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  • Il petrolio e la gloria, tutto inizò nel Mar Caspio

    | AGI | Sabato 8 agosto 2009 | Antonio Lucaroni |

    Nel 13esimo secolo Marco Polo narra di cammellieri che esportavano petrolio da Baku, la capitale dell’Azerbaigian, nella zona del Mar Caspio, una regione al centro di contese etniche e belliche gia’ dai tempi di Alessandro il Grande. Un greggio denso, odoroso, non raffinato, esportato in tutto il Mediterraneo, fino a Baghdad, per essere usato come mezzo di illuminazione e come balsamo. Un “oro nero” che in quella localita’ era ed e’ particolarmente abbondante, fino al punto di sgorgare naturalmente dal terreno. Da quel momento il petrolio entra prepotentemente nella storia dell’uomo, marchiandone ineludibilmente lo sviluppo economico. E quell’area geografica, il Mar Caspio, diventa il crogiuolo di pulsioni di grandezza e di volonta’ di dominio ma anche di grandi aspirazioni di progresso e di crescita. La storia del petrolio del Caspio, e piu’ in generale della zona del Caucaso, ha le sue origini nel diciannovesimo secolo. La “febbre del Caspio” era cominciata gia’ al tempo degli Zar; quando si scavarono i primi pozzi di petrolio vicino a Baku, nella regione dell’Azerbajan, e da quel momento fasi di ricchezza e prosperita’ si alternano a depressione e poverta’. Ma quella regione diventa anche uno scenario sul quale si confrontano e spesso si scontrano, gli interessi e le aspettative delle grandi potenze internazionali: un campo da gioco dove tutti i colpi sono ammessi. E’ questo il grande affresco che viene tratteggiato dal libro di Steve LeVineIl petrolio e la gloria. La corsa al dominio e alle ricchezze della regione del Mar Caspio“, edizioni ‘il Sirente‘. Un excursus storico, quello di LeVine, che arriva fino ai giorni scorsi, scritto con grande attenzione ai personaggi, alle storie avventurose che hanno caratterizzato, negli anni, il confronto tra le Nazioni per il controllo dell’oro nero. Una battaglia condotta spesso in modo spregiudicato, caratterizzato da un clima da spy-story di inizio secolo, poi da ‘guerra fredda’, infine dall’ingresso sulla scena del mondo dell’alta finanza e delle superpotenze economiche.
    Un libro avvincente, che squarcia il velo su un mondo duro e senza scrupoli e che mostra – guardando con una lente d’ingrandimento le vicende legate al Mar Caspio – quanto la ricerca del petrolio e, ancor di piu’, i tentativi di appropriarsene, abbiano influenzato il destino dell’umanita’. In questo senso LeVine sfrutta la sua formazione professionale – giornalista di lungo corso che ha lavorato proprio in quelle zone – per ricostruire, come in un giallo, la scena del delitto, i protagonisti, i retroscena e i segreti che muovono i tanti ‘attori’ di questo libro, a meta’ strada fra l’inchiesta e il romanzo. Forse l’unico appunto che si puo’ muovere, e’ che l’autore propone una visione ‘anglocentrica’ dell’intera vicenda, mettendo sullo scacchiere il ruolo della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e di una Russia all’affannosa riconquista di un ruolo da superpotenza sfruttando le risorse energetiche. Nel libro, insomma, manca un po’ il ruolo esercitato dagli altri Paesi grandi produttori di petrolio, o dai grandi Paesi consumatori di energia – come la Cina e l’India, la cui immensa domanda di petrolio e gas modifica e modifichera’ sempre di piu’ il mercato dell’energia – o, ancora, dagli outsider che, tuttavia, avevano capito le potenzialita’ di sfruttamento di quella regione. E’ il caso di Enrico Mattei che fin dagli Anni ’50 – attraverso l’Agip – aveva allacciato rapporti e sottoscritto contratti con l’allora Urss. E non a caso l’autore conclude la sua opera con un esplicito richiamo – che sa un po’ di nostalgia o di visione schematica del mondo – al ‘duello’ Russia-Usa per il dominio politico ed economico.

  • Titusville, la città-fantasma che inventò l’oro nero

    La Repubblica | Domenica 26 luglio 2009 | Vittorio Zucconi |

    TITUSVILLE (Pennsylvania). Tutto quello che resta del fiotto che allagò la Terra è un’ ampollina di liquido scuro, esposta ai fedeli dietro una vetrina, come la reliquia di un santo. «Petrolio», mi addita senza toccare l’ ampolla la signora Zolli, direttricee sacerdotessa di questo tempio-museo costruito fra le quiete colline della Pennsylvania, accanto a un bosco di larici e di cervi, esattamente sopra il terreno dal quale, il 27 agosto del 1859, un avventuriero che si faceva chiamare «colonnello» fece sgorgare il greggio dalla terra perforata. E lanciò, senza neppure rendersene conto, quella rivoluzione e quella industria che oggi muovono il pianeta Terra e che lo stanno asfissiando. Se nell’ Inghilterra del carbone e del vapore cominciò la rivoluzione industriale, fu da qui, dalla terra che un tempo apparteneva alle sei nazioni degli Irochesi che raccoglievano col cucchiaino il «succo delle rocce» in superficie per usarlo come medicinale, che si avviò quella carovana di barili, oleodotti, petroliere, raffinerie, stazioni di servizio, catene di montaggio e armi che raggiungono sei miliardi di esseri umani, poveri o ricchi, ovunque un sacchetto di plastica arrivi. ( segue dalla copertina) Eppure luogo meno trionfale, meno pomposo, più timido, con la scontrosità della Pennsylvania che Michael Cimino raccontò nel suo Cacciatore, potrebbe essere immaginato di questa languida cittadina di seimilaquattrocento abitanti, molti dei quali studenti in un campus della Università di Pittsburgh. Un villaggio qualsiasi, nel «grande ovunque americano», che sta nascosto tra le infinite valli degli antichissimi monti Appalachiani, la spina di roccia logorata dalle ere geologiche fra l’ Alabama e Terranova. Ironicamente, per il Paese che inventò l’ industria del petrolio, nessuna autostrada lo raggiunge, nessun viandante lo attraversa se non smarrisce la strada, e rari turisti transitano avanti e indietro lungo una Main Street rimasta intrappolata nel tempo, dove non ti sorprenderebbe vedere Superman bambino sulla Ford Modello T del padre. Soltanto perché io sono l’ unico passeggero, e visibilmente adulto, sul finto tranvaino turistico che offre per cinque dollari il giro della città, la guida mi addita, con pudore, un palazzetto di mattoni rossi a tre piani che negli anni della “corsa al petrolio” era il più vivace e frequentato bordello della contea. E oggi ospita, per pura coincidenza, un negozio di abiti da sposa che quelle povere ragazze di fine Ottocento costrette ad amplessi fetidi coni trapanatori del petrolio avrebbero sognato invano. Tutto quello che rimane del fiotto che sgorgò dal campo dove ora sorge il museo è appena abbastanza greggio per alimentare la riproduzione (autentica, come si dice qui) della prima trivella del finto colonnello Edwin Drake, un secolo e mezzo fa, e per mostrare ai visitatori delle scuole come funziona l’ estrazione del petrolio che non c’ è più. Se Titusville, battezzata con il nome del fondatore, non è diventata una città fantasma come le città minerarie del C o l o r a d o , d e l Klondike, della California quando le vene aurifere si esaurirono, è per il campus universitario e per la presenza di una fabbrica di plastica, alimentata con il petrolio importato dall’ Arabia Saudita. Due motel a una stellina, l’ immancabile grande magazzino di ciarpame made in Cina, il Wal Mart, quattro saloone una dozzina di ristoranti alla svelta sono tutto quello che rimane di una scoperta che avrebbe prodotto, centocinquanta anni più tardi, una ricchezza mondiale da milletrecento miliardi di dollari annui per le nazioni produttrici di petrolio. E che qui, nella terra spompata, è un ricordo. Il petrolio greggio, per chi non lo avesse mai visto da vicino, è una cosa che fa schifo, come è ovvio che sia un distillato di putrefazioni organiche millenarie. Ma qui non si avverte più nell’ aria quell’ odore di corruzione sulfurea che mi rimase per sempre nelle narici dai giorni della Prima guerra del Golfo, quando Saddam Hussein nel febbraio del 1991 allagò il Kuwait per la rabbia di averlo perduto. Sono ormai solo i nomi dei paesi e dei luoghi che si attraversano nel labirinto degli Appalachiani per raggiungere Titusville da Pittsburgh che ricordano che cosa esplose qui, nomi come Oil City, Pithole (il buco del pozzo, oggi villaggio fantasma) e Oil Creek, il torrente del petrolio, nel quale ancora affiorano striature luminescenti di greggio. Alla metà dell’ Ottocento, quando arrivò il “colonnello” Drake, che si era attribuito il grado fasullo, il fetore di petrolio era pungente. Furono quell’ odore, la tradizione dei nativi che lo scucchiaiavano dalle pozzanghere e il traffico dei pochi barilotti usati per accendere i lumi a petrolio ad attirare il “colonnello” e a spingerlo a chiedere i diritti di esplorazione al proprietario dei terreni, che neppure immaginava di essere seduto sopra il futuro del mondo. Drake arrivò a Titusville quando il paese era un grumo di casette di legno attorno a un “trading post”, un emporio per il commercio con gli indiani della vicina valle dell’ Ohio, con una borsa di pelle, un cambio di mutandoni, duemila dollari in contanti ottenuti da finanziatori di Wall Street e lo spazzolino da denti con le setoline logore che la badessa del tempio, la signora Zolli, figlia di generazioni di immigrati italiani piovuti sulla Pennsylvania, mi mostra compiaciuta. Ai geologi, come agli abitanti originali degli Appalachiani, la presenza di petrolio nel sottosuolo era evidente,e la nafta, da esso derivata, era conosciuta all’ umanità da secoli, probabilmente parte della inestinguibile miscela infernale che le navi di Bisanzio lanciavano sulle flotte nemiche, il fuoco greco. Ma quando, dopo ripetuti fori nella terra, e debiti per rifinanziare la ricerca, il primo “gusher”, il primo fiotto uscì dal praticello fangoso, la sua intuizione non fu la materia oleosa succhiata ai sedimenti lasciati dall’ oceano tiepido che aveva inondato questa valle per milioni di anni. Fu nella visione della domanda insaziabile che il mondo avrebbe sviluppato per quella schifezza maleolentee fino ad allora quasi inutile, perché il petrolio in quel 1859 era una soluzione alla ricerca di un problema. Un carburante senza un motore. Mancavano ancora diciassette anni alla messa a punto del primo motore a quattro tempi e a combustione interna, creato da Daimler, Otto e Maybach nella lontanissima Germania. E decenni alla scoperta della superiorità del motore diesel sulle caldaie a carbone per le navi da battaglia, insaziabili divoratrici di nafta. Ma qualcun altro, anche meglio del finto colonnello, aveva capito quale inimmaginabile ricchezza la sua trivella in Pennsylvania aveva stappato. Il suo nome era John D. Rockefeller, piccolo commerciante di Cleveland, che dieci anni dopo la scoperta del giacimento nel cuore dei monti della Pennsylvania già si era impadronito del controllo dell’ ottanta per cento di tutte le raffinerie della regione, necessarie per trasformare il brodo nero in carburanti, con la sua Standard Oil. La reazione a catena che avrebbe travolto l’ intero pianeta era partita. In tre anni, le catapecchie di Titusville sarebbero cresciute per ospitare quindicimila persone, il doppio di oggi, diecimila nella vicina Pithole, ventimilaa Oil City, con tralicci fitti come oggi i larici e i pioppi che hanno misericordiosamente ricoperto e risanato la terra trasformata in fango dalle ruote dei carri e dagli zoccoli dei cavalli F che trasportavano le botti. Pozzi e trivelle spuntarono a caso, senza regole o norme di sicurezza, comei cercatori d’ oro coni pentolini nel Klondike, talmente vicini e fitti da scatenare incendi ed esplosioni che in un solo giorno avrebbero incenerito ottanta persone, cremate e raccolte in una fossa comune senza crocio nomi. Sgorgarono marche di lubrificanti e carburanti destinate a stamparsi sulle pareti di ogni garage, Quaker Oil, dalla setta di quaccheri che qui erano emigrati, Pennzoil, Kendall, Sunoco, e la più celebre, la Exxon, partorita dalla Standard Oil dei Rockefeller,a sua volta figlia della Pennsylvania Rock Oil Company. Titusville era diventata la città del fango, dove era più faticoso estrarre i carri dalla terra collosa che estrarre il petrolio. Una vampata che, come quella che consumò la vita di ottanta uomini, cominciòa spegnersi nei primi anni del Ventesimo secolo, quando un oceano incomparabilmente più vasto e facile da estrarre fu scoperto sotto la prateria del Texas. Il regno di Titusville, i suoi sontuosi bordelli e saloon, le fonderie che erano spuntate nelle valli vergini degli altri fiumi vicini, il Monogahela, il fiume della luna, l’ Ohio, l’ Allegheny, conobbero una seconda, fuligginosa primavera nella Seconda guerra mondiale, quando si dissanguarono per alimentare la mobilitazione bellica. Mentre Detroit era l’ arsenale della democrazia, Titusville e la sua regione fornivano il carburante per far funzionare le macchine da guerra. Oggi il “jurassic park” della rivoluzione nera sta esausto, come se il parto di quella mostruosità l’ avesse sfiancato. I sedicimila pozzi ancora attivi in queste valli producono 4.027 barili al giorno, appena un cucchiaio di “olio di roccia” rispetto agli otto milioni di barili pompati – ogni giorno – soltanto dai deserti d’ Arabia. Resta, sotto l’ occhio affettuoso della signora Zolli, la reliquia di un santo che li ha sedotti e abbandonati. Il tranvaino per turisti che non ci sono funziona a batterie elettriche, per non inquinare la città fossile di un combustibile fossile.

