi nello sviluppo del linguaggio o delle capacità cognitive. Adam ha ereditato dalla madre il talento nella pittura e infatti trascorre la maggior parte del suo tempo libero, dipingendo i suoi familiari, gli eventi che segnano la sua vita, il mondo che lo circonda. Adam associa un colore a ogni stato d’animo e persona o situazione e Yasmin, sua sorella, sorridente e paziente, sempre pronta a rispondere alle sue mille domande, è il rosso rubino, il colore della gioia, del sorriso. È il 26 di gennaio gli scontri e le manifestazioni si diffondono per Aleppo, ma per Adam non può essere una guerra civile, come la definiscono alla TV, perché nella guerra ad affrontarsi sono gli uomini in divisa, gli eserciti e lui vede solo cittadini normali, dalla sua finestra. Pian piano, però, la guerra entrerà nella vita di Adam attraverso il deterioramento lento ed inesorabile della sua routine quotidiana: la scarsità di cibo, la mancanza di acqua ed elettricità, la chiusura della scuola, il bombardamento di casa sua, la morte dei vicini e degli amici di famiglia e poi dei suoi stessi familiari, che nel lungo cammino che da Aleppo lo porterà a Damasco, lo lasceranno uno a uno. Un ritratto vivido di una città martoriata e dei suoi abitanti, raccontato attraverso gli occhi innocenti del protagonista.

    Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra è il romanzo debutto della giovanissima e brillante Sumia Sukkar, autrice inglese di origine siriana-algerina, notata e incoraggiata dal suo professore di scrittura creativa all’università, che, estremamente impressionato dai suoi scritti, ancora sotto forma di work in progress all’epoca, l’ha incentivata a perseverare offrendole un contratto di pubblicazione. Trasmesso dalla BBC nel corso del famoso programma “Saturday Drama”.

    Sumia Sukkar  Sumia Sukkar sarà in Italia per presentare “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra” domenica 25 settembre ore 19,00 XIV edizione del Festival della Letteratura Mediterranea di Lucera

     

     

  • “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi dal 6 ottobre in Libreria

    “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi dal 6 ottobre in Libreria

    Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi e Ayman al Zorqani. Il libro che è costato all’autore due anni di prigione

     

    Un libro ibrido, dove le parole sono in equilibrio tra testo (Nàgi) e grafica (Al Zorqani). Un libro che è costato a Nàgi due anni di reclusione nelle prigioni egiziane con l’accusa di “oltraggio al pudore”. Ufficialmente, il processo era nato dalla denuncia di un privato cittadino che, leggendo il testo di Nàgi aveva provato “palpitazioni, un estremo senso di malessere e un improvviso calo della pressione sanguigna”.

    Un libro visionario ambientato in una Cairo futuribile, devastata da terremoti, tempeste di sabbia, virus e malattie e in cui per sopravvivere le persone mutano in esseri quasi antropomorfi, a metà tra la figura umana e un agire animale, dissociato da ragione e sentimento. Una Cairo in cui l’unica soluzione possibile sembrerebbe la distruzione dell’antica metropoli e la costruzione di una nuova. In questo panorama che ha del fantascientifico, Nàgi descrive in realtà la società egiziana facendone una profonda analisi socio-culturale, dove vivere in un costante stato di repressione possa produrre dei mostri.

    Premio PEN/Barbey Freedom to write Award

     

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    Esce in Italia con il patrocinio di Amnesty International Italia e una prefazione di Riccardo Noury (portavoce Amnesty Int. Italia), come simbolo di tutti quei creativi a cui in tanti paesi del mondo viene vietato di esprimere la propria creatività.

    (Traduzione dall’arabo di Elisabetta Rossi e Fernanda Fischione, a cura di Barbara Benini)

    Presentazioni con la partecipazione di Ayman al Zorqani:

    • XIV edizione del Festival della Letteratura Mediterranea di Lucera domenica 25 settembre ore 19.00 Rampa Cassitto,Focus letterario/Scrivere mi è necessario “Tutti i segni della dissidenza”.Con Paola Caridi e Sumaya Abdel Qader. Intervengono Ayman Al Zorqani (Il Cairo, illustratore di “Vita: istruzioni per l’uso” di Ahmed Nàgi) e Sumia Sukkar (Londra, autrice di “Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra”).
    • Libreria Griot (Via di Santa Cecilia, 1/a Trastevere, Roma) domenica 2 ottobre ore 18,30                               Presentazione del libro “Vita: istruzioni per l’uso” con la partecipazione di Ayman al Zorqani e Riccardo Noury (portavoce Amnesty International Italia)

     

     

  • Articolo senza titolo 6846

    «I miracoli» di Abbas Khider al Salone del Libro di Torino

    “I miracoli” di Abbas Khider, in anteprima nazionale al Salone del Libro di Torino dal 12 al 15 maggio.

    Una moderna fiaba su rifugiati e immigrazione clandestina da una delle voci più promettenti della scena letteraria tedesca, il Best-seller e pluripremiato Abbas Khider.