  • Sole, atomo, idrogeno Cosa c’ è dopo Big Oil

    La Repubblica | Domenica 26 luglio 2009 | Maurizio Ricci |

    L’ossessione del mondo per il petrolio non è irragionevole. Al contrario, è assolutamente ragionevole: niente contiene così tanto in così poco. Un solo litro di benzina vale 9 kilowattore di energia, il 30 per cento in più di un litro (per dire) di bioetanolo. Non c’ è da stupirsene: quel litro di benzina è figlio di 25 tonnellate di antiche piante, lasciate a cuocere nel sottosuolo per decine di milioni di anni, fino a diventare petrolio. L’ uomo, per ora, non è in grado di replicare un simile concentrato di energia, prontamente usabile e trasportabile. Peraltro, ci vorranno oltre quarant’ anni, dalla prima trivellazione del colonnello Drake, perché il mondo si renda conto della portata rivoluzionaria di quella scoperta. Alla fine dell’ Ottocento, il petrolio, oltre che per le ultime lampade pre-Edison, veniva usato sempre più per le prime automobili, ma in concorrenza con un ventaglio di altri carburanti. All’ Expo di Parigi del 1900, Rudolf Diesel esibì, con orgoglio, il primo motore, appunto, diesel. Che funzionava, però, a noccioline: il carburante era olio di arachidi. In quel momento, in tutti gli Stati Uniti, c’ erano complessivamente quindicimila automobili. ( segue dalla copertina) Tutto cambia, solo pochi mesi dopo: il 10 gennaio 1901, l’ ex capitano della marina austriaca Anthony Lucas, esperto di miniere di sale, trova il petrolio sotto la collina di Spindletop, nel Texas orientale. Spindletop non è il primo pozzo. Ma è il primo megapozzo. Fino ad allora, i giacimenti producevano, in media, fra i 300 e i 1000 barili al giorno. Spindletop ne sputa 110mila al giorno. Una eruzione immane: il più grosso problema per Lucas fu capire come contenere quel getto che stava inondando ettari e ettari di terreno. Era la dimostrazione che il petrolio era una fonte d’ energia abbondante e facilmente disponibile. Presto, la rivoluzione sarebbe diventata mondiale. Nel 1908, l’ Anglo Persian Oil Company (poi Bp) trova in Iran alle pendici dei monti Zagros, un giacimento con riserve per un miliardo e mezzo di barili, cambiando, di colpo, la storia del Medio Oriente. Ma la rivoluzione ancora non è compiuta: gli ingegneri devono aggiustare il giovane motore a scoppio per poter utilizzare la benzina invece di un altro (e più costoso) distillato del petrolio, il kerosene. Solo nel 1919, chiusa la Prima guerra mondiale, nelle 667mila auto in circolazione negli Usa il numero di quelle a benzina supererà quelle a kerosene.E bisognerà aspettare la fine della Seconda guerra mondiale perché il petrolio invada il mondo. A questo punto, infatti, i passaggi chiave, nel romanzo dell’ oro nero, sono due. Il primo avviene nei deserti dell’ Arabia saudita, dove la Standard Oil (poi insieme alla Texaco) trova un oceano di petrolio. È vicino alla superficie, vicino al mare. Estrarlo costa pochi spiccioli: due dollari a barile. L’ energia a prezzi stracciati diventa il volano di un imponente sviluppo economico, che le auto sempre più grandie potenti simboleggiano ai quattro angoli del mondo industrializzato. Attenzione, però: l’ equazione petrolio uguale auto è sbagliata. Solo il 50 per cento dell’ oro nero viene bruciato nei trasporti. Guardate questa lista: microchip, telefoni, detersivi per lavapiatti, piatti infrangibili, sci, lenti a contatto, anestetici, carte di credito, ombrelli, dentifrici, valvole cardiache, paracadute e si potrebbe continuarea lungo. Sono tutti derivati del petrolio. Il secondo passaggio chiave è l’ invenzione della plastica. Non ci muoviamo solo con il petrolio. Ci nuotiamo dentro: il petrolio è tutto intorno a noi (nel caso delle valvole cardiache, anche dentro). Farne a meno sarà doloroso e difficile. Ce ne siamo resi conto, una prima volta, negli anni Settanta, quando l’ embargo dell’ Opec (i paesi produttori) lo rese scarsoe costoso. E, ancora di più, negli ultimi anni, con il prezzo del barile in ascesa, apparentemente, irrefrenabile. Cosaè successo? Di fatto nessuno nega che sia finita l’ era del petrolio facile, abbondante e poco caro. Ma sul perché esistono due interpretazioni. La prima è politica. Il petrolio c’ è, e in quantità adeguate, peccato che sia nei posti sbagliati. Nel 1954, con un colpo di Stato, la Bp riuscì a rovesciare la nazionalizzazione del petrolio iraniano, ma, negli anni Ottanta, quando a nazionalizzare furono i sauditi e poi tutti i paesi del Golfo Persico, le multinazionali si ritirarono in buon ordine. Oggi, il grosso del petrolio rimasto nel sottosuolo è di proprietà di compagnie nazionali che, dicono i sostenitori di questa tesi, non investono nella ricerca di nuovi pozzi e hanno di fatto interesse a tenersi stretta, finché dura, questa fonte di ricchezza. La seconda interpretazione è geologica. Qui, la data cruciale nonè il 1980e la nazionalizzazione del petrolio saudita, ma dieci anni prima, nel 1971, quando la produzione americana di petrolio ha raggiunto il suo picco e ha iniziato inesorabilmente a scendere, trasformando gli Usa nei maggiori importatori di petrolio al mondo. Lo stesso processo, dicono questi geologi, è destinato a ripetersi via via in tutto il mondo. Il petrolio diventerà sempre di meno, sempre più difficile e costoso (sotto la banchisa artica, in fondo all’ oceano) da estrarre. Da due anni a questa parte è lo schieramento dei geologi che guadagna consensi. Gli organismi internazionali rivedono al ribasso le stime sulla disponibilità di petrolio nei prossimi decenni. Gli uomini delle multinazionali sono anche più bruschi: Cristophe de Margerie, boss della Total, uno dei grandi di Big Oil, ha detto recentemente che «il mondo non riuscirà mai a produrre più di 89 milioni di barili al giorno». Oggi, siamo già a 85 milioni. E poi? La rivoluzione del colonnello Drake e del capitano Lucas l’ abbiamo bruciata in centocinquant’ anni. Nessuno sa se il futuro sarà il sole, l’ atomo o l’ idrogeno. L’ era del dopo-petrolio si apre con molte domande e poche risposte.

  • Khaled Al Khamissi, “Taxi. Le strade del Cairo si raccontano”

    Khaled Al Khamissi, “Taxi. Le strade del Cairo si raccontano”

    Cronache da Thule | Mercoledì 29 luglio 2009 | Luca Rota |

    Analfabeti e diplomati, sognatori e falliti, taciturni e loquaci, chi racconta barzellette e chi commenta la situazione in Iraq. E’ la variegata galleria di tipi e personaggi in cui capita di imbattersi salendo su un taxi al Cairo, e le cui voci vengono ora raccolte in un libro pubblicato da poco in Egitto e diventato presto un successo,”Taxi” (Conversazioni in tragitto), del giornalista e regista Khaled al Khamissi. Il libro raccoglie in 220 pagine 58 racconti-monologo che hanno la voce degli autisti di taxi del Cairo: storie tratte dalla realtà, ma romanzate, e raccontate in un linguaggio colloquiale, che differisce molto dalla lingua letteraria usata dalla maggior parte degli scrittori egiziani, e che forse costituisce il segreto del successo di questo libro. Il volume, pubblicato a inizio gennaio, dopo tre mesi aveva già venduto 20mila copie e ora è già stato ristampato tre volte. I tassisti protagonisti di questo libro sono assai differenti, sognatori e filosofi, misogini e fanatici, contrabbandieri e falliti, mistici e comici con quell’ironia così particolare dei cairoti magistralmente descritta dallo scrittore Albert Cossery, ma accomunati da uno stesso destino: quello di dover lottare quotidianamente per farsi strada, nel senso letterale della parola, in un mondo rumoroso e caotico. Nei confronti di questa categoria spesso poco amata e stigmatizzata dagli abitanti del Cairo, l’autore non nasconde di nutrire una particolare simpatia: nell’introduzione alle conversazioni,infatti, al Khamissi ricorda quello che spesso i clienti di un taxi al Cairo dimenticano, ovvero che i tassisti appartengono per lo più a categorie sociali tra le più bistrattate economicamente, i loro nervi sono messi alla prova dal caos delle strade del Cairo, una metropoli bellissima ma inquinata e polverosa formicolante di oltre 16 milioni di abitanti, attraversata ogni giorno in totale da 22 milioni di persone, in macchina, autobus e metropolitana ma anche su carretti trainati da asini e vesponi Piaggio. Con un sottofondo perenne di clacson e una sorprendente commistione tra città, campagna e deserto. Lo descrive bene, l’autore, il loro inferno: “E’ un mestiere sfiancante, lo stare sempre seduti in automobili poco confortevoli distrugge le loro colonne vertebrali, l’incessante rumore delle strade del Cairo demolisce il loro sistema nervoso, i perenni imbottigliamenti li sfiniscono nervosamente e il correre dietro il loro sostentamento – correre nel senso letterale del termine – elettrizza i loro corpi. Aggiungete a questo le trattative e le litigate con i clienti per il prezzo da pagare in assenza di tachimetri, e il tormento dei poliziotti che li inseguono…”. L’autore si sofferma anche sulle loro riflessioni sul proprio Paese, i giudizi sui dirigenti, le critiche alla corruzione dei poliziotti, le molte parole che quasi tutti spendono sulla situazione in Iraq e sull’America: ne risulta una sorta di documento sulla vita quotidiana del Cairo, composto da porzioni di reale che non corrispondono nè all’immagine mostrata ai turisti, nè a quella fornita dalla produzione letteraria o cinematografica.

  • Il prossimo faraone

    Europa | Lunedì 24 luglio 2009 | Azzura Meringolo |

    C’è traffico al Cairo, sempre e ovunque. I tassisti, per intrattenere i clienti spazientiti, raccontano barzellette. Sono talmente tante che c’è chi, come Khaled al Khamissi, le ha raccolte e c’ha fatto un libro.
    Il titolo non poteva essere che Taxi. Uno dei personaggi più gettonati, nei racconti degli autisti, è la madre del presidente egiziano Hosni Mubarak, morta in un incidente stradale alla veneranda età di 104 anni.
    Sangue longevo quello che scorre nelle vene dell’ottantunenne leader egiziano, che nel 2011, data nella quale scadrà il suo ennesimo mandato, avrà tagliato il traguardo dei trent’anni al vertice dello stato.
    Nessuna legge gli vieterebbe di candidarsi per la sesta volta, ma Hosni pare comunque affaticato. Talmente affaticato che non è riuscito neanche ad andare ad accogliere il presidente Barack Obama all’aeroporto del Cairo, quando l’inquilino della Casa Bianca ha visitato l’Egitto, lo scorso giugno.
    Secondo indiscrezioni trapelate dai media egiziani in questi giorni, Mubarak, poi, si sarebbe sottoposto a un intervento alla schiena, nel corso della recente visita in Francia. Una sortita chirurgica camuffata da visita di stato, insomma.
    La stanchezza e gli acciacchi non hanno fatto che rinnovare il dibattito sulla salute del capo dello stato, già scattato dopo la recente morte di suo nipote, il giovane figlio del primogenito Alaa. Dopo il lutto, il raìs era sprofondato nella tristezza più cupa, sospendendo ogni attività per una ventina di giorni e portando in molti a parlare della questione della successione.
    Da allora le ipotesi si rincorrono e c’è chi teme che qualora la provvidenza privasse l’Egitto della sua storica guida, si creerebbe un vuoto pericoloso.
    Il dossier sulla successione a Mubarak è stato a lungo un tabù. È per questo motivo che sorprende che sull’argomento, da poco, sia stato realizzato anche un sondaggio. Se gli egiziani fossero chiamati a scegliere il successore del raìs, la sfida principale – così si pronunciano i cittadini – sarebbe tra suo figlio Gamal (a lui il 21 per cento delle preferenze) e Ayman Nour, il noto dissidente liberale uscito di recente dal carcere (24 per cento).
    Non c’è dubbio che nelle intenzioni del clan Mubarak, Gamal, attualmente terzo uomo più importante del Partito nazionale democratico (la formazione presidenziale), sia il candidato per eccellenza e da anni gli è stata spianata la strada per poter giungere alla presidenza.
    Ma ciò non significa che la poltrona di Gamal sia scontata. Secondo Michele Dunne, esperta dell’Arab Reform Bullettin, ci sarebbero almeno tre fattori a impedire l’avvicendamento padre-figlio. Innanzitutto gli egiziani non accetterebbero volentieri l’idea stessa dell’ereditarietà. Cosa più preoccupante è che il rampollo non godrebbe del supporto dei militari. Sarebbe infatti il primo presidente dell’Egitto post-monarchico non uscito dalle fila dell’esercito e alcuni alti ufficiali riterrebbero che Gamal non riuscirà a salvaguardare i loro interessi e che non sia un leader abbastanza forte da mantenere l’Egitto stabile e sicuro.
    Storia diversa quella di Ayman Nour, che nel 2004 ha fondato il partito al Ghad (il domani), una formazione liberale e riformista attenta a conciliare la sicurezza con i diritti umani. Il regime si accorge presto di lui e già nel 2005 lo sbatte in carcere, prima di partecipare alle elezioni presidenziali dove ottiene un lusinghiero (per gli standard egiziani) sette per cento. Nel giro di qualche settimana Nour viene nuovamente incarcerato con l’accusa di frode, ma non si arrende e la scorsa estate scrive a Barack Obama, all’epoca candidato democratico alla Casa Bianca, che prende a cuore la sua storia. Quando grazie alle pressioni statunitensi viene rilasciato, annuncia la sua candidatura alle prossime elezioni presidenziali. Ma ciò gli costa una serie di persecuzioni e aggressioni da parte del regime, che teme l’appeal che la sua storia esercita nel contesto internazionale.
    Ayman Nour, tuttavia, non spaventa troppo il giovane Mubarak, che deve piuttosto preoccuparsi di Omar Suleiman, capo dei servizi di sicurezza egiziani, descritto da Foreign Policy come il più potente capo dell’intelligence nel contesto mediorientale. La sua popolarità non è comunque alla stelle, eppure Dalia Ziada, conosciuta attivista e blogger egiziana, sottolinea che se il suo nome compare tra le ipotesi è perché la vera domanda, irrisolta, è la posizione che le forze armate assumeranno sulla successione.
    E Suleiman, dall’alto della sua carica, potrebbe calare buone carte. In più può contare sulla fiducia di Mubarak (ha aiutato il presidente a reprimere l’opposizione islamista) e sul fatto che è stato un mediatore essenziale nell’attivare canali di dialogo tra Israele e Hamas, nonché sul rispetto che gli accordano molti membri del partito di governo e altri esponenti delle élite nazionali.
    Tecnicamente però la sua posizione non è semplice.
    Qualora Mubarak liberasse la poltrona, ogni partito potrebbe presentare alle presidenziali un solo candidato e visto che Gamal è il più papabile tra i ranghi del Partito nazionale democratico, Omar Suleiman dovrebbe, se volesse aspirare alla presidenza, correre come indipendente.
    C’è infine una quarta ipotesi, a complicare il quadro della successione. Un’ipotesi che riguarda la fratellanza musulmana (Ikhwan). Il 17 per cento degli egiziani, infatti, si schiera a favore di Isam Arayn, esponente del movimento islamico. Sebbene la costituzione vigente precluda la formazione di qualsiasi partito che si basi sulla religione e quindi impedisca alla fratellanza di competere a livello elettorale, le autorità hanno alzato la guardia e, come ha lasciato intendere il settimanale Ahrah Hebdo, l’intensificazione della pressione sui fratelli musulmani – lo scorso giugno alcuni degli uomini più conosciuti dell’Ikhwan sono stati arrestati – indurrebbe a pensare che il regime vede in loro una temibile mina vagante.

  • Taxi al Cairo, un libro di incontri speciali

    Il Denaro n. 109 | Venerdì 8 giugno 2007 |

    Analfabeti e diplomati, sognatori e falliti, taciturni e loquaci, chi racconta barzellette e chi commenta la situazione in Iraq. E’ la variegata galleria di tipi e personaggi in cui capita di imbattersi salendo su un taxi al Cairo, e le cui voci vengono ora raccolte in un libro pubblicato da poco in Egitto e diventato presto un successo,”Taxi” (Conversazioni in tragitto), del giornalista e regista Khaled al Khamissi. Il libro raccoglie in 220 pagine 58 racconti-monologo che hanno la voce degli autisti di taxi del Cairo: storie tratte dalla realtà, ma romanzate, e raccontate in un linguaggio colloquiale, che differisce molto dalla lingua letteraria usata dalla maggior parte degli scrittori egiziani, e che forse costituisce il segreto del successo di questo libro.
    Il volume, pubblicato a inizio gennaio, dopo tre mesi aveva già venduto 20mila copie e ora è già stato ristampato tre volte. I tassisti protagonisti di questo libro sono assai differenti, sognatori e filosofi, misogini e fanatici, contrabbandieri e falliti, mistici e comici con quell’ironia così particolare dei cairoti magistralmente descritta dallo scrittore Albert Cossery, ma accomunati da uno stesso destino: quello di dover lottare quotidianamente per farsi strada, nel senso letterale della parola, in un mondo rumoroso e caotico. Nei confronti di questa categoria spesso poco amata e stigmatizzata dagli abitanti del Cairo, l’autore non nasconde di nutrire una particolare simpatia: nell’introduzione alle conversazioni,infatti, al Khamissi ricorda quello che spesso i clienti di un taxi al Cairo dimenticano, ovvero che i tassisti appartengono per lo più a categorie sociali tra le più bistrattate economicamente, i loro nervi sono messi alla prova dal caos delle strade del Cairo, una metropoli bellissima ma inquinata e polverosa formicolante di oltre 16 milioni di abitanti, attraversata ogni giorno in totale da 22 milioni di persone, in macchina, autobus e metropolitana ma anche su carretti trainati da asini e vesponi Piaggio. Con un sottofondo perenne di clacson e una sorprendente commistione tra città, campagna e deserto. Lo descrive bene, l’autore, il loro inferno: “E’ un mestiere sfiancante, lo stare sempre seduti in automobili poco confortevoli distrugge le loro colonne vertebrali, l’incessante rumore delle strade del Cairo demolisce il loro sistema nervoso, i perenni imbottigliamenti li sfiniscono nervosamente e il correre dietro il loro sostentamento – correre nel senso letterale del termine – elettrizza i loro corpi.
    Aggiungete a questo le trattative e le litigate con i clienti per il prezzo da pagare in assenza di tachimetri, e il tormento dei poliziotti che li inseguono…”. L’autore si sofferma anche sulle loro riflessioni sul proprio Paese, i giudizi sui dirigenti, le critiche alla corruzione dei poliziotti, le molte parole che quasi tutti spendono sulla situazione in Iraq e sull’America: ne risulta una sorta di documento sulla vita quotidiana del Cairo, composto da porzioni di reale che non corrispondono nè all’immagine mostrata ai turisti, nè a quella fornita dalla produzione letteraria o cinematografica.

  • L’Iran si sta laicizzando?

    Il cuore del mondo | Venerdì 19 giugno 2009 | Ambrogio |

    L’Iran si sta laicizzando?
    Non credo. Esiste una nuova generazione di musulmani che cresce e che alla morte di Khomeini (1989-ultima fatwa contro Salman Rushdie, autore dei Versi Satanici) avevano pochi anni o addirittura non erano nemmeno nati.
    A Khomeini, da qualsiasi punto lo si voglia considerare, non si può togliere che è stato con la sua vita il perno centrale della radicalità dell’Islam in quel paese. Un personaggio a suo modo irripetibile.
    Per questo non leggo nei fermenti di questi giorni post-elettorali in Iran una voglia di laicità.
    Vedo soltanto una voglia di Islam meno radicale.
    Buono che ci sia.
    Meno notizie in questo senso ci vengono dal mondo arabo/sunnita. Nei mesi scorsi una donna era entrata per la prima volta come sottosegretario all’istruzione(non ricordo se in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi, ma mi sembra sia la prima), segno minimo e credo solo di facciata.
    Più pericoloso per il mondo Occidentale il granitico mondo Arabo Sunnita.
    Ma non credo l’esultanza dei giocatori rivolgendosi alla mecca influenzerà il rapporto tra occidente e L’Islam in generale.
    Insomma erano giocatori di palloni, non sceicchi(al soldo straniero)che incitano alla guerra santa.
    L’Egitto?
    Per chi voglia capire come funziona in Egitto, tra Musulmani, Copti ed altro, e dove noi andiamo a rinchiuderci in quei recinti di vacanza che è Sharm el Sheik, consiglio di leggere il libro di Khaled Al Khamissi, Taxi a cui allego un breve copia e incolla: “Si tratta di un articolata e divertente… critica” della società e della politica in Egitto, dice al Cairo Press, Mark Linz, direttore dell’Università Americana, che pubblica ora una serie di libri di letteratura araba in lingua inglese. ” è unico perché utilizza l’umorismo. Per delle questioni che gli egiziani tendono a prendere molto sul serio”.
    Khamissi dice di non essere un’analista, ma molti dicono che la popolarità del libro viene dal fatto che “ognuno si ritrova nel libro [quando hanno letto il libro.] Ogni lettore ci legge la propria esperienza.
    L’autore è lo stesso di cui parlavo nel tema precedente da Lei proposto e che aveva paragonato il discorso di Obama a Il Cairo quasi fosse un discorso fatto dal Papa.

  • Prima di addormentarmi ho finito di leggere “Taxi” di Khaled Al Khamissi

    Lizzie’s coffeshop | Martedì 21 luglio 2009 | aucklandergirl |

    prima di addormentarmi ho finito di leggere “Taxi” di Khaled Al Khamissi, una raccolta di brevi storie ambientate al Cairo da tassisti, che raccontano delusioni, speranze, amori, intrighi sul Paese e che rappresentano un vero e proprio trattato di sociologia urbana . Peccato che per motivi di sicurezza l’autore si sia auto censurato e peccato pure non essere stata in grado di leggere la versione originale del libro in arabo (anche se le versioni inglesi ed italiana hanno reso bene il concetto..uno spaccato di vita quotidiana in un Paese dove sembra sia possibile trovare soddisfazioni nella sfera privata, visto che le istituzioni son indifferenti a qualsiasi cosa).
    In alcuni punti tragico, in altre comico, ma senza dubbio…intrigante 🙂

  • Perché nel labirinto di Zar Vlad la sola parola d’ordine è “Bespredel”

    Il Foglio | Domenica 12 ottobre 2008 | Amy Rosenthal |

    La Russia è sempre la Russia, con un lato oscuro tollerato dalla maggioranza della popolazione”. Steve LeVine, giornalista di Business Week e corrispondente in Russia, Asia centrale e Caucaso per oltre un decennio del Wall Street Journal e New York Times, ha appena scritto un libro sul “labirinto di Putin” – “Putin’s Labyrinth: Spies, Murder, and the Dark Heart of the New Russia” (Random House, 2008) – in cui arriva alla conclusione che lo zar Vlad, ex presidente e attuale premier a Mosca, abbia ereditato una terra nella morsa di una storia brutale che mostra pochi segni di affievolimento. Il motto nazionale russo – dice al Foglio – “è ‘bespredel’, che significa ‘senza limiti’, o ‘tutto passa’. E’ ‘il continuum russo’, che in parte si riferisce all’indifferenza della classe dirigente tradizionale nei confronti della vita e della morte del popolo”. Secondo LeVine i collegamenti tra vecchia e nuova Russia sono tantissimi. “Sotto gli zar e nel periodo sovietico lo stato decideva chi doveva vivere e chi morire. Con Boris Eltsin lo stato ha smesso di uccidere i suoi cittadini e gli assassini si sono riversati nelle strade. Con Putin la situazione è un ibrido”. Resta il mantra “tutto passa”, applicato al perseguimento di un interesse: “Quando nel 2002 ottocento russi furono presi in ostaggio in un teatro moscovita da 41 terroristi ceceni, Putin ordinò di usare i gas e morirono anche 129 ostaggi. Perché la priorità di Putin era uccidere i terroristi, non salvare gli ostaggi”. Secondo LeVine l’attacco alla Georgia è in linea con la tradizione russa di controllo sulle ex Repubbliche sovietiche, e anche di alcuni paesi dell’Europa orientale o centrale. “Putin e Medvedev si sono difesi con forza sostenendo di dover cacciare i georgiani dalla regione separatista. Ma quando i soldati e i carri armati russi hanno sconfinato in territorio georgiano, hanno bombardato Poti e preso anche l’Abkhazia, era la vecchia Russia all’opera”. Cosa c’è in gioco per l’Europa e gli Stati Uniti in questo conflitto? “Per entrambi ora il campo è aperto a crisi strategiche determinanti”, dice LeVine. “Un attacco come quello della Nato alla Serbia di Milosevic non potrebbe più accadere nelle circostanze attuali. Alcuni paesi dell’Europa sono intimoriti, o hanno preso barbiturici, comunque vanno a letto con Putin. Credo che Mosca influenzi a diversi livelli tutti gli stati del corridoio energetico fra est e ovest, ma anche Francia, Germania e Italia. Con loro ora la Russia è in una posizione contrattuale più forte di prima: è ben chiaro adesso che Mosca è pronta ad arrivare quasi ovunque per raggiungere i suoi scopi”.
    LeVine ha scritto che “il tallone d’Achille russo è il petrolio” e ha sottolineato come gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero giocare sulla vulnerabilità russa, ancora più palese in questi giorni di crisi mondiale, in cui la Borsa di Mosca ha pagato fin da subito tantissimo. “Per guadagnare il rispetto della Russia – spiega LeVine – non serve la retorica, ma i fatti. Appartenere o no al Wto o al G8 non smuoverà Mosca di un millimetro. La giugulare russa è la sua industria energetica: minaccia la sua strategia in quel campo e otterrai la sua attenzione. Come negli anni Novanta, quando Mosca non ha potuto fermare la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che la bypassava”. Lo storico Richard Pipes nel 2007 disse al Foglio che “l’occidente non deve illudersi sulla possibilità di far collaborare la Russia”, e molti governi occidentali cominciano a convincersi di quest’idea. “L’occidente – ribatte LeVine – può imporre un dialogo su temi che la Russia considera di proprio interesse. I trattati per il controllo bilaterale delle armi, ad esempio, sono possibili. Ma Pipes ha ragione: la Russia agirà come meglio crede. Putin è un avversario formidabile, persegue soltanto quello che crede essere l’interesse russo”. Il presidente Dmitri Medvedev ha ribadito che “non ha paura di niente, nemmeno della Guerra fredda”, anche se poi su certi dossier – come quello afghano – ha continuato la sua collaborazione. Per LeVine non c’è il pericolo di una nuova Guerra fredda, o almeno non di una analoga all’originale. “Potrebbe essere regionale,ma non globale: non è alla portata della Russia. Penso che ci siano speranze per il paese, in termini di democrazia, ma i governi occidentali devono restarne fuori. Non hanno alcun tipo di impatto”. Intanto i 200 peacekeeper europei sono arrivati nella zona cuscinetto tra Georgia e Ossezia del sud, dove è cominciato il ritiro delle truppe russe, come concordato nel piano siglato dal capo del Cremlino con il capo dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy. Il 15 ottobre si tiene un incontro tra Europa e Russia, che nelle intenzioni doveva essere decisivo per il futuro delle relazioni ma che già a oggi pare poco incisivo. “Si è visto nella storia recente – conclude scettico LeVine – quanto possano essere efficaci gli osservatori europei”.

  • alter’N’eco 2009 : Concerti, incontri, dibattiti per lo sviluppo sostenibile

    Comune di Montefalcone nel Sannio
    Provincia di Campobasso

    alter’N’eco

    CONCERTI, INCONTRI, DIBATTITI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE

     

    QUANDO
    Il 31 luglio e 1 agosto 2009, dalle 17.00 fino a notte fonda

    DOVE
    Al Lago Grande di Montefalcone nel Sannio – CB

    COME
    alter’N’eco propone due giorni di conferenze, dibattiti e tavole rotonde e due sere di concerti e dj set, promosso dall’Associazione Culturale Aria Nuova e con il patrocinio del Comune di Montefalcone nel Sannio e della provincia di Campobasso

    CHI/CHE COSA
    alter’N’eco è una manifestazione poliedrica in cui la riflessione sull’ambiente, sullo sviluppo sostenibile e sulle energie rinnovabili viene affiancata alla fruizione di musica rock del panorama indipendente italiano

    PERCHÉ
    alter’N’eco ha lo scopo di divulgare le informazioni necessarie sulle tematiche ambientali ed energetiche in ambito locale, affiancando l’attività di sensibilizzazione ambientale alla promozione di musica rock indipendente

    PROGRAMMA
    31 luglio 2009
    17.00 – 20.00 Interventi sul tema “Per un piano energetico locale comune: quali proposte, quale futuro”
    22.30 – 01.00 WET VENUS e DADAMATTO in concerto
    01.00 – 03.00 Dj set
    1 agosto 2009
    17.00 – 20.00 Interventi sul tema “Ecologia ed economia. Cosa sono le energie alternative?”
    22.30 – 01.00 SOLI D’AGOSTO e ZEN CIRCUS in concerto
    01.00 – 03.00 Dj set

    INFO: Giampiero Cordisco, tel.349 6704924 e-mail:alterneco2009@gmail.com
    UFFICIO STAMPA: Maruska Pisciella, tel.320 4047149 e-mail:maruskapisciella@yahoo.it