    I Miracoli un libro di Abbas Khider. Disegnato sulla falsariga dell’esperienza dell’autore in una prigione irachena e come rifugiato in Europa, “I Miracoli” è uno straordinario ponte tra oriente e occidente. Sul treno diretto a Monaco, Rasul Hamid trova un voluminoso manoscritto, leggendolo scopre che vi è narrata la sua storia…Rasul Hamid fuggito dall’Iraq e arrivato con mille peripezie in Germania. Donne attraenti, compagni rifugiati, periodi di lavoro illegale, miracoli e molti – felici – incidenti, condiscono la lettura. Il romanzo tragicomico, a volte perfino burlesco, di Khider è una moderna fiaba sui rifugiati. Sapore orientale e cruda realtà raccontata in modo diretto e senza vittimismi.

    Abbas Khider è nato a Bagdad il 3 marzo 1973. Arrestato e detenuto, all’età di diciannove anni, sotto il regime di Saddam Hussein. Nel 1996 è fuggito dall’Iraq e ha vissuto in vari paesi come profugo clandestino. Dal 2000 vive in Germania dove ha studiato letteratura e filosofia. Ha vinto numerosi premi di poesia e letteratura, tra gli altri il premio Adelbert von Chamisso per il giovane auto- re più promettente nel 2010 e i premi Hilde Domin e Nelly Sachs nel 2013.

    Lo troverete, fresco di stampa, presso lo stand J158 – il Sirente – Padiglione 2 – Salone del Libro di Torino dal 12 al 15 Maggio.

    Eccovi un assaggio

    I miracoli

    (traduzione dal Tedesco di Barbara Teresi)

    Giuro su tutte le creature visibili e invisibili: ho sette vite. Come un gatto. Anzi no, ne ho addirittura il doppio. I gatti potrebbero diventare verdi dall’invidia. Nella mia vita i miracoli sono sempre accaduti all’ultimo minuto. Io ci credo, ai miracoli. A queste insolite eccezionalità per le quali semplicemente non c’è altra definizione. Uno dei misteri della vita. Questi miracoli hanno molto in comune con le coincidenze, ma non posso neppure definirli coincidenze perché queste ultime non capitano di frequente. Un caso è un caso, per banale che possa suonare. Si può parlare di una, massimo due grandi casualità nella vita, ma non certo di una gran quantità di avvenimenti fortuiti. Ci sono quindi eventi che sono miracoli, e non coincidenze: così mi permetto di teorizzare, pur senza seguire una logica aristotelica. Non sono una persona superstiziosa, non credo all’ultraterreno né all’occulto. Nel corso della mia vita ho, per così dire, sviluppato il mio personale orientamento religioso, adatto a me soltanto. Assolutamente individuale. Ad oggi, per esempio, io venero gli pneumatici. Sì, i copertoni delle auto! Per me non sono soltanto i piedi delle macchine, sono angeli custodi. Lo so, non deve suonare del tutto sensata come affermazione, dato che molta gente ci ha lasciato la vita, sotto gli pneumatici. Ma uno pneumatico può anche salvarti la vita. Ed è così che ha avuto inizio il primo miracolo. Ero a Baghdad, in carcere. Trovarsi in galera a Baghdad non è affatto un miracolo, e negli anni Novanta era perfettamente normale. Mentre ero lì… per continuare la lettura qui

  • Addio alla gioventù in Egitto

    Addio alla gioventù in Egitto

     

    Ho visto per la prima volta il mostro nel 2005, al Cairo, in centro, davanti al sindacato dei giornalisti. Si era radunata una folla di giovani, ragazzi e ragazze, che scandiva “kifaya!” (basta!). Il mostro è piombato giù dagli automezzi della polizia. Era in divisa militare, ma anche camuffato in abiti civili, e picchiava i dimostranti. I maschi venivano trascinati sul selciato, alle femmine venivano strappati i vestiti. È stato molto traumatico. Pensavamo che fosse la cosa peggiore che il mostro potesse farci.
    Pensavamo che con l’amore, e incoraggiando gli altri a venire con noi per strada, saremmo diventati più numerosi, che dalle poche centinaia che eravamo saremmo diventati centinaia di migliaia, forse milioni. È così che avremmo sconfitto il mostro. I giovani sono ingenui, hanno buoni sentimenti e un cuore puro.
    Avevo incontrato la stessa ingenuità cinque anni prima. Nel 2000 ero uno studente del liceo quando mi unii alle manifestazioni di solidarietà degli studenti con la seconda intifada, che era cominciata dopo due avvenimenti: il criminale di guerra e futuro primo ministro israeliano Ariel Sharon aveva visitato la moschea di al Aqsa scatenando la rivolta dei palestinesi, e un ragazzo di 12 anni, Mohammed al Durrah, era morto tra le braccia di suo padre sotto i colpi dell’esercito israeliano. I nostri insegnanti ci incoraggiavano a manifestare, ma loro non lo facevano. Sfilavamo in piccoli gruppi furibondi chiedendo libertà per la Palestina e giurando che non avremmo mai dimenticato Al Durrah. Le forze di sicurezza ci autorizzarono ad aprire i cancelli delle scuole e dei licei, e a manifestare in gruppi più numerosi percorrendo le strade di Mansoura, dove ho passato gli anni dell’adolescenza.
    I ragazzini e gli studenti che mi circondavano erano pazzi di gioia perché avevano ottenuto il diritto di gridare. Per la prima volta si sentivano liberi per strada. Quando i gruppi di studenti in corteo s’incontravano si sorridevano in maniera un po’ scema, come dei bambini, e c’erano saluti e grandi scambi di abbracci un po’ troppo teatrali. A Mansoura, come nel resto del paese, le scuole sono separate per genere. Era straordinario vedere ragazzi e ragazze che si univano in queste manifestazioni, invece delle solite scene di studenti che aspettavano le ragazze davanti alle scuole per rimorchiarle, molestarle o stare un po’ con loro. Ma la folla, le urla e l’entusiasmo, anche se erano giustificati, mi tenevano lontano dal mio stesso gruppo di amici, per non parlare dell’ego improvvisamente gigantesco di qualche essere insignificante che s’improvvisava tribuno.