    Flyer
    Comunicato stampa

  • Il “broker canaglia” del mercato del petrolio

    La Repubblica | Sabato 4 luglio 2009 | Enrico Franceschini |

    LONDRA – Israele stava attaccando l’Iran? Era scoppiata la guerra in America Latina? C’era stato un golpe a Mosca? Un attentato in Iraq? O magari, Dio non voglia, una nuova azione di al Qaeda, un altro 11 settembre? I traders della City che comprano e vendono petrolio sui mercati internazionali, martedì scorso, si telefonavano freneticamente ponendo domande di questo genere, nel tentativo di spiegarsi cosa stava succedendo. Soltanto un qualche terremoto geopolitico, evidentemente non ancora diffuso da televisioni e agenzie di stampa, poteva giustificare l’improvvisa ascesa del prezzo del greggio. In un’ora, l’”oro nero” era salito da 71 a 73,5 dollari a barile, il livello più alto dell’anno. In sessanta minuti, contratti a termine per 16 milioni di barili di petrolio, i “futures” come si chiamano in gergo, avevano cambiato di mano: l’equivalente del doppio della produzione quotidiana dell’Arabia Saudita, maggiore produttore di petrolio al mondo. Molto più dei tradizionali 500 mila barili normalmente oggetto di compravendita a quell’ora della giornata. Cosa c’era sotto?
    Ora si scopre che la geopolitica non c’entrava nulla. La causa dell’impennata del greggio era un “broker canaglia” londinese. La sua identità è stata rivelata ieri dal Financial Times: si chiama Steve Perkins, lavora per la Pvm Oil Associates, più grande compagnia di brokerage petrolifero non quotata in Borsa, ha fama di operatore esperto e ben considerato dai colleghi. Ma a un certo punto, martedì, ha cominciato a compiere “operazioni non autorizzate”, piazzando massicce puntate sul mercato dei “futures”. Da solo è stato responsabile di metà dell’attività insolita, e il resto del movimento è avvenuto perché altri broker gli sono andati dietro, pur senza comprendere la ragione di quanto stava avvenendo. Quando la Pvm ha capito che dietro il boom di contrattazioni c’era qualcosa di illecito, ha dovuto interrompere le contrattazioni e denunciare il fatto alle autorità, subendo una notevole perdita: 10 milioni di dollari, bruciati dai trucchi di una “canaglia”, in meno di sessanta minuti.
    Perché Perkins lo abbia fatto, rimane per ora un mistero. La Pvm non parla. Lui nemmeno. Anzi, nemmeno si sa dove sia. Ma in attesa che la Financial Services Authority, l’organismo che controlla il settore finanziario britannico, renda noti i risultati della sua indagine, non è difficile immaginare che il “broker canaglia” avesse orchestrato un complotto per favorire qualche grosso speculatore e ricavarci a sua volta una bella percentuale. Non è il primo, né certo sarà l’ultimo, a compiere imprese simili. Non sempre il movente è il profitto. Appena il mese scorso un altro trader del petrolio, che lavorava nella sede di Londra della Morgan Stanley, è stato licenziato per avere nascosto ai suoi boss le perdite che aveva accumulato con operazioni fatte sotto l’effetto dell’alcol: era tornato in ufficio, dopo una pausa per il lunch durata tre ore, ubriaco fradicio. Più spesso, vincite o perdite sono il frutto di una tentata truffa. A partire da Nick Leeson, il broker inglese che provocò il collasso di una delle più vecchie banche di investimenti britanniche, la Barings, perdendo un miliardo e mezzo di sterline dal suo ufficio di Singapore: dove lui finì in carcere, mentre la banca, o quel che ne restava, veniva venduta per una sterlina nominale a una concorrente olandese. L’ironia della sorte, nel caso del “broker canaglia” di martedì scorso, è che il presidente della Pmv è uno dei più spietati critici delle speculazioni eccessive sul mercato del greggio, da lui soprannominato “il casinò elettronico del petrolio”. Un croupier stava portandogli via la cassa sotto il suo naso e lui non si era accorto di niente.

  • Intervista a Khaled Al Khamissi

    | News Speciale | Sabato 23 maggio 2009 | Andrea Calglieris |

  • Perché non si produce più petrolio

    Pino Buongiorno The Globalist | Venerdì 6 giugno 2008 | Pino Buongiorno |

    Flash dal mondo del petrolio. A San Paolo del Brasile la compagnia statale Petrobras annuncia di aver scoperto un immenso giacimento di greggio a 7mila metri di profondità, nel bacino Santos, con un potenziale, tutto da verificare, di 33 miliardi di barili. Tanto quanto basterebbe per fare entrare il Brasile nel club dei 10 maggiori esportatori di energia al mondo. 
    Cambiamo continente ed andiamo in Africa. A Pointe Noire, in Congo, l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni firma un accordo con il governo di Brazzaville per ricavare oli non convenzionali dallo sfruttamento delle sabbie bituminose in un’area di 1790 chilometri quadrati. 
    Mentre in una sola settimana accade tutto questo, a Parigi l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) fa trapelare i primi risultati-shock di una ricerca su 400 fra i megadepositi mondiali di oro nero. Gli esperti dell’Aie sono allarmisti perché prevedono che la futura offerta di petrolio si ridurrà notevolmente. Contro gli attuali 87 milioni di barili consumati ogni giorno ne occorrerebbero 116 milioni nel 2030 per sostenere la domanda mondiale, spinta soprattutto dalla crescita di Cina e India. Invece l’invecchiamento progressivo dei pozzi e la diminuzione degli investimenti produrranno non più di 100 milioni di barili. 
    L’ultimo flash è scattato a Washington, dove i deputati e i senatori mettono quotidianamente sulla griglia i boss di “Big Oil” (i quattro colossi mondiali del petrolio). Li accusano di realizzare profitti smisurati a scapito degli automobilisti e di spendere troppo poco per lo sviluppo di nuovi giacimenti e soprattutto per la ricerca di fonti di energia alternative. Il più bersagliato è il presidente e amministratore delegato di Exxon Mobil, Rex Tillerson, che l’anno scorso ha fatto conquistare alla sua multinazionale un record mai raggiunto nella storia del capitalismo: 40,6 miliardi di utili. Per nulla intimorito dalla contemporanea ribellione dei discendenti della famiglia Rockefeller, fra i maggiori azionisti, che chiedono “una svolta verde”, Tillerson contrattacca e punta l’indice contro lo stesso George W. Bush perché è andato a Riad a chiedere al monarca saudita di pompare più greggio quando invece avrebbe dovuto fare di più per aumentare la produzione in America, in particolare, al largo delle coste della Florida e della California. 
    “Siamo al momento della verità soprattutto per le compagnie petrolifere” spiega a “PanoramaSteve LeVine, uno dei principali analisti del settore, autore del bestseller “The Oil and the Glory”, dedicato al “Grande gioco” del petrolio nel Caucaso, che sarà presto pubblicato anche in Italia. “C’è in questo momento una grande ansia e contemporaneamente un certo entusiasmo per scoprire pozzi finora inesplorati e anche risorse non convenzionali, come il petrolio pesante del bacino dell’Orinoco in Venezuela e le sabbie bituminose della provincia di Alberta, in Canada, e del Congo. Ma la corsa vera e propria non è ancora scattata. Inizierà solo quando le compagnie capiranno a quali nuovi condizioni dovranno trattare con i grandi paesi produttori di petrolio e di gas naturale, come l’Arabia Saudita, il Brasile e la Russia”. 
    Di certo, spiegano gli esperti, stiamo pagando i 20 anni di benzina a basso costo che hanno frenato, se non bloccato del tutto, l’esplorazione e l’estrazione del petrolio, perché non ne valeva la pena. Oggi gli alti prezzi (con il petrolio che potrebbe raggiungere i 150 dollari al barile già quest’estate e i 200 dollari l’anno prossimo, secondo un recente rapporto di Goldman Sachs) dovrebbero spingere in senso contrario. Ma non è sempre così. E’ vero che l’Arabia Saudita ha promesso di investire 129 miliardi di dollari in progetti di espansione nei prossimi cinque anni, a cominciare dallo sfruttamento del campo petrolifero di Khurais, con l’obiettivo, già alla fine del prossimo anno, di aumentare la produzione quotidiana fino a 12 milioni di barili. Ma è altrettanto incontestabile il trend generale che si sta affermando fra i paesi produttori, i quali hanno il controllo del 90 per cento delle riserve mondiali: è il nazionalismo energetico. La Russia è in prima fila nel sostenere la necessità di mantenere alti i prezzi anche a costo di sacrificare le scoperte di nuovi giacimenti o di evitare il declino dei vecchi. E quando non sono le strategie politiche del Cremlino a dettare la politica energetica mondiale s’impongono le tensioni geopolitiche. Succede in Iraq, il secondo paese al mondo per riserve provate, dove le bande sunnite e sciite fanno a gara a bruciare i pozzi e a minare gli oleodotti. Accade in Iran, paralizzato dalle sanzioni internazionali per i progetti sulla bomba atomica. Per non parlare dalla Nigeria, infestata dalla guerriglia. Nel continente latino-americano è il Venezuela a non poter esprimere tutte le sue potenzialità a causa del “bolivarismo” di Hugo Chavez, che allontana i grandi investitori internazionali. 
    Quanto al restante 10 per cento gestito dalle ex sette sorelle, anche qui l’offerta non riesce a pareggiare la domanda. “L’esplorazione è certamente ripartita con grande vigore. Alcuni importanti successi sono già visibili in Africa e in Sud America” assicura a “Panorama” Claudio Descalzi, il vicedirettore generale della produzione di Eni. “Ma dobbiamo anche scontare la rigidità del sistema industriale: è limitata la disponibilità di piattaforme, di mezzi navali, di cantieri, di acciaierie e, non ultima, di personale specializzato”. 
    Tutto questo comporta un aumento vertiginoso dei costi per la costruzione dei nuovi impianti petroliferi e per la tecnologia necessaria finendo per ritardare quasi tutti i progetti più importanti., come Kashagan. Gli analisti del Cera, uno dei maggiori centri di ricerca del settore, hanno fatto un po’ di conti e sono arrivati alla conclusione che, “se nel 2000 un qualsiasi pezzo di equipaggiamento costava 100 dollari, oggi ne costa 210”. 
    In buona sostanza, almeno nel breve e nel medio periodo, la questione non è “la fine del petrolio”, ma la sua produzione largamente insufficiente. Per dirla con le parole di John Watson, uno dei capi di Chevron, “il problema dell’oro nero non è sotto la superficie, ma al di sopra”.

  • Francesca Sassoli, “Affaritaliani.it” (19 giugno 2009)

    Francesca Sassoli, “Affaritaliani.it” (19 giugno 2009)

    METRO di Magdy El Shafee

    Con “Metro”, Magdy El Shafee crea la prima graphic novel araba. E subito si scatena la censura

    Francesca Sassoli, “Affaritaliani.it” (19 giugno 2009)

    Metro (Magdy El Shafee)Lo abbiamo visto anche in questi giorni in Iran. La censura si è abbattuta sui giornalisti, sui siti internet, sulle “penne” moderate del Paese, sugli studenti universitari di Teheran e i loro professori. Perché più di ogni gesto sono la parola scritta, l’analisi intelligente, lo studio approfondito di un problema, la protesta pensata contro chi toglie voce e libertà al popolo a nuocere ai potenti e – soprattutto – ai prepotenti. Ed è così che un’opera asciutta, efficace, appassionante e sofferta diventa un’arma da spuntare e i suoi creatori rischiano grosso: l’egiziana “Metro” può considerarsi la prima graphic novel in lingua araba e racconta le vicende di un giovane programmatore informatico, Shehab, coinvolto in una rapina da un politico corrotto. Il tema era troppo scottante e scomodo per le autorità del Cairo che ne hanno confiscato fino all’ultima copia e arrestato l’editore Mohamed Sharqawi, titolare della Dar Malameh, che poi ha accusato la polizia di averlo torturato.
    No, non è una novella scritta da un cronachista medievale che narra le disavventure di un cantastorie scomodo a un potente feudatario! E’ un fatto tristemente contemporaneo.
    Il caso è scoppiato ad aprile scorso, discusso in Italia durante Cartoons on the Bay e fatto oggetto di una petizione da parte del quotidiano on line AgendaComunicazione sul quale è possibile trovare i link per la petizione pro-Metro: l’illustratore e intellettuale egiziano Magdy El Shafee deve rispondere dell’accusa di aver usato un linguaggio sconcio, ma la vera accusa è la critica senza veli contro il governo e la corruzione. Intanto si è affacciato alla Rete e sul social network facebook ha detto la sua verità, pregando di essere sostenuto, cercando amici e sostenitori in tutto il mondo, ai quali chiede di scrivere la frase:  “NO for metro confiscation and trial, Support freedom of arts and expression” sul social network o sui blog (come questo, questo e questo).
    Il 18 luglio 2009, dopo una serie di rinvii, una corte egiziana dovrebbe emettere il verdetto. Magdy El Shafee rischia due anni di carcere. Lui, la sua verità,  l’ha raccontata in un’intervista a un sito francese.
    Come molti egiziani, Shihab ha dei debiti. E, senza soldi non potrà rimborsarli. Minacciato dai creditori, il giovane informatico, un bel giorno, decide di puntare una banca. Quando il suo complice esita, lo rassicura: “In questo paese ci sono i poveri che vanno in prigione, e tu sarai ricco!” Così comincia il “Metro“, un fumetto-thriller pubblicato a febbraio 2008 in Egitto, ma ritirato dalle vendite due mesi più tardi dalle “brigate del vizio”, il dipartimento della polizia egiziana che si occupa di affari di prostituzione. In causa, due vignette dove si vede una donna nuda ed alcuni insulti volgari, come quelli che sentiamo per le strade del Cairo tutti i giorni.

    Una critica del regime.
    “L’ufficiale che ha interrogato Mohamed Al Sharqawi, l’editore, gli ha fatto delle domande sul contenuto politico del libro,  prima di venire alla sua presunta oscenità”, spiega Hamdy El Hassiouty, uno degli avvocati del libro . Dietro l’accusa formale di “compromettere la moralità pubblica”, l’egiziano sembra l’obiettivo di una virulenta critica del regime espresso dal Magdy Al Shafee, l’autore del ‘Metro‘. Quando Shihab, il personaggio principale, entra in banca a prendere il bottino, un politico disonesto/losco/sospetto  si fa dare una valigia piena di soldi. Propone un’affare a Shihab: se  rimane in silenzio su ciò che ha visto, non sarà perseguito.
    Un altro episodio mostra degli oppositori al regime, aggrediti al momento di una manifestazione, ritracciando un avvenimento reale avvenuto al Cairo il 25 maggio 2006. ” Un cugino dell’eroe gli racconta che un deputato li ha pagati, lui ed i suoi amici, per molestare le donne che manifestavano” ,spiega Mohamed Al Sharqawi, l’editore. Lui stesso attivista è stato arrestato più volte e torturato. “Quello che dice sul ‘Metro‘ è già stato detto nei libri, ma il potere ha capito che il fumetto era più accessibile al grande pubblico e quindi, più pericoloso per lui”.
    A 48 anni l’autore, Magdy Al Shafee, non nasconde di aver voluto ritrascrivere uno “spirito di rivolta”. Durante tutto l’albo, il “Metro” è paragonato a una trappola nella quale gli uomini sono rinchiusi, senza sapere che esiste una via d’uscita. Una metafora abbastanza chiara dell’oppressione politica. Con il suo tratto nervoso, Al Shafee è un innovatore anche sul piano artistico. Da principio introducendo un genere: in Egitto, fin’ora, il fumetto non esisteva nei negozi per bambini o sottoforma di romanzo a puntate nei giornali.