    [st_quote author=””]Ho sempre trovato noiosa la vita pubblica, come una serie di spettacoli teatrali brutti ai quali siamo comunque costretti a partecipare[/st_quote]

    Cinque anni dopo mi ero laureato, e sapevo che al regime di Hosni Muba­rak quelle manifestazioni contro Israele erano piaciute. Le aveva sostenute e ogni tanto le aveva addirittura istigate. Mubarak voleva che le telecamere filmassero le folle infuriate mentre bruciavano la bandiera israeliana per poter mostrare quelle immagini e rivolgersi alle divinità sulle montagne di Oslo e nelle valli di Washington dicendo: “Finché io sarò qui controllerò questi mostri e gli impedirò di bruciare tutto”. Quando i cittadini hanno cominciato a scendere in piazza per protestare contro Mubarak, le forze di sicurezza erano pronte, e siccome non avevano di fronte dei mostri (non ancora) hanno fatto tutto quel che potevano per farli diventare tali: li circondavano, strappavano i vestiti alle ragazze e aggredivano sessualmente i ragazzi. Ma invece di diventare mostri, i manifestanti hanno preferito entrare in una logica perdente, abbracciando la condizione di vittime.
    Ho sempre trovato noiosa la vita pubblica, come una serie di spettacoli teatrali brutti e sempre uguali ai quali siamo comunque costretti a partecipare: le elezioni, i limiti alla libertà in nome della religione e tutte le altre buffonate che tirano in ballo l’idea di nazione, c’invitano all’amore per la patria e ci spiegano come mostrarlo.
    Ho conosciuto altre persone a cui tutto questo non piaceva per niente. Abbiamo deciso di fabbricarci le nostre menzogne su internet, una realtà virtuale che era fuori dal controllo delle autorità e in contrasto con il puzzo di chiuso dei nostri padri e dei loro vecchi princìpi morali.
    L’Egitto stava attraversando tempi grandiosi. In tv tutti parlavano dell’arrivo della democrazia. Noi, in un angolo cieco dello sguardo dell’autorità, c’inventavamo piccoli luoghi d’incontro dove organizzare delle feste, le nostre feste, e suonare musica vietata alle radio e alle televisioni sia pubbliche sia private perché non parlava d’amore, di lunghe ciglia languorose o di tenerezza. È durante una di queste feste che Alaa Abdel Fattah mi ha proposto di creare un sito che prendesse in giro quello ufficiale del presidente. Ero incaricato di scrivere i contenuti. Facevamo giochi di questo tipo: ci chiudevamo nelle nostre bolle virtuali per sbeffeggiare il re nudo e deridere i cortigiani che continuavano a elogiare i vestiti.
    Ho conosciuto la mia prima moglie in un forum online di ammiratori della musica di Mohamed Mounir. Eravamo adolescenti, non avevamo ancora diciotto anni, e in dieci anni spesso turbolenti abbiamo vissuto l’amore, il matrimonio e il divorzio, un ciclo di vita completo. Altri si sono conosciuti nei forum e nei blog dei Fratelli musulmani, dei Socialisti rivoluzionari, del club dei feticisti del piede, dei guerrieri di Bin Laden o su Fatakat, un blog per le casalinghe. Internet ci permetteva di stare lontani dai capelli eternamente neri di Mubarak. Era una nuova casa dove le persone con idee simili potevano ritrovarsi.

    Il tenue ronzio delle discussioni di questi gruppi pian piano stava crescendo e i vecchi, con l’aiuto dei loro apparecchi acustici, se ne accorsero. Decisero che quel borbottio veniva da una gioventù occidentalizzata e insolente. Non prendevano sul serio quelle voci, forse non le capivano proprio. Il loro messaggio, comunque, era chiaro: “I vecchi cadaveri dovrebbero lasciare spazio a quelli nuovi”.

    [st_quote author=””]I giovani hanno molti tratti comuni: la passione, l’ipersensibilità e la foga[/st_quote]

    Gli zombi erano dappertutto. C’erano il generale zombi, lo sceicco zombi, il presidente zombi, l’imprenditore zombi, il partito di governo zombi, l’opposizione zombi, l’islamista moderato zombi e l’islamista radicale zombi. Quando sei giovane ogni zombi ti propone di diventare anche tu uno zombi e di lasciar perdere l’idea­lismo della morale e dei sogni. Non avevamo scelta, eravamo costretti a vivere con loro, parlargli, mostrarci affettuosi. A volte, per precauzione, elogiarli, diventare discreti e camminare tra loro, con le gambe rigide, le braccia tese e lo sguardo vuoto. Quando rendevamo chiaro il nostro disaccordo o rifiutavamo di ingozzarci con quelle carogne marce che sono le idee di patria e di religione, gli zombi ci rispondevano con la tortura, l’isolamento forzato o l’emarginazione.
    “Dovete vivere come hanno vissuto i vostri padri”, dicevano gli zombi. Quella vita descritta tanto bene dal regista Shadi Abdel Salam nel film La mummia, del 1969: una vita da iene, con le ragazze che camminano per strada con le spalle curve in avanti e il capo abbassato senza guardare da nessuna parte, né a destra né a sinistra, mai. Devono lasciarsi rimorchiare e molestare senza lamentarsi, e quando rifiutano di sottomettersi agli zombi le accusano di usare il loro fascino per attirare i criminali e sedurli.
    Quando sono cominciate le manifestazioni contro la brutalità e le torture della polizia, c’è chi s’è alzato per accusare i manifestanti di insultare le forze dell’ordine. Ma le proteste hanno continuato a crescere di dimensioni e d’intensità e alla fine hanno cominciato a chiedere la rimozione del leader degli zombi, il gran maestro della tintura per capelli. Gli zombi allora si sono riuniti per lanciare un appello ai giovani: “Cari fratelli, fate come se fosse vostro padre”.
    I giovani hanno molti tratti comuni: la passione, l’ipersensibilità e la foga. L’eccesso di sensibilità può fare da carburante alla rivoluzione e far battere più forte il sangue nelle vene delle folle infuriate, ma può anche suscitare dei sentimenti di comprensione, pietà e tenerezza. È proprio per questa sensibilità che il periodo dopo la rivoluzione è stato guidato dal desiderio di riabilitare le vittime della repressione e vendicare la loro morte. Ma per questa stessa sensibilità i figli non hanno ucciso i loro padri zombi.
    In molte immagini del libro fotografico di Pauline Beugnies, Génération Tahrir (Le Bec en l’Air 2016) si vedono accese conversazioni tra figlie e madri, tra giovani e vecchi. Le foto non possono trasmetterci il suono, il rumore delle discussioni, gli urli delle opinioni contrapposte. Ma ci mostrano con estrema chiarezza l’immensa autorità dei padri zombi e fino a che punto la generazione dei giovani resta prigioniera dei sen­timenti.
    Conoscevo molti ragazzi e ragazze che non hanno esitato a scendere in strada, bruciare pneumatici e mettersi in prima linea nella battaglia contro gli elementi criminali delle forze di polizia. Ma appena il loro telefono squillava, si appartavano in un posto tranquillo per rispondere alla madre: “Sto bene, sono lontano dagli scontri”. Dovevano pensare che la ribellione potesse esistere in una realtà parallela, lontana dalla vita familiare. Ho conosciuto attivisti che si battevano per i diritti degli omosessuali e non temevano di sollevare la questione in una società conservatrice come quella egiziana, che difendevano questi diritti nelle aule di tribunale e davanti alla polizia, ma non riuscivano a trovare il coraggio di dichiararsi omosessuali davanti ai genitori. Ho delle amiche che hanno continuato a mostrare il dito medio alla polizia con la testa alta mentre gli sparavano delle pallottole di gomma, ma che piangevano per le pressioni dei genitori e della società e per la difficoltà di immaginare un futuro che non prevedesse il matrimonio, la maternità o l’integrazione nel ciclo di produzione degli zombi.

    [st_quote author=””]Il generale non era particolarmente intelligente, ma gli sceicchi del Golfo lo sostenevano con entusiasmo[/st_quote]