    Eroe disilluso.
    Un lustrascarpe che perde la vista, un direttore di banca ossequioso, una “nonna” inquieta per suo nipote… Magdy Al Shafee eccelle nella pittura dei personaggi della strada egiziana, incrociando le influenze. “Arrivando in Francia per i miei studi, sono rimasto affascinato da Charlie Hebdo. Ho riportato degli esemplari qui domandandomi come adattare questo tono all’Egitto”, racconta l’autore, che lavora peraltro in un’azienda farmaceutica. Il suo eroe, Shihab, bel muso da giustiziere sociale disilluso, fa pensare a Corto Maltese. “Quello che mi piace negli eroi di Hugo Pratt, è che non sono stereotipi, hanno più volti”.
    Quando Al Shafee ha cominciato a immaginare “Metro” aveva 5 anni; Golo, autore di fumetti francesi trapiantato in Egitto, è stato il suo mentore. “Mi ha fatto capire come imprimere un ritmo ad un album, come creare un atmosfera sena forzatamente passare da un disegno troppo comlicato.”
    Qualunque sia il verdetto del 18 luglio, “Metro” avrà segnato l’atto di nascita del fumetto egiziano.

  • La fuga di una donna alla ricerca di sé stessa

    Mediterranea Online | Lunedì 1 giugno 2009 | Cristina Giudice |

    Un paese governato dagli uomini, un’atmosfera densa, nera e soffocante in cui restare invischiati come nel petrolio. Il nuovo romanzo della scrittrice egiziana Nawal el-Sa’dawy.

    Visionario, schizofrenico, onirico. Sono alcuni degli aggettivi che si possono usare per descrivere l’ultimo romanzo di Nawal el-Sa’dawy, L’amore ai tempi del petrolio, una narrazione buia, liquida e viscosa proprio come questo liquido, presentata a Roma dalla casa editrice “il Sirente” come secondo titolo della nuova e interessante collana “Altri arabi”.
    La scrittrice egiziana affronta in questo libro i temi che da sempre le sono cari, ma qui più che mai assume una prospettiva prettamente psichiatrica che fa emergere la sua figura di medico e di esperta degli intricati meccanismi della mente umana. In questo caso una mente malata, in preda ad una sorta di delirio causato da condizioni di vita sociale e affettiva che costringono la protagonista ad una fuga dalla realtà in un’atmosfera allucinata di costante alternanza fra sogno e veglia, i cui contorni si sfumano e si mescolano tanto da essere indistinguibili.
    Forse proprio il background da medico permette alla el-Sa’dawy, come ad altri scrittori egiziani contemporanei, di avere uno sguardo quasi clinico nei confronti della realtà, come ha notato il giornalista Pino Blasone, intervenuto alla presentazione del libro: «Già Mahfuz, con la sua forte critica verso la società, era stato un vero maestro del nuovo realismo egiziano, un filone portato avanti dalle ultime generazioni di scrittori, soprattutto dopo gli eventi dell’11 settembre 2001».
    Il realismo della el-Sa’dawy, teorizzato nel libro-intervista Dissidenza e scrittura, trova piena realizzazione nelle pagine di questo romanzo: la condizione della donna e il suo rapporto con l’uomo, la relazione fra cultura e libertà, il desiderio di abbattere le barriere e i tabù imposti dalla società e dalla religione. Tutto questo senza dimenticare le proprie radici: in un contesto in cui tutto è anonimo, dai personaggi ai luoghi, il richiamo all’antica civiltà egiziana e alle sue divinità è l’unico punto fermo, quasi il faro verso cui dirigersi quando si è persa la rotta per ritrovare il proprio passato ed essere così capaci di affrontare il presente.
    La protagonista del romanzo è un’archeologa che scappa dalla trappola della vita coniugale per andare alla ricerca delle antiche divinità femminili in una società dominata dagli uomini e dove anche il solo pensare che esistano divinità femminili è considerato un tabù. L’uomo è padrone indiscusso di tutto e depositario del sapere assoluto e la donna vive il rapporto con lui come uno scontro continuo. Come ha notato Laura Pisano, docente di storia del giornalismo all’università di Cagliari, «il marito appare quasi sempre sotto forma di una voce che dà ordini, nascosto dietro le pagine di un giornale, quasi come se la stampa fosse vissuta come vero strumento di potere». Il paradosso però è che colui che ha il potere incontrastato nel paese, il re, è analfabeta, mentre la donna, pur non essendo padrona neppure del proprio destino, è una ricercatrice. «Chiedere cultura da parte della donna – secondo la Pisano – significa infrangere il monopolio del potere e l’idea che la cultura fosse una colpa, una trasgressione e una deviazione, era presente anche in Europa, dove la donna ha avuto accesso all’istruzione di alto livello solo molto tardi».
    «Il problema del libero accesso alla cultura e alla libera espressione delle idee in Egitto è ancora presente – ha ricordato Paola Gargiulo, del gruppo parlamentare donne al Senato – forse anche per questo le nuove generazioni, che nel paese costituiscono la maggioranza della popolazione, cercano nuove vie, in particolare quella virtuale. Molti blogger sono però finiti in carcere e anche la ragazza che su Facebook diede inizio al tam tam del movimento del 6 aprile (per la proclamazione dello sciopero generale, finito purtroppo in un fiasco sia nel 2008 che nel 2009, ndr) è finita in carcere. Anche il romanzo a fumetti “Metro”, che conosce un enorme successo virtuale sulla rete, è stato sequestrato dalle librerie.
    Un esempio positivo del rapporto fra scrittura e potere – ha continuato la Gargiulo – è invece quello della marocchina Rita el-Khayat che nel 1999 fu la prima donna nel mondo arabo a scrivere una lettera al re del Marocco riguardo la condizione femminile, il documento forse più audace, coraggioso e sconveniente del secolo scorso e che richiamò l’attenzione del sovrano su problemi non prima presi nella giusta considerazione».
    Nel suo tentativo di ribellarsi contro questo tipo di società però la protagonista trova un ostacolo anche nelle altre donne e qui sembra che si possa intravedere una sorta di critica, che non sarebbe neppure ingiustificata, nei confronti delle donne arabe, spesso incapaci esse stesse, a volte per pigrizia e altre per paura, di abbattere quelle barriere contro cui la el-Sa’dawy lotta da tempo.
    «Per riuscire ad infrangere le barriere – ha detto la Pisano – è necessario il dialogo fra le culture, sia di tipo religioso che artistico, letterario e culturale, contrastando tutto ciò che crea ostacoli e separazioni. In questo senso le religioni, usate in modo politico, sono viste dalla el-Sa’dawy come elemento di separazione nel loro creare odi, divisioni e ingiustizie».
    L’autrice stessa, in un convegno a Roma qualche settimana fa, disse: «Bisogna relegare la religione nella sfera privata della vita e non darle spazio in quella pubblica. Per questo ben vengano iniziative come quella del governo francese, che ha proibito qualsiasi esibizione di segni religiosi negli ambienti pubblici. La religione per molti versi è diventata un fatto sociale come in Egitto, dove le ragazze indossano il velo con jeans e magliette strettissimi. La religione non è moralità, ma politica. Studiando le religioni mi sono trovata di fronte a due tipi di morale, una per gli uomini e una per le donne, una per i ricchi e una per i poveri e ho notato che la religione crea solo divisioni. Abbiamo bisogno di vivere in un mondo senza religione, senza che ciò significhi vivere senza morale. Al contrario, saremmo più umani e, quindi, più uniti fra di noi».
    Il problema femminile secondo la scrittrice è, oltre che religioso, politico: «Le donne sono sottoposte a forti pressioni in tutto il mondo, sia di tipo sociale, che economico e politico, e sono ovunque vittime dei sistemi: in Afghanistan, dove il regime talebano è stato creato dai Bush, come in America, dove domina il fondamentalismo cristiano, come in Europa, dove sono schiave delle convenzioni sociali».
    Non avendo dunque nessuno a cui rivolgersi nel mondo reale, la protagonista del romanzo si rifugia sia nel ricordo della sua infanzia, dove domina la figura della zia devota all’Immacolata, figura presente nella tradizione cristiana come in quella musulmana, sia nel mondo ancestrale e fortemente simbolico delle antiche divinità femminili, dove anche la sfinge, il cui nome in arabo, Abu el-Hol (padre del terrore), è maschile assume identità femminile diventando Um el-Hol (madre del terrore). È così che in un libro in cui nessun personaggio è identificato da un nome, solo le divinità sono definite, esattamente come succedeva in alcuni racconti di epoca faraonica, come ha ricordato Emanuele Ciampini, esperto di egittologia dell’università “Ca’ Foscari” di Venezia. Sekhmet, dea leonessa, principio divino terribile e portatrice di morte, diventa quasi alter ego della protagonista. Proprio come lei, infatti, era fuggita dall’Egitto dando inizio a stragi terribili oltre i confini del paese. Lo stesso dio sole intervenne per arginare la sua ira senza freni e la dea fu riportata in Egitto con l’inganno, da un gruppo di divinità fra cui il “bravo compagno”.
    Il rapporto con l’uomo insomma, se pur conflittuale, risulta quasi necessario e complementare alla figura femminile, come sembra sottintendere anche la el-Sa’dawy nelle ultime righe del romanzo:
    «Ma quando lo sentì ridere, rise anche lei.
    La vita sembrò migliore di quello che era stata in precedenza.
    “Fino a quando l’uomo avrà la capacità di ridere, la donna non avrà desiderio di scappare, almeno non questa notte. Continuerà a dormire e domani ci proverà di nuovo”».

  • DIARIO EGIZIANO/3 – Un premio per il sermone dell’anno

    DIARIO EGIZIANO/3 – Un premio per il sermone dell’anno

    La Stampa | Venerdì 5 giugno 2009 | Khaled Al Khamissi |

    Una piccola protesta di cinque persone ha avuto luogo al Cairo prima che Obama pronunciasse il suo discorso all’Universita’. E’ curioso il fatto che la polizia abbia acconsentito loro di avvicinarsi all’ateneo, mentre tutte le strade erano sbarrate. Come hanno potuto? La risposta e’ semplice, erano americani: erano venuti da Gaza per manifestare e attirare l’attenzione di Obama sulla tragedia palestinese. Obama ha difeso eroicamente i diritti del popolo palestinese: devo esserne contento. Ha utilizzato un linguaggio idealista parlando di un futuro prossimo in cui noi attueremo la visione di Dio qui sulla terra vivendo in pace e armonia in un mondo senza armi nucleari, dove il soldato Usa tornera’ in patria e ogni uccello vivra’ nel suo nido felice, nel suo stato. Obama ha chiesto ai giovani di non restare prigionieri del passato, di forgiare un futuro dove regni la pace e con questo – credo – ha chiesto di dimenticare la storia dell’umanita’ per rivolgersi al mondo fantastico di Disneyland. Ha citato versi del Corano, del Talmud, della Bibbia. Ha parlato come se vivessimo prima del Rinascimento citando le religioni e non le nazioni moderne. E’ venuto nel mondo arabo per parlare ai musulmani e non agli arabi, come se qui non esistessero altre religioni, oppure formazioni laiche che risalgono ai primi anni del secolo scorso. Nel 1919 scoppio’ in Egitto una rivoluzione per l’indipendenza il cui motto era «la fede e’ per Dio e la patria per tutti», e i cui leader edificarono l’Universita’ del Cairo nel 1908. Cento anni dopo in quell’Universita’ e’ venuto un presidente americano a parlarci di fede per tutti e di una patria che non c’e’. Obama ha esordito con una serie di lodi e poi ha fissato alcuni punti nodali: primo, il terrorismo, la cui origine e’ da individuare in Al Qaeda e nei Taleban, senza menzionare chi li ha creati, armati e finanziati. Non ha spiegato che gli Usa, durante il loro scontro con l’Urss in Afghanistan, crearono Al Qaeda e i Taleban e finanziarono i movimenti islamisti in tutto il mondo arabo per combattere il comunismo e impedire l’avanzata del laicismo arabo. Secondo, ha parlato della tragedia palestinese ma non ha menzionato chi esercita la tortura contro quel popolo. Terzo, ha detto di voler bloccare la corsa agli armamenti in Medio Oriente, dicendo che impedira’ all’Iran di avere l’atomica, senza accennare al fatto che nell’agone c’e’ un solo competitore: Israele. Quarto, la democrazia. Qui ha assicurato i regimi autocratici arabi che non si intromettera’ nei loro affari. Quinto, la liberta’ religiosa accennando alle dispute fra sunniti e sciiti in Iraq, senza chiedere scusa per quello che gli Usa hanno fatto per dividere il popolo iracheno e tanto meno per il loro ruolo nel redigere una Costituzione che divide e alimenta le divisioni del paese alla stregua della Francia all’epoca dell’occupazione del Libano. L’Iraq infatti soltanto dopo l’occupazione Usa ha assistito a un conflitto fra sunniti e sciiti, cosa mai successa nei tempi moderni. Il Presidente ha insistito sul concetto di fratellanza e sulla divisione delle responsabilita’ per poter costruire un futuro migliore: tutti sono rimasti entusiasti delle sue parole e hanno tanto applaudito e sorriso. Obama e’ riuscito ad accontentare tutti. Credo che il suo discorso verra’ considerato il miglior sermone religioso di quest’anno, inshallah. *Scrittore del Cairo, autore di «Taxi» (Edito in Italia da il Sirente)

  • DIARIO EGIZIANO/2 – ”Lo sapete? Hanno preso gli studenti”