    Questa esitazione vigliacca spiega perché la nostra generazione ha sempre cercato una via di mezzo, e alla fine è stata privata di tutto dai suoi padri. “Accogliete l’islam moderato, votate per Mohammed Morsi”, ci hanno detto i giovani islamisti. “L’islam è questione d’identità, una bella religione del giusto mezzo che può coesistere con la democrazia. La nostra identità nazionale non c’entra niente con la laicità”. E poi sono tornati i vecchi zombi, hanno detto che non c’era nessuna differenza tra i militanti dello Stato islamico e noi. Eravamo fratelli, dovevamo solo raggiungerli e combattere al loro fianco. Così i giovani democratici dell’élite urbana si sono precipitati tra le braccia di un governo civile guidato da un generale dell’esercito. Ci hanno spiegato che Al Sisi aveva occhi che irradiavano calore e affetto, e che avrebbe salvato la patria facendo diventare l’Egitto uno stato laico. Poi il generale ha proibito ogni dibattito, ci ha tolto la libertà di parola e ci ha sbattuto in galera. Quelli che sono rimasti fuori sono finiti bruciati nelle piazze o davanti agli stadi.
    Il generale non era particolarmente intelligente, ma gli sceicchi del Golfo lo sostenevano con entusiasmo, loro, i rappresentanti delle divinità occidentali nella regione. Così gli sceicchi, gli zombi e il generale hanno deciso di togliere ai giovani anche lo spazio virtuale. E su internet è arrivata la censura. Oggi basta un piccolo tweet per finire in carcere. Hanno speso centinaia di milioni per trasformare la rete in un enorme centro commerciale, controllandone il contenuto con l’aiuto di squadre che invadono i social network e impongono delle nuove mode. Se emerge la storia di un nuovo caso di tortura nelle carceri egiziane, viene rapidamente sepolta sotto montagne di post e di clic sull’ultima metamorfosi del sedere di Kim Kardashian.
    Qualche settimana fa ho cominciato ad avvertire un doloretto sordo al testicolo sinistro. Il medico mi ha detto che si tratta di varicocele. Mi ha consigliato di non restare in piedi troppo a lungo, di ridurre i rapporti sessuali e di astenermi dalle erezioni prolungate. Quando gli ho chiesto la causa del problema, si è limitato a rispondere, senza alzare gli occhi dal giornale: “Di solito è ereditario. Ma anche invecchiare non aiuta”.
    Niente più erezioni prolungate per la nostra generazione. Siamo dispersi in tutto il mondo. Alcuni sono in carcere, altri in esilio. Altri ancora sono pronti ad annegare nel Mediterraneo, o puntano a uscire dall’inferno e raggiungere il paradiso costruendosi una scala di teste tagliate che arriva fino a dio. Quelli che sono rimasti hanno provveduto ad assicurarsi un posto tra gli zombi. Appaiono in televisione come rappresentanti dei giovani, si scattano selfie con generali zombi e sceicchi zombi, e fanno a gara per accaparrarsi le briciole lasciate cadere dagli emiri e dagli sceicchi del Golfo.
    Ora è arrivato il momento di documentare, registrare e archiviare quel che è successo. E poi dobbiamo dire addio al nostro passato e alla gioventù.
    Diciamo addio ai nostri dolori e ai nostri affanni. Cerchiamo, da dentro, una nuova strada e una nuova rivoluzione. Il pericolo più grande è quello di abbandonarsi alla nostalgia, alle vecchie idee e ai vecchi princìpi, di immaginare che nel passato esista un’età dell’oro, un momento di purezza da ritrovare. Il pericolo più grande è venerare un’immagine. Qualunque forma di venerazione – della rivoluzione, dei martiri o dei valori superiori delle grandi ideologie – rischia di trasformarti in uno zombi senza che tu nemmeno te ne accorga.

    (Traduzione di Giuseppina Cavallo)

  • Quando la lingua diventa un passaporto. Conversazione con Rodaan Al Galidi, l’iracheno che scrive in olandese

    Quando la lingua diventa un passaporto. Conversazione con Rodaan Al Galidi, l’iracheno che scrive in olandese

    Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare l’autore de L’autistico e il piccione viaggiatore, tradotto in italiano e appena pubblicato da il Sirente (collana altriarabi), a Roma presso la libreria Griot di Trastevere, prima di una delle sue presentazioni romane.

    Ingegnere elettronico di formazione Rodaan fugge dall’Iraq e, dopo una serie di peripezie arriva in Olanda dove si stabilisce. La sua vita è piuttosto avventurosa perché per scappare dalla guerra finisce, dopo una serie di viaggi, in Thailandia dove ottiene un passaporto falso olandese e tenta di raggiungere l’Australia che era il suo sogno. Viene però fermato perché senza visto e quindi “rientra in patria”, ovvero approda in Olanda dove resta nove anni in un campo profughi prima di riuscire a inserirsi nel Paese.

    Qual è il tuo rapporto con la terra natale e quello con il paese adottivo? Entrambi infatti, a diverso titolo hanno per te un gusto un po’ amaro, conflittuale l’uno tanto da decidere di abbandonarlo, matrigna all’inizio l’altro.
    «L’Iraq non è un Paese per vivere ma per morire che offre solo la guerra. Dopo la laurea per non entrare nell’esercito di Saddam Hussein me ne sono andato. Quando sono arrivato in Olanda ho avuto subito la sensazione di una terra difficile riguardo all’accoglienza perché il Paese ha poco spazio, ha conquistato la terra metro per metro a fatica essendo sotto il livello del mare e non può permettersi il lusso di ospitare rifugiati. D’altronde gli stessi olandesi aspettano anni per trovare una casa. Il problema dello spazio è determinante. Non sono stato accolto, è vero, ma lo capisco.»

    Dal punto di vista letterario e culturale che cosa hai portato con te del tuo essere iracheno?
    «La paura per l’Iraq è un Paese senza libertà. Non ho portato qualcosa alla cultura olandese, anzi ho cercato di liberarmi da questo senso di oppressione; non ho aggiunto nulla. E’ invece la letteratura olandese ad avermi arricchito dandomi soprattutto il senso di cosa significhi convivere nella diversità, pur rimanendo legati alle proprie origini.»

    So che hai imparato l’olandese tanto da scrivere in questa lingua. Senti di appartenere alla cultura di questo Paese europeo?
    «Appartengo ad un gruppo di scrittori che non sono nativi dell’Olanda ma hanno deciso di scrivere in olandese perché è un modo di entrare nella vita del Paese. E’ un modo di ringraziare chi mi ha dato un permesso di soggiorno e il mio primo libro in olandese è stato il nuovo passaporto. In effetti c’è una ragione antica. Fin da piccolo volevo scrivere in una lingua europea per conquistare la libertà e sono cresciuto con la letteratura europea. Per Dante Alighieri ho avuto una vera folgorazione. Nell’arabo, al contrario, c’è sempre questo senso di contenimento.»

    Ma deriva dalla lingua, dal riferimento all’arabo classico come modello o dai governi dei paesi arabi?
    «Sicuramente dalle politiche nazionali e dalle circostanze religiose. La lingua come la musica sono pure.»

    Ti definiresti un autore “arabo” o mediorientale, sempre che abbia senso quest’etichetta?
    «No, olandese anche perché parlo della vita quotidiana olandese e di tutte le tipicità di questo paese. Sento di appartenere grazie alla lingua a questa nuova nazionalità e sento in tal modo di restituire una certa ospitalità. Scrivere in olandese è come pagare le tasse al Paese dove vivi.»

    Qual è il messaggio centrale del libro?
    «La morale è che l’arte può aprire delle porte verso il mondo anche per chi non è in grado di camminare da solo e in questo senso la metafora dell’autismo è emblematica, nel senso che siamo spesso imprigionati in noi stessi, da noi stessi mentre dobbiamo renderci conto che siamo creati per condividere.»

    Esiste un lettore “ideale” al quale hai pensato scrivendo questo testo?
    «Per me il lettore “ideale” è chiunque abbia tempo e voglia di leggere.»

    Com’è il tuo olandese, non in termini di qualità ma di timbro. Cosa è arrivato con il vento del deserto?
    «Quando leggo l’olandese mi sento olandese ma quando parlo mi accorgo di tante lacune, soprattutto al telefono anche perché gli olandesi sono dei perfezionisti eppure sono molto accoglienti e tolleranti e si sono prestati con grande disponibilità nella revisione dei miei testi. Credo che per gli olandesi il mio olandese offra una potenzialità nuova alla lingua, in particolare quando leggo i miei testi ad alta voce, in special modo le poesie, perché qualcuno dice che ha qualche difficoltà a comprendermi…sembra arabo. E’ la musicalità, l’intonazione che mi porto dentro, della lingua materna, che conferisce alla lingua adottiva una sua peculiarità.»

    Intervista di Ilaria Guidantoni

  • Lo scrittore Rodaan al Galidi dal 16 al 20 marzo in Italia

    Lo scrittore Rodaan al Galidi dal 16 al 20 marzo in Italia

    Lo scrittore olandese Rodaan al Galidi, vincitore dello European Union Prize for Literature, dal 16 al 20 marzo sarà in Italia per presentare il suo libro “L’autistico e il piccione viaggiatore”

    Secondo titolo della collana Altriarabi Migrante sostenuta dall’Unione Europea,  “L’autistico e il piccione viaggiatore” narra la storia di Geert, un bambino geniale dalla mente infaticabile, che tuttavia instaura un legame più profondo con gli oggetti del negozio dell’usato dove lavora sua madre, che con il mondo esterno. Geert passa le serate smontando gli oggetti e ricombinandoli tra loro, finché al negozio non arriva un vecchio Stradivari: è l’inizio di una strana epopea che vedrà Geert diventare un celeberrimo costruttore di violini. Tra i personaggi di questa storia, un papà a forma di cannuccia, un maiale di nome Sinatra, una ragazza perennemente bagnata come le strade olandesi e un ostinatissimo piccione viaggiatore che aiuterà Geert a uscire dal suo guscio.

    Vincitore con questo titolo del European Union Prize for LiteratureRodaan al Galidi ha una biografia particolare. Nato in Iraq è fuggito dal suo paese natale ed è arrivato in Europa come clandestino, quindi richiedente asilo, l’Olanda gli aveva negato l’accesso ai corsi ufficiali di lingua che ha quindi appreso come autodidatta diventando un autore noto e vincitore di vari premi.

    Incontri con l’autore:

    Mercoledì 16 Marzo 2016 ore 18 – Reale Istituto Neerlandese – Via Omero 12, Roma Intervengono: l’autore, il direttore del KNIR prof. Harald Hendrix, il traduttore del libro Stefano Musilli, l’editore, modera Francesca Bellino. Letture dal libro in italiano e olandese a cura dell’autore. A seguire buffet offerto dal Knir.

    Giovedì 17 Marzo 2016 ore 19Libreria Griot – Via di Santa Cecilia, 1a Roma Intervengono: l’autore, il traduttore del libro Stefano Musilli, l’editore, modera Chiara Comito. Letture dal libro in italiano a cura di Donatella Vincenti.

    Venerdì 18 Marzo 2016 ore 18CIES onlus – Via delle Carine, 4 Roma  Intervengono: l’autore, Maria Cristina Fernandez (responsabile CIES), il traduttore del libro Stefano Musilli e l’editore. Letture dal libro in italiano.

    Sabato 19 Marzo 2016 ore 18,30Libreria Les Mots –  Via Carmagnola, 4, Milano Intervengono: l’autore e l’editore, modera Shady Hamady (Il Fatto Quotidiano). Letture dal libro in italiano.

    Domenica 20 Marzo 2016 ore 18,00Bellissima Fiera di Libri e cultura indipendente Sala S2 – Palazzo del Ghiaccio, via di Piranesi, 10  Milano Intervengono: l’autore e l’editore, modera prof. Jolanda Guardi (esperta di Letteratura araba). Letture dal libro in italiano.