    La Stampa | Giovedì 4 giugno 2009 | Khaled Al Khamissi |

    Un amico mi ha telefonato l’altro giorno dicendo che mentre stava guardando la tv ha sentito battere violentemente alla porta. «Chi e’? », chiede. «Polizia – fa una voce imperiosa – vogliamo i documenti di tutti quelli che abitano in questa casa». Siamo alla vigilia della visita di Obama e il mio amico vive vicino all’Universita’ del Cairo dove il Presidente parlera’. Eppure quell’appartamento non da’ sui luoghi cruciali, da li’ e’ impossibile compiere alcun attentato. La stessa cosa e’ accaduta ai suoi vicini. Mentre mi raccontavano quella storia, stavo guidando verso l’aeroporto del Cairo per andare a prendere un mio cugino. Appena arrivo, la polizia mi ferma e mi chiede la carta d’identita’. E’ la prima volta in vita mia, dopo tanti su e giu’ all’aeroporto. Non so perche’ gli agenti siano cosi’ ossessionati dal controllo dei documenti. Il giorno dopo, sono seduto al caffe’ in un vicolo stretto del centro. Le sedie arrivano fino in mezzo alla strada. Ordino un carcade’. Vicino a me, si discute animatamente sulla visita del Presidente americano. «Avete sentito? – chiede un tale – hanno arrestato duecento studenti dell’Universita’ teologica di Al Azhar. Quasi tutti dell’Asia centrale o russi. Nessuno sa dove li abbiano portati. E questo solo perche’ Obama visitera’ la loro facolta’». Qualcuno spiega che l’ospite ha aggiunto al suo programma una tappa in Arabia Saudita. Il vicino fa una battuta: «Suppongo che il governo egiziano abbia rifiutato di pagare i costi del viaggio, cosi’ l’Arabia Saudita come al solito ha dovuto mettere mano al portafoglio». Poi il discorso si fa serio. Uno dice che i sauditi da quando non ci sono piu’ i Bush, padre e figlio, si sentono orfani. «Riad e’ furiosa, perche’ Obama rivolge il suo messaggio al mondo islamico dal Cairo, cosi’ hanno fatto pressioni per avere il Presidente anche a casa loro». Un giovane che sta fumando il narghile’ dice di essere orgoglioso che Obama abbia scelto l’Egitto. «E’ chiaro – dice – che il nostro prestigio e’ alle stelle, siamo il piu’ importante paese musulmano». Un vecchio scuote la testa: «Essere il migliore o il peggiore dipende dalle condizioni reali e non dal giudizio degli altri. Siamo ormai un Paese fuori gara, come lo era la Cina all’inizio del secolo scorso. La visita non rimettera’ in moto la nostra sgangherata macchina: dobbiamo farlo da soli». Interviene una donna seduta al mio fianco che sta aspirando il fumo dalla pipa ad acqua: «Obama e’ soltanto un abile chirurgo plastico. Va in giro per migliorare il volto brutale dell’America nel mondo che Bush ha deturpato. Eh si’, e’ proprio un abile chirurgo plastico». Anche il cameriere, che ha appena portato una tazza di te’, vuole dire la sua: «Chiedo una sola cosa a Obama: che risolva una volta per tutte la crisi mediorientale. Se lo facesse diventerebbe il migliore Presidente nella storia americana. Peccato che non ho mai visto un politico mantenere la parola». Poi si lancia: «E’ vero che in campagna elettorale aveva promesso di fare a meno del petrolio nel giro di dieci anni? Se lo facesse Israele perderebbe la sua importanza strategica e l’intero Medio Oriente diventerebbe una scatola vuota. Non si sacrifichera’ mai piu’ un popolo per il petrolio, come e’ successo agli Iracheni. Ci lasceranno finalmente in pace». La ragazza che fuma il narghile’ sbotta: «Viva Obama il chirurgo plastico. Il piu’ bell’uomo d’America». Ma se il Presidente americano intende davvero inventare un’alternativa al petrolio, potrebbe trovare anche un’alternativa alla visita al Cairo. Magari parlando al mondo islamico dagli Stati Uniti. Intanto non cambierebbe niente e noi ci eviteremmo tutti questi fastidiosi controlli di polizia. *Scrittore del Cairo, autore di «Taxi» (Edito in Italia da il Sirente)

  • DIARIO EGIZIANO/1 – Almeno dove passa lui puliscono

    La Stampa | Mercoledì 3 giugno 2009 | Khaled Al Khamissi |

    La visita di Obama ci portera’ qualche beneficio? Personalmente non credo. I vantaggi, in teoria, dovrebbero essere due. Primo, risolvere la questione palestinese, e in questo caso credo che mia zia Bahia, abilissima in cucina, sia molto piu’ brava del presidente. Secondo, Obama potrebbe donarci un po’ della ricchezza dell’America per rendere la nostra vita meno grama. Anche in questo caso credo che fallira’, per il semplice fatto che siamo gia’ un paese ricco sebbene meta’ di noi vivano sotto il livello di poverta’. Se l’America donasse tutti i suoi soldi all’Egitto i ricchi del nostro paese diverrebbero piu’ ricchi e i poveri piu’ poveri, quindi non ci sara’ nessun miglioramento. Questa e’ anche la conseguenza della politica imposta da Washington all’Egitto dal 1974, dopo l’alleanza voluta da Sadat. All’Universita’ del Cairo hanno cosi’ lucidato la cupola dell’aula magna da farla diventare piu’ brillante di un piatto di porcellana nuovo di fabbrica. La’ il presidente Obama terra’ il suo discorso il 4 giugno. Tutti gli egiziani sognano che il corteo dell’illustre ospite passi per le strade del loro rione, in modo che le autorita’ puliscano anche il loro quartiere come accade in molte zone, per evitare che l’ospite non cada in depressione alla vista di tanta sporcizia per le strade. A parte i benefici della pulizia, ci sono alcuni inconvenienti dovuti ai preparativi della visita. L’Universita’, per esempio, e’ stata trasformata in una fortezza. Obama arriva proprio durante il periodo degli esami di fine anno. Alcune facolta’ hanno dovuto rinviarli. Gli studenti di Lettere hanno chiesto il massimo dei voti in nome del principio di reciprocita’. Sostengono che, in circostanze normali, se avessero mancato l’appello del 4 giugno, sarebbero stati bocciati. Ma visto che e’ lo Stato a mandare a monte gli esami, tutti dovrebbero essere promossi automaticamente. Un lettore di un giornale locale ha suggerito agli apparati di sicurezza di dare il via proprio quel giorno a grandi saldi (con sconti fino al 90 per cento). In tal caso i commercianti dovrebbero essere risarciti dal ministero dell’Interno per le perdite subite. Cosi’, ha spiegato il lettore, il governo sara’ sicuro che il popolo non organizzera’ proteste. La gente si chiede se il protocollo esentera’ Obama (e il suo nutrito seguito) dalle misure di controllo sanitario all’aeroporto: gli stranieri che arrivano in Egitto sono sottoposti a un test sull’influenza suina. Si dice che una persona del seguito abbia contratto il morbo del H1N1 quando era con lui a Citta’ del Messico, lo scorso aprile. Obama avra’ una delegazione di un migliaio di persone, lo sostiene il tam tam dei caffe’ del Cairo. Perche’ ha portato con se’ cosi’ tanto personale? Affrontera’ nel suo discorso argomenti come i diritti umani, la democrazia, i diritti della minoranza copta? In ogni caso, sappiamo che sono soltanto espedienti retorici. Davvero la cosa piu’ importante e’ che il corteo di Obama passi per la mia strada. *Scrittore del Cairo, autore di «Taxi» (Edito in Italia da il Sirente)

  • L’amore in Egitto, ai tempi del petrolio

    Reset DOC | Martedì 2 giugno 2009 | Francesca Giorgi |

    Una donna morigerata, sempre ligia al proprio dovere e rispettosa delle leggi; un’archeologa, specializzata nella ricerca di statue raffiguranti divinità femminili dell’antico Egitto. Che un giorno decide di fuggire, di “prendersi una vacanza” dal marito e dal lavoro, e finisce per sparire, facendo perdere le proprie tracce agli altri e a se stessa. Da qui si dipana L’amore ai tempi del petrolio (il Sirente 2009, Euro 15,00), l’ultima fatica letteraria della scrittrice egiziana Nawal al-Sa’dawi, fra le protagoniste indiscusse del femminismo arabo contemporaneo.

    Medico e psichiatra, al-Sa’dawi si batte da molti anni nel suo paese e in tutto il mondo contro la diseguaglianza di genere e contro la pratica delle mutilazioni genitali femminili, di cui da bambina fu vittima lei stessa. Per le sue prese di posizione è stata considerata a lungo una persona controversa e pericolosa dal governo egiziano, incarcerata nel 1981, costretta a rinunciare alla candidatura alle elezioni presidenziali del 2005. Dopo molti romanzi, saggi e raccolte di novelle tradotti in 20 lingue, che le hanno fatto vincere numerosi premi, L’amore ai tempi del petrolio fu pubblicato per la prima volta in Egitto nel 2001 e subito censurato dalla massima istituzione religiosa del paese. In linea con la natura battagliera dell’autrice, il libro è infatti a tutti gli effetti una denuncia contro la società patriarcale, la segregazione femminile, la violenza perpetrata quotidianamente ai danni delle donne, la negazione per loro di ogni diritto umano. E, sebbene l’ambientazione della storia sia vaga, i rimandi al paese natale dell’autrice sono molteplici, tali perlomeno da portare alla censura.
    Dopo la fuga, la protagonista del romanzo – che non viene mai chiamata per nome, a impersonare perfettamente l’intero universo femminile – si ritrova improvvisamente in un oscuro “Regno del petrolio” dove si stanno preparando i festeggiamenti per il compleanno del Re. La donna viene perciò sequestrata, consegnata nelle mani di un uomo e costretta a lavorare all’estrazione del liquido, che impregna di sé e invischia tutto il mondo circostante. Nella fabbrica le donne hanno il compito di trasportare i barili sulla testa, senza diritto al ristoro né al salario. La donna si trova così ulteriormente schiavizzata, a dover sostenere il confronto con le altre donne, che spesso ridono delle sue difficoltà nell’adattarsi alla nuova condizione.
    Ma la fatica più grande è il rapporto con l’uomo che ha ricevuto il compito di tenerla presso di sé. La protagonista non è mai stata abituata in passato ad adempiere alle mansioni considerate normalmente femminili, come la cucina, né a soddisfare indiscutibilmente le richieste maschili. Il rapporto con l’uomo – anche in questo caso senza nome – rappresenta per lei una ulteriore regressione, che la porta in un certo senso a perdere il senso del suo percorso. Aveva scelto di fuggire per rompere con un matrimonio e una vita sociale infelici, e invece di migliorare la propria situazione si ritrova ancora più degradata. Ma fra i due si crea poco a poco un legame, che la protagonista non sa identificare se non con l’amore, ma che in realtà è semplicemente il riconoscimento della reciproca dignità. E’ questo che l’autrice auspica si crei fra tutti gli uomini e tutte le donne: che si smetta di considerare gli altri esseri umani come delle proprietà, come merce di scambio, o come oggetto di potere. Che finalmente ci si riconosca ognuno nella propria personale identità.
    L’amore ai tempi del petrolio è un percorso del tutto onirico all’interno di una vicenda dai contorni sfumati, in cui l’inizio e la fine si confondono quasi a disegnare una circolarità degli eventi. La scrittura ricorda il flusso di coscienza, in cui il tempo perde valore rispetto all’urgenza dell’espressione dei pensieri. Ma il rimando alla realtà, angoscioso e cruento, non permette mai al lettore di sollevare i piedi da terra.

  • Gli scrittori

    La Repubblica | Venerdì 5 giugno 2009 | Francesca Caferri |

    Mohsin Hamid: “Un uomo sincero” QUELLO che mi ha davvero impressionato nel discorso di Obama è stata la sincerità che ho visto quando diceva di volere relazioni diverse da quelle che ci sono state finora fra gli Stati Uniti e i musulmani. La tensione fondamentale che vedo in Obama è quella fra un uomo sincero, quando dice di voler cambiare le cose, e il presidente degli Stati Uniti, che invece ha la responsabilità di difendere gli interessi americani. Cerca un equilibrio fra queste due forze: se riuscirà a trovarlo ce lo dirà soltanto il tempo. Marina Nemat: “Basta estremismi” HO APPREZZATO soprattutto il passaggio in cui Obama ha detto che dobbiamo affrontare l’ estremismo in ogni sua forma. Inoltre è stato molto importante il fatto che abbia ammesso che la reazione degli Stati Uniti all’ 11 settembre è stata illogica e che li ha portati ad allontanarsi dai propri ideali e dalla protezione dei diritti umani. E infine mi è piaciuto che abbia messo l’ accento sulla libertà di religione, sui diritti delle donne e sull’ importanza della non proliferazione nucleare: nessun paese dovrebbe avere armi nucleari. Fatima Mernissi: “Una rivoluzione” IL SUO discorso è una rivoluzione perché ha identificato la religione con la pace, e ha invitato a rispettare gli altri anche se non li conosci. Semplicemente incredibile fino a poco tempo fa. È bello sentire un presidente degli Stati Uniti che non parla solo in termini di merci: oggi mi pare che nessuno si curi più di produrre amore, invece che odio. Eppure è un bene prezioso, che ci vuole molto a far crescere. Se la società smettesse di concentrarsi sulla paura e pensasse a trasmettere amore, staremmo tutti meglio. Khaled Al Khamissi: “Troppa religione” SONO molto deluso: Obama ha scelto di usare lo stesso linguaggio religioso di Bush. Non sa che l’ università del Cairo è stata fondata da scrittori e intellettuali laici? Ha parlato a me come musulmano: ma io sono prima di tutto un egiziano, un laico, un arabo. E poi ha parlato in modo molto irrealistico, il bene e il male. Lavorare insieme è bene. Il terrorismo è male. Ma queste divisioni non esistono nella realtà: in ognuno di noi c’ è il bene e c’ è il male. Sì, lo ammetto: il mio giudizio globale è negativo. DAVANTI ALLA TV Dall’ alto in basso, il discorso di Obama seguito in televisione a Tirana, a Gaza City da alcuni militanti di Hamas e da una famiglia di Calcutta.

  • Incontro con Nawal El Saadawi

    | lorellavezza.it | Lorella Vezza |

    Molto interessante e coinvolgente la serata di lunedì 18 a Torino al Circolo dei Lettori dove ho avuto il piacere di conoscere personalmente Nawal El Saadawi. Serata nella quale ha partecipato la consigliera regionale del Piemonte Mariacristina Spinosa, la coordinatrice del progetto Aurora Saida Ahmed Ali e la socia fondatrice di Unifem Italia Maria Magnani Noya. Nata a Il Cairo, rappresenta l’Egitto ed è una della tante vittime di un Paese dove non è facile superare pregiudizi e tabù legati al genere femminile. Dopo gli studi universitari, Nawal affianca la carriera di medico, psichiatra, all’ attivismo politico e alla “battaglia femminista”. Le sue battaglie la procureranno la condanna al carcere nel 1981 sotto il regime di Sadat. Numerose sono le accuse, anche recenti, di apostasia da parte di istituzioni islamiche come Al-Azhar, a causa del contenuto provocatorio dei suoi scritti: sessualità, discriminazione della donna araba e la sua subordinazione alla società patriarcale. Psichiatra e scrittrice, attualmente vive negli Stati Uniti dove insegna presso la Duke University, North Carolina. Ha scritto numerosi libri sulla condizione della donna nell’Islam, dedicando particolare attenzione alla pratica delle mutilazioni genitali femminili. Nawal El Saadawi è una femminista (costretta a vivere fuori dall’Egitto), che mostra la sua combattività sin da quando era bambina e che usa le parole e la memoria “per ribellarsi ad una società in cui la nascita di una femmina equivale ad una sventura”. Scrittrice prolifica – in questi giorni ha presentato alla Fiera Internazionale del Libro il suo ultimo scritto “L’amore ai tempi del petrolio” – ha vinto numerosi premi, tra cui, nel 2004, il Premio Nord-Sud conferitole dal Consiglio d’Europa per il coraggio, l’intraprendenza e la fiducia nel futuro dei diritti umani. Da moltissimi anni si batte per il rispetto dei diritti umani e contro ogni forma di violenza sulle donne. Una donna eccezionale semplice e carismatica nello stesso tempo. Gli occhi esprimono la vitalità di una ragazzina sebbene abbia avuto esperienze sicuramente traumatiche Ascoltarla è un piacere parla con calma e determinazione le sue idee sono chiarissime. Spiega che in nessuna parte del mondo le donne sono veramente libere, credono di esserlo, ma anche nei paesi più industrializzati del mondo subiscono delle discriminazioni e sono schiave della società. Fa un’analisi approfondita dei vari tipi di mutilazioni: sia femminili che maschili, ma anche psicologiche. Queste ultime molto più pericolose e diffuse. Ecco perché lei è, per esempio, completamente contraria al trucco che vede come un velo post moderno usato dalle donne in maniera orgogliosa per sottolineare il loro essere, senza capire però, che l’unica arma che hanno davvero è il loro cervello. Non risparmia nessuno con le sue invettive, non le religioni che secondo lei non permettono la nascita di una vera democrazia, non le donne al potere ma nemmeno il suo Paese. Condivido pienamente che l’intelligenza è l’arma più importante che una donna possiede per farsi vale e rispettare. Una donna determinata, intelligente difficilmente può essere ignorata. La cura dell’aspetto e il trucco fanno ormai parte del nostro tempo, l’importante è non esserne schiave e puntare esclusivamente su questo. Nawal El Saadawi: una donna forte, determinata, piena di energia un esempio per tutte noi.

  • Di là del Mar Caspio

    Il petrolio è al centro dei principali intrighi planetari. Eldorado ed inferno, il Mar Caspio in questo senso è sempre apparso remoto, ostile, instabile.

    A lungo, ha tentato il mondo (inglesi, americani, russi, persino cinesi) con le sue grandi riserve petrolifere. Ma gli stranieri, bloccati dal sistema chiuso dell’Unione Sovietica, non vi poterono arrivare. Poi l’Unione Sovietica crollò, e nella regione iniziò una corsa frenetica su vasta scala. Insieme ai petrolieri, si accalcarono nel Caspio i rappresentanti dei principali Paesi del mondo in cerca di una quota dei trenta miliardi di barili di riserve petrolifere certe che erano in gioco, e iniziò una tesa battaglia geopolitica. I principali competitori erano Mosca e Washington – la prima cercando di mantenere il controllo sui suoi Stati satellite, la seconda intenta a far sloggiare la Russia a beneficio dell’Occidente.
    Il petrolio e la gloria” è un libro di Steve LeVine (Editrice il Sirente,  20 Euro) in cui tutto ciò è ben raccontato. LeVine ha lavorato nella regione per il Wall Street Journal, il New York Times e il Newsweek, ed è ligio alla grande scuola americana del giornalismo d’investigazione.  Egli svela le misteriose manovre dei giganti energetici mondiali per avere una parte nei ricchi giacimenti kazaki e azeri, mentre le superpotenze cercano di ottenere un punto di appoggio strategico nella regione e di ostacolarsi a vicenda. Al cuore della storia c’è la gara per costruire e gestire oleodotti che escano dall’isolata regione, la chiave per controllare il Caspio e il suo petrolio.
    Il BTC, l’ oleodotto per il petrolio che fu costruito, il più lungo al mondo (1.750 chilometri, di cui oltre 300 attraverso la Georgia), è stato uno dei più grandi trionfi in politica estera di Washington. Molti i personaggi di questa saga caspiana. Per esempio,  il “ competitor” James Giffen, un affarista americano che è stato anche il “faccendiere” a livello politico delle compagnie petrolifere ansiose di fare affari nel Caspio e l’intermediario per il presidente e i ministri del Kazakistan; o John Deuss, l’ostentato commerciante olandese di petrolio che vinse molto ma perse ancor di più; Heidar Aliyev, l’ ex capo del Kgb azero, diventato presidente,  e spesso — secondo LeVine — frainteso: ma, secondo me, il suo è giudizio partigiano.
    LeVine afferma che il presidente azero “trascese il suo passato di membro del Politburo sovietico e fu la mente direttiva di un progetto per allentare il controllo russo sulle sue ex colonie nella regione del Caspio”. In questa cornice trovano il loro posto furfanti, canaglie e avventurieri d’ ogni genere guidati dall’irresistibile richiamo di ricchezze incalcolabili e dalla possibile “ultima frontiera” dell’era dei combustibili fossili. Non mancano gli interrogativi geopolitici che ruotano attorno alla ricchezza petrolifera del Caspio, se la Russia possa essere un alleato affidabile e un partner commerciale dell’Occidente, e cosa significhi l’ingresso di Washington in questa regione caotica ma importante per la sua stabilità a lungo termine.

  • Nawal al-Sa’dawi, “L’amore ai tempi del petrolio”

    Nigrizia | Maggio 2009 |

    Un romanzo dall’atmosfera surreale, con il petrolio che le donne portano a barili sulla testa invece dell’acqua, con il petrolio che esce dai loro seni invece del latte per i loro piccoli… Una donna, un’archeologa, è scomparsa di casa: nulla di simile si è mai visto in questo paese innominato dove «Sua Maestà» è analfabeta e questo è per lui «segno di distinzione»… Un surrealismo però ben realista nella sua potentew dennuncia della condizione della donna, di cui si fa complice la donna stesse, da parte di una storica e radicale femminista egiziana (la cui presenza è prevista all’imminente Fiera del Libro di Torino, con l’Egitto paese ospite). L’introduzione, non di circostanza, è di Luisa Morgantini. il Sirente, 2009, pp. 140, € 15,00.

  • Khaled al-Kamissi (1962), TAXI

    | L’Indice dei libri del mese | Maggio 2009, n. 5 | Elisabetta Bartuli |

    A patto di non considerlarlo un romanzo, Taxi è un libro magnifico. Khaled al-Kamissi (giornalista, regista e produttore cinematografico) vi ha raccolto cinquantotto sbobinature fittizie di altrettanti dialoghi e monologhi con/di tassisti egiziani, raccolti tra l’aprile del 2005 e il marzo del 2006. A fare da cornice alle voci che si raccontano, alcune brevi considerazioni dell’autore stesso, infaticabile fruitore, come tutti gli egiziani, delle vecchie, scalcagnate auto bianche e nere che percorrono le vie del Cairo ventiquattrore su ventiquattro. Giovanissimi o molto anziani, istruiti o quasi analfabeti, quasi tutti con un passato di migrazione alle spalle, tutti oberati di debiti e sfruttati da qualcuno (governo, proprietario dell’auto o poliziotto di turno), i taxisti offrono uno spaccato realistico di una città che, si dice, ha ormai superato i venti milioni di abitanti. Chiunque abbia visitato Il Cairo non può non riconoscere l’inarrestabile loquela di una classe lavoratrice che non conosce orari o turni, la curiosità, la sagacia, la rabbia e, talvolta, la maleducazione, di uomini che vivono la maggior parte della loro vita dentro un’automobile e hanno come unico svago il rapporto con il cliente. Dal momento della sua pubblicazione in originale, al Cairo il libro non ha mai cessato di essere venduto e dibattuto, segno inconfutabile di un vero interesse egiziano per “quello che tutti sanno e nessuno dice”, grazie anche e soprattutto alla particolare gradevolezza di una scrittura che riporta fedelmente dialetto e accenti della lingua parlata. Operazione, quest’ultima, che non risulta appieno nella versione italiana come, del resto, in quella inglese.

  • Cina e Russia. Sfida aperta alle 5 sorelle

    La Stampa | Lunedì 19 novembre 2007 | Maurizio Molinari |

    I giganti energetici di Pechino e Mosca pongono sfide molto diverse ma ugualmente serie ai concorrenti d’Occidente.

    È una delle barzellette più di moda ad Alma Aty, in Kazakhstan, a svelare cosa sta avvenendo sul mercato del greggio: «In città c’è una piccola delegazione cinese, sono diecimila». A raccontare l’aneddoto è Evan Feigenbaum, braccio destro del Segretario di Stato Condoleezza Rice sull’Asia Centrale e veterano delle guerre commerciali per il controllo delle risorse energetiche. Feigenbaum racconta la barzelletta al «Council on Foreign Relations» perché la ritiene veritiera: «Dal Mar Caspio all’Estremo Oriente i cinesi sono all’offensiva, costruiscono, acquistano, esplorano, investono e spendono una grande quantità di danaro e di risorse umane». Lo slancio della Repubblica popolare sul mercato energetico nasce dalla necessità di importare la metà del fabbisogno nazionale ed è riassunto dai nomi di tre giganti: China National Petroleum Corporation (Cnpc), China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) e Sinopec.

    «Hanno ruoli e compiti diversi – spiega Edward Morse, analista di greggio di fama mondiale, in forza a Lehman Brothers – perché Cnpc è il gigante pubblico maggior produttore di carburante e Cnooc esplora i giacimenti off-shore in Cina mentre Sinopec va aggressivamente alla ricerca di nuovi mercati all’estero». Sijin Chang è l’analista di Eurasia Group che segue 24 ore su 24 le mosse dei tre colossi e assicura che «fanno una dura concorrenza alle grandi compagnie occidentali» per due ragioni. Primo: «Dispongono di soldi pubblici in grande quantità e non lesinano a spenderli». Secondo: «Su indicazione del governo sfruttano le aree di crisi per insediarsi». Gli esempi più lampanti vengono dal Sudan, dove Sinopec ha quasi un monopolio sulle estrazioni, e il Turkmenistan, dove sempre Sinopec ha siglato un contratto trentennale per la realizzazione di un mega oleodotto destinato a portare gas e carburante verso Oriente. «Pechino gioca duro nella grande partita degli oleodotti – assicura Steve LeVine, giornalista del Wall Street Journal autore del libro «The Oil and the Glory» – punta a siglare in Kazakhstan un contratto simile a quello turkmeno, per alimentarsi via terra senza dover passare per la Russia o per il Golfo Persico».
    Ma non è tutto. Robin West, presidente di PFC Energy Inc. e fra i più ascoltati esperti di energia in America, spiega che «la forza dei cinesi è nel fatto che hanno manager aggressivi, gestiscono le aziende pubbliche come se fossero private e sono in grado di sfruttare a loro vantaggio le regole della concorrenza meglio di molte compagnie occidentali». Proprio a questo metodo «aggressivo e competitivo» West attribuisce il successo di PetroChina, di proprietà statale, che toccando un valore di mercato di un trilione di dollari ha scavalcato la rivale americana ExxonMobil – ferma a 488 miliardi di dollari – diventando questo mese la prima azienda del mondo per capitale azionario. «La sfida cinese alle Cinque Sorelle – aggiunge West riferendosi alle maggiori compagnie petrolifere occidentali – è molto simile a quelle che si preparano in India e Brasile, giocano alle nostre stesse regole ed hanno ottimi manager ma con più denaro sul piatto».
    Se questo avviene è anche perché le Cinque Sorelle – ExxonMobil, Royal Dutch Shell, British Petroleum, Chevron e ConocoPhillips – gestiscono diversamente i profitti: un recente studio del Baker Institute della Rice University attesta che spendono sempre di meno in esplorazioni, cedendo terreno ai rivali di altre nazioni che «sono dunque meglio posizionati per lo sfruttamento dei nuovi giacimenti». I monopoli non-occidentali «rappresentano i titolari dei primi dieci giacimenti del mondo mentre ExxonMobil, BP, Chevron, Royal Dutch e Shell sono rispettivamente al 14°, 17°, 19° e 25° posto» spiega Amy Myers Jaffe, autore del rapporto del Baker Institute. «Se le Cinque Sorelle spendono meno per l’esplorazione – osserva Morse – è perché per loro oramai la finanza conta più dell’estrazione e gli azionisti più dei trivellatori, destinano le risorse ad operazioni di mercato tese a rafforzare profitti più che a rischiare capitali in nuove aree».
    Quando si dice «monopoli» Morse, West, LeVine e Jaffe pensano subito alla Russia di Vladimir Putin. «La sfida russa è diversa da quella cinese perché non è di mercato bensì si basa sulla gestione quasi monopolistica delle immense risorse nazionali» spiega West, secondo cui «l’unica maniera per rispondere è venire a patti, cedere quote di mercato internazionale per averne in cambio dentro la Russia». Alexander Kliment è l’analista russo di punta di Eurasia Group e legge così la mappa energetica: «Rosneft è probabilmente la più grande azienda petrolifera del mondo così come Gazprom ha pochi rivali sul gas, entrambe sono emanazione del potere politico e tengono sotto controllo le risorse nazionali». Mentre l’asso nella manica del Cremlino «è Lukoil»: sulla carta privata ma in realtà sotto il controllo di Putin, ha il compito di «esplorare nuovi mercati» insediandosi «lì dove l’Occidente non vuole o non può», a cominciare dall’Iran di Mahmud Ahmadinejad.
    «Ma chi dovesse pensare che Lukoil si fermerà alle zone di crisi sbaglia – aggiunge Carter Page, responsabile dell’Energia per Merrill Lynch – perché la loro ambizione è portare la concorrenza sui mercati nordamericano ed europeo, come già sta avvenendo». Basta contare i distributori Lukoil a New York per accorgersene. Se l’aggressività di cinesi e russi è il tema del giorno per gli analisti petroliferi americani è anche vero che nessuno vede in questi nuovi giganti dei reali concorrenti sul piano della tecnologia. «Su innovazione e sviluppo né i russi né i cinesi sono in grado di sfidare le Cinque Sorelle – concordano Morse e West – la tecnologia resta il loro tallone d’Achille». Quali che siano le prossime puntate della sfida energetica Carter Page ha pochi dubbi su quanto sta avvenendo: «È l’energia il vero gioco del potere mondiale».

  • Dal Caucaso all’Asia centrale, gas e petrolio nel «Grande Gioco»

    | Le Monde Diplomatique | Giugno 2007 | Régis Genté (*) |

    Il vertice di metà maggio tra l’Unione europea e la Russia si è arenato in particolare sulla questione della cooperazione energetica: l’Unione, che importa dalla Russia il quarto del proprio consumo di petrolio e di gas, si preoccupa dell’accresciuto potere di Mosca in questo campo. L’accordo concluso, il 12 maggio, dal presidente russo Vladimir Putin con i suoi omologhi turkmeno e kazako, conferma un rovesciamento di tendenza: a lungo messo sulla difensiva dalla politica di aggiramento degli oleodotti e dei gasdotti, imposta dalle grandi potenze, Mosca ha ripreso l’offensiva.