  • ARRESTATO LO SCRITTORE EGIZIANO AHMED Nàgi

    ARRESTATO LO SCRITTORE EGIZIANO AHMED Nàgi

    da Editoriaraba 21 gennaio 2016 

    Ahmed Nàgi

    Lo scrittore egiziano Ahmed Nàgi ieri è stato condannato a due anni di prigione dal Tribunale penale di Bulaq, che lo ha trovato colpevole di “offesa alla morale pubblica” a causa del contenuto di un capitolo del suo ultimo libro, Istikhdam al-Hayat (L’uso della vita).

    Il capitolo incriminato era stato pubblicato lo scorso anno come estratto su un numero della rinomata rivista letteraria Akhbar al-Adab, il cui editore, Tarek al-Taher, ieri è stato condannato a una multa di 10mila lire egiziane. Su editoriaraba avevo pubblicato la traduzione in italiano del capitolo, tradotto da Elisabetta Rossi con Fernanda Fischione. 

    Era stato un certo Hani Saleh Tawfiq, un uomo di 65 anni, ad accusare nell’agosto del 2014 l’autore e il suo editore di aver pubblicato quello che a suo dire era un articolo di natura “sessuale” che danneggiava non solo la sua salute e la sua morale, ma quelle di tutto l’Egitto.

    Naji e al-Taher erano quindi già andati a processo ed erano stati prosciolti lo scorso gennaio, con la motivazione che il Codice penale egiziano era “troppo rigido per poter essere applicato a questioni che riguardavano la libertà di espressione personale”, ma l’accusa ha poi fatto appello.

    L’avvocato di Naji ha riferito a Mada Masr Ahmed Nàgiche il giovane autore è stato arrestato subito dopo che il verdetto è stato emesso. L’intera comunità intellettuale e la società civile egiziana sono sotto shock.

    The Tahrir Institute for Middle East Policy (TIMEP) ha lanciato una petizione su change.org in cui accusa apertamente il regime di al-Sisi di voler schiacciare il dissenso interno e di attentare alla libertà di espressione e alle libertà civili delle persone con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai fallimenti in politica interna e in politica economica.

     

  • SIRIA – Un poeta contro il baratro (R. Michelucci)

    SIRIA – Un poeta contro il baratro (Riccardo Michelucci, Avvenire, 30/12/2015)

    La Siria avrà un futuro di pace perché non si possono sconfiggere le colombe «che continuano a volare istericamente in cielo durante i bombardamenti. Come l’aereo sparisce dal cielo, patria delle colombe, così la tirannia sparirà dalla mia patria, perché le colombe ci sono alleate nel viaggio verso la libertà».

    La letteratura e la poesia hanno aiutato Muhammad Dibo, giornalista e scrittore siriano non ancora quarantenne, ad affrontare la mostruosa esperienza delle carceri siriane, l’angoscia, l’umiliazione, la tortura. Adesso rappresentano la stella polare delle speranze che nutre per il futuro del suo paese. Arrestato, incarcerato e torturato per aver preso parte fin dal 2011 alla rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad, i suoi compagni di cella l’avevano soprannominato ‘il poeta perfido’ perché nei lunghi periodi di detenzione recitava a memoria le poesie del mistico al-Hallaj e del grande poeta arabo al-Mutanabbi. «Farlo mi rendeva felice – ci racconta oggi dal suo esilio a Beirut – perché nei loro visi vedevo il desiderio di libertà e riuscivo, almeno in quei momenti, a farli evadere da un mondo di oppressione verso il mondo dell’amore e della poesia. La bellezza della poesia ci aiutava a dissolvere le tenebre  e a resistere al carcere e alla morte».

    Proprio in questi giorni è arrivato nelle librerie italiane il suo ultimo libro E se fossi morto?, pubblicato dalle edizioni Il Sirente con la traduzione di Federica Pistono, un’opera assolutamente originale, a metà strada tra il romanzo, il trattato politico e il diario intimistico, nella quale Muhammad Dibo ci offre una lunga testimonianza sulla Siria contemporanea, dalle primavere arabe alla successiva repressione, fino agli odierni interventi stranieri.

    Quale può essere il ruolo degli intellettuali siriani di fronte a quanto sta accadendo?
    «Gli intellettuali hanno un compito molto importante oggi in Siria, perché devono raccontare alla gente la verità, e devono farlo senza ambiguità. Devono spiegare al popolo la complessità di questo momento e renderlo comprensibile a tutti. Il suo compito oggi appare più importante che in passato, perché in virtù della sua cultura è il solo capace di guardare oltre la superficie, attraverso le tenebre e il caos, di vedere gli errori di un popolo e di affrontare la verità, a qualunque prezzo. L’intellettuale ha inoltre il compito di trasmettere la speranza alle persone, rassicurandole sul fatto che ciò che sta accadendo oggi non rappresenta la fine della storia. In fondo al tunnel c’è la speranza, nonostante tutte le difficoltà, e bisogna lavorare per realizzarla».

    Ma come può lei nutrire ancora speranza nel futuro?
    «Quando mi interrogano sul futuro, mi piace rispondere che vedo con pessimismo il futuro a breve termine ma sono molto ottimista per quello a lungo termine. Ciò significa che i prossimi cinque-dieci anni saranno un periodo molto duro per noi siriani, un inferno in cui ci sarà caos e assoluta mancanza di orizzonti. Una fase simile a quella che la Siria ha vissuto tra il 1920 e il 1936. Ma sono sicuro che la Siria riuscirà a rialzarsi con le proprie gambe, troverà la strada verso la libertà e il posto che merita nel mondo, nonostante il disastro di oggi. Ne sono sicuro come sono sicuro del fatto che sto scrivendo queste righe».
     
    Lei è caporedattore della testata dissidente ‘Syria Untold’ e collabora con numerose testate internazionali, occupandosi di attivismo civile. Ha quindi uno sguardo privilegiato sull’attualità. Come immagina il suo paese tra dieci o vent’anni? «Personalmente, sto lavorando oggi per la Siria del futuro dal momento che, nonostante la cupa disperazione e la morte, spero che la Siria, tra venti o trent’anni, sia diventato uno Stato unitario, laico e democratico. Mi auguro di raggiungere questo obiettivo, anche dopo un lungo percorso».

    In che modo l’Occidente dovrebbe affrontare la crisi siriana?
    «Innanzitutto dovrebbe impegnarsi a non mantenere in piedi la dittatura con il pretesto della lotta al Daesh, perché la sopravvivenza della dittatura implica la continuazione della guerra. Poi credo che la risposta al terrorismo dello Stato islamico non debba essere solo di natura militare, ma sia necessario anche eliminare le cause che hanno prodotto fenomeni come il Daesh».

    Com’è oggi, la sua vita in esilio?
    «Sono in Libano perché amo il mio Paese e voglio restargli vicino ma non sono stato io a scegliere l’esilio: è lui che ha scelto me. Non ho scelto il Libano, sono stati la necessità e il caso a trattenermi fino ad ora in questo paese. Ogni mattina mi chiedo cosa ci faccio qui, mentre la vita passa. Resto in Libano perché è il paese più vicino alla Siria, e da qui è possibile aiutare i miei a casa, restare in contatto con ciò che succede e con coloro che escono dal mio paese. La mia famiglia è ancora in patria, ma qui i miei familiari possono venire a trovarmi e io posso comunicare con loro. Sono qui perché rifiuto l’idea di essere un profugo costretto a elemosinare cibo, acqua e protezione, perché l’inferno costruito da Assad costringe il nostro popolo a una vita disumana. E poi, forse sono in Libano anche perché mi sono immerso nel lavoro e non ho pensato a un’altra opzione».

  • Europa Creativa

    Europa Creativa

    The Project “Altriarabi Migrante” consists of eight volumes. The selection includes works published between 2003-2014 by Authors of Arab origin (1°-2° generation) of both sexes, born from 1971 to 1992, from France, United Kingdom, Germany, Netherlands and Sweden (countries with the highest percentage of Arab immigrants). The books have a high quality, which has allowed them to win prizes. The works are characterized by an analysis of the sense of belonging and national identity, torn between the land of origin, modernity and Europe and the discomfort this conflict brings. Strong themes of cultural hybridization emerge: in some works it arises from a language mixed with Arabic words and hybrid structures between new and original language. There is a constant reformulation of power relations between real and symbolic centres and fringes.
    In summary, serious political issues are featured, such as the problems inherent to suburbs, gender, war and how to cope with it in a positive way, refugees and disabilities (e.g., some forms of autism). This model is extremely current and the translation helps these themes to be transnational and to reflect and develop ideas among European citi-zens.
    The collection and the choice of these volumes aim to build a platform of European authors with Arab origins, who together will be able to create a debate aimed at overcoming barriers and examining in depth ideas for intercultural integration. The project’s audience includes, in addition to traditional readers, migrants with various ethnic origins, religions and beliefs; disadvantaged groups; women and disabled people. To give to the product high accessibility, the cover price will be kept low and will be designed as e-books.
    This series aims to fight Islamophobia, allowing readers to understand people of Arab origin living in Europe. The idea includes – at the end of the translation project – an event where the 8 authors meet in person to discuss inter-cultural integration in Europe.

  • Immigrazione a fumetti

    Immigrazione a fumetti

    Silvia Del Vecchio (La Freccia, Novembre 2015)

    “Sono padre di una bambina portatrice di trisomia 21, sindrome di Down. Andava in una scuola frequentata prevalentemente da figli di migranti, ogni giorno incontravo i genitori all’uscita e mi rendevo conto che questi padri utilizzavano esattamente le stesse parole che usavo io per la situazione della nostra bambina. Lì ho capito che la paura dell’altro e del diverso non è un problema di razzismo ma di difficoltà di integrazione.” Così l’autore di Se ti chiami Mohamed, Jérôme Ruillier, racconta di vite precarie umiliazioni e relazioni complesse che in tanti portano con sé dal paese d’origine e quello d’accoglienza. Reportage lontani dai cliché che abbracciano con forza vari temi, dalla ricerca identitaria all’esclusione sociale, e sollevano quei dubbi e interrogativi che oggi più che mai interessano il cittadino europeo. Un graphic novel sull’immigrazione maghrebina in Francia dal 1950 ai nostri giorni. Jérôme Ruillier sarà a Cagliari venerdì 13 per parlare del suo libro Se ti chiami Mohamed  ore 17,00 Festival Nues – Nuvole dal Fronte (Fumetti e Cartoni nel Mediterraneo, VI Festival Internazionale), nella sezione “Storie Migranti, le ragioni degli altri” giornata di approfondimento sui fenomeni migratori.