    Il nuovo «Grande Gioco» ha raggiunto il culmine. Con in più, questa volta, al centro del gioco, il petrolio e il gas. Ma la domanda di idrocarburi non spiega da sola la battaglia tra le grandi potenze che intendono impossessarsi dei giacimenti delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e del Caucaso, sfuggite al dominio di Mosca con il crollo dell’Urss nel 1991. L’oro nero e l’oro grigio sono anche lo strumento di una lotta di influenza in vista del controllo del centro del continente eurasiatico. Per interposte major petrolifere, gli oleodotti sono le lunghe corde che consentono alle grandi potenze di ancorare al proprio sistema geostrategico i nuovi otto stati indipendenti (Nei) della regione (1). Nel XIX secolo, il «Grande Gioco», un’espressione diventata leggendaria con Kim, il romanzo di Rudyard Kipling, alludeva alla lotta d’influenza tra grandi potenze, in molti aspetti simile a quella odierna. All’epoca, la posta in gioco erano le cosiddette «Indie», il gioiello della corona britannica ambito dalla Russia imperiale (2). La lotta si protrasse per un secolo e si concluse nel 1907, quando Londra e San Pietroburgo trovarono un accordo per la suddivisione delle loro zone d’influenza, con la creazione di uno stato tampone tra di loro, l’Afghanistan (3). Questo accordo ha retto fino al 1991. Oggi, sebbene siano cambiati i metodi e le idee che guidano le grandi potenze, e i protagonisti non siano gli stessi, l’obiettivo ultimo permane. Si tratta di colonizzare, in un modo o nell’altro, l’Asia centrale per neutralizzarsi a vicenda.
    Certo il gas e il petrolio sono ricercati in quanto tali, ma anche come strumento di influenza, spiega Muratbek Imanaliev, un ex diplomatico kirghizo (e in passato sovietico), che presiede l’Institute for Public Policy a Bichtek (Kirghizistan). Subito dopo il crollo dell’Urss, i Nei vedono nel petrolio un mezzo per rimpolpare il bilancio e rafforzare l’indipendenza nei confronti di Mosca. Alla fine degli anni 80, l’impresa americana Chevron mette gli occhi sul giacimento di Tenguiz, tra i più grandi del mondo, a ovest del Kazakistan. La Chevron ne acquista il 50% nel 1993. Sull’altra riva del Mar Caspio, il presidente azero Gueidar Aliev firma, nel 1994, il «contratto del secolo» con società petrolifere straniere, per lo sfruttamento del campo Azeri-Chirag-Guneshli. La Russia è furibonda: il petrolio del Caspio le sfugge. Essa oppone a Baku la mancanza di statuto giuridico del mar Caspio, di cui non si sa se sia un mare o un lago. Mosca si era illusa che le cose sarebbero andate meglio con Aliev piuttosto che con il suo predecessore, il primo presidente dell’Azerbaigian indipendente, il nazionalista anti-russo Albullfaz Eltchibey, rovesciato da un golpe nel giugno 1993, pochi giorni prima della firma di importanti contratti con alcune major anglosassoni. Fine conoscitore dei meccanismi del sistema sovietico, Gueidar Aliev, ex generale del Kgb ed ex membro del Politburo, tratta in segreto con i petrolieri russi per trovare un terreno di accordo con Mosca: Lukoil ottiene il 10% del consorzio Azeri-Chirag-Guneshli.
    È l’inizio della lotta tra Est e Ovest per impadronirsi dei giacimenti della regione. Negli anni ’90, per giustificare la penetrazione nel bacino del mar Caspio, gli Stati uniti gonfiano le stime delle riserve di idrocarburi di quest’area. Parlano di 243 miliardi di barili di petrolio. Poco meno dell’Arabia saudita! Oggi si valutano ragionevolmente queste riserve a circa 50 miliardi di barili di petrolio e 9,1 trilioni di metri cubi di gas, ossia dal 4 al 5% delle riserve mondiali. Se gli Stati uniti si sono serviti di questo grosso bluff, è perché «essi volevano ad ogni costo costruire il Btc (l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan).
    Hanno provato di tutto… per tentare di impedire l’estensione dell’influenza russa, di ostacolarla. Non so quanto sapessero di esagerare», dice Steve Levine, giornalista americano specialista di questi problemi fin dai primi anni ’90 (4). Questo gioco d’influenza s’imballa. Approfittando della «guerra contro il terrorismo» in Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre, i militari americani si insediano nella ex-Urss. Con la benedizione di una Russia indebolita. Washington insedia le sue basi nel Kirghizistan e nell’Uzbekistan, promettendo di lasciare questi paesi appena sarebbe stata sradicata la cancrena islamista. «Bush si è servito di questo impegno militare massiccio nell’Asia centrale per suggellare la vittoria della Guerra fredda contro la Russia, arginare l’influenza cinese e mantenere il nodo scorsoio intorno all’Iran», dice Lutz Kleveman, ex corrispondente di guerra (5). Inoltre Washington svolge un ruolo determinante nelle rivoluzioni colorate in Georgia (nel 2003), in Ucraina (2004) e nel Kirghizistan (2005) che sono altrettanti pesanti scacchi per Mosca (6). Sconvolti da questi rovesciamenti di potere in serie, alcuni autocrati della regione voltano le spalle all’America e si riavvicinano alle Russia o alla Cina. Infatti il gioco si è complicato negli ultimi anni man mano che Pechino si intrometteva negli affari dell’Asia centrale e che l’Europa, in seguito alla guerra del gas tra Russia e Ucraina del gennaio 2006, accelerava i suoi progetti di captazione dell’oro grigio caspico. Petrolio, sicurezza, lotta d’influenza e battaglie ideologiche: bisogna puntare su tutti i fronti per cavarsela in questo «Grande Gioco». Inizialmente, la Russia è chiaramente in vantaggio in questo braccio di ferro: nel 1991, controlla tutti gli oleodotti che consentono ai Nei di trasportare i loro idrocarburi. Ma gli apparatchiki diventati presidenti si sforzano di non mettere tutte le loro uova nel paniere russo. Dopo la caduta dell’Urss, vengono costruiti una mezza dozzina di oleodotti che non attraversano il territorio del grande fratello: Mosca perde così parte del suo peso politico ed economico. Un tempo sconvolta dalla presenza militare americana e dalla serie di «rivoluzioni colorate», Mosca si rafforza nei paesi vicini L’esempio del Turkmenistan è emblematico delle relazioni della Russia con i territori del suo antico dominio: dei 50 miliardi di metri cubi di gas prodotti nel 2006 nel Turkmenistan, 40 sono stati venduti alla Russia. Scelta obbligata. A parte un piccolo gasdotto inaugurato nel 1997, che lo collega all’Iran, il Turkmenistan dispone solo del Sac-4, un oleodotto che arriva in Russia. Una catena vera e propria.
    E, nell’aprile 2003, il presidente russo Vladimir Putin è in grado di costringere il suo omologo turkmeno Saparmurad Niazov (scomparso alla fine del 2006) a firmare un contratto di 25 anni per 80 miliardi di metri cubi all’anno, venduti al prezzo ridicolo di 44 dollari/1000 m3. Ben presto Achkhabad cerca di rimettere in questione queste condizioni e blocca le consegne. Nell’inverno 2005 Mosca si rassegna a pagare 65 dollari/1000 m3 perché il gas turkmeno è indispensabile in particolare per rifornire a basso prezzo la popolazione russa. Nel settembre 2006, Gazprom va oltre e firma un contratto con Achkhabad impegnandosi, per il periodo 2007-2009, a pagare 100 dollari/1000 m3. Questo perché, cinque mesi prima, in aprile, il dittatore scomparso aveva firmato con il presidente cinese Hu Jintao un documento che impegnava il Turkmenistan a fornire alla Cina, per una durata di trent’anni, 30 miliardi di metri cubi di gas naturale ogni anno, a partire dal 2009, e a costruire un gasdotto lungo 2000 chilometri. Questo spiega probabilmente perché Gazprom ha dovuto alzare le sue tariffe. Forse Achkhabad vuole ancora alzare il prezzo? Dopo la sua prima visita ufficiale a Mosca in veste di presidente, Gurbanguly Berdymukhammedov invita Chevron a partecipare allo sviluppo del settore energetico turkmeno. Mai il suo predecessore aveva osato fare simile proposta a una major internazionale. Peraltro il presidente non respinge le proposte europee riguardanti il corridoio transcaspico. E’ possibile che minacci di far entrare gli occidentali nel suo gioco per spingere Gazprom ad accettare un prezzo più alto – infatti all’Europa chiede più di 250 dollari/1000 m3. Eppure Putin aveva proposto di restaurare il SAC-4 e di costruire un altro gasdotto che collegasse i due paesi. «La Russia vuole mostrare ai turkmeni che è pronta a fare molto per loro. Mosca spera di dissuaderli dal trattare con i cinesi e gli occidentali», osserva il giornalista russo Arkady Dubnov. «La battaglia che Mosca deve condurre contro il Turkmenistan dimostra che la Russia non è più onnipotente nelle ex repubbliche sovietiche e che ciò che prevale oggi è il pragmatismo economico di Putin e della sua cerchia», conclude questo esperto della Comunità degli Stati indipendenti (Cei). Il 12 maggio scorso durante una visita di una settimana in Asia Centrale, Vladimir Putin ha firmato con i suoi omologhi turkmeno e kazaco un accordo per l’ammodernamento del gasdotto Cac-4 e la costruzione di un altro tubo, destinati a trasportare il gas del Turkmenistan in Russia. È in gran fretta che il presidente russo è arrivato a Turkmenbachi per strappare questo accordo, proprio mentre un analogo vertice concorrente era organizzato nello stesso periodo a Cracovia, in Polonia. Là svariati paesi situati ai margini della Russia speravano di lanciare oleodotti ostili. Il presidente kazaco ha perfino dovuto rinunciare a recarvisi per accogliere Putin. Come è riuscita la Russia a raggiungere i propri fini? Essa sembra avere argomenti che ne fanno ancora e senza dubbio per un lungo periodo, la più potente delle grandi potenze in Asia centrale. Pechino e Bruxelles hanno di che preoccuparsi per i per i loro progetti di approvvigionamento in Asia centrale.
    Il metodo russo ha l’inconveniente di essere spesso brutale. Per questo, nel 2005, la crisi del gas tra Mosca e Kiev è stata sofferta dagli europei (7). Lo spettro dell’interruzione delle forniture aleggiava sul vecchio continente che importa un quarto del suo gas dalla Russia.
    Tuttavia, sdrammatizza Jérôme Guillet, autore di uno studio sulle guerre del gas del 2006, queste crisi sono «lo specchio delle lotte che si tramano nelle quinte tra fazioni potenti all’interno del Cremlino o in Ucraina, più che l’effetto di un uso deliberato dell’arma energetica» (8).
    Primo produttore mondiale di gas e secondo di petrolio, la Russia ha ritrovato la tranquillità finanziaria e prende iniziative strategiche.
    Il 15 marzo scorso, ha firmato un accordo con la Bulgaria e la Grecia per la costruzione dell’oleodotto Burgas-Alexandroupoli (Bap). Un vero concorrente per il Btc e, meglio ancora, il primo che lo stato russo controlli sul territorio europeo. Parimenti, da alcuni mesi, il grezzo scorre lungo i 1.760 chilometri del Btc come il gas nel Baku-Tbilissi-Erzurum (Bte). L’arteria vitale dell’influenza occidentale nella ex-Urss funziona e produce i primi effetti politici. Da quest’anno, la Georgia sembra dipendere un po’ meno dal gas russo, mentre un anno fa, non poteva importarne altro. Gli aumenti clamorosi imposti dalla Russia – in due anni, il gas è passato da 55 a 230 dollari/1000 m3. – hanno colpito l’economia georgiana meno di quanto Mosca si aspettasse. Le quantità fornite dal Bte a titolo di royalty, e dalla Turchia, che cede a prezzo di affezione la parte di gas che le spetta per questo gasdotto, hanno permesso alla Georgia di comporre un prezzo medio accettabile (9). Peggio ancora per Mosca: il tentativo di imporre all’Azerbaigian un aumento dei prezzi nella stessa misura, nella speranza che colpisca di rimando le forniture destinate a T’bilisi, ha fortemente irritato il presidente Ilham Aliev. «Questo prova che il Btc (come il Bte) rappresenta senza dubbio la più grande vittoria americana in politica internazionale negli ultimi quindici anni. Un successo in fatto di “containment” della Russia e di sostegno all’indipendenza delle repubbliche caucasiche», sostiene Steve Levine. Questi oleodotti offrono agli Stati uniti e all’Europa la possibilità di lanciare due progetti per diversificare le loro fonti di approvvigionamento e attrarre nella loro cerchia politica i Nei della regione. Il primo, il Kazakhstan Caspian Transportation System (Kcts), destinato a convogliare il petrolio del giacimento di Kachagan, il più grande scoperto nel mondo negli ultimi trent’anni. La produzione deve iniziare alla fine del 2010, e gli azionisti del consorzio incaricato dello sfruttamento di questo giacimento, composto da grandi majors occidentali (10), si propongono di trasportare da 1,2 a 1,5 milioni di barili al giorno lungo un itinerario sud-ovest che attraverserà il mar Caspio.
    Impossibile far passare l’oleodotto sotto il mare a causa dell’opposizione dei russi e degli iraniani: una flotta di petroliere farà la spola tra il Kazakistan e l’Azerbaigian, dove un nuovo terminal petrolifero collegherà il «sistema» al Btc. Questo, grazie ad alcune stazioni di pompaggio supplementari e all’uso di prodotti destinati a dinamizzare il passaggio dell’olio nelle tubature, dovrebbe avere un aumento della capacità da 1 a 1,8 milioni di barili al giorno. Il secondo progetto riguarda l’«oro grigio» ed è per ora appena abbozzato: si tratta del «corridoio transcaspico», destinato a rifornire l’Europa di gas kazako e turkmeno. «Parliamo di “corridoio” e non di gasdotto – precisa Faouzi Bensara, consigliere per l’energia alla Commissione europea – Proponiamo di avviare una riflessione su soluzioni tecnologiche alternative, come incoraggiare investimenti per la produzione di gas naturale liquefatto nel Turkmenistan, ad esempio, il quale potrebbe in seguito essere trasportato via nave fino a Baku». L’Unione europea non vuole essere protagonista del «grande gioco», precisa questo alto funzionario: «L’Ue è motivata solo dal suo bisogno. Presto ci occorreranno da 120 a 150 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
    Il nostro obiettivo è trovare questi volumi supplementari e diversificare le nostre fonti di approvvigionamento. Nient’altro. Individueremo soluzioni che saranno complementari a quelle che già esistono».
    In compenso, un altro grande pipeline strategico promosso da Washington ha scarse possibilità di attuazione: si tratta del Tapi (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), il famoso gasdotto che gli Stati uniti, con la società petrolifera americana Unocal, si ripromettevano di costruire con i taliban nella seconda metà degli anni ’90. «Questo progetto comporta troppi inconvenienti, riguardanti la sicurezza, con il ritorno dei taliban in Afghanistan.
    Peraltro, molti esperti ritengono che le riserve del Turkmenistan non siano state correttamente valutate», dice il professore Ajay Kumar Patnalk, specialista della Russia e dell’Asia centrale all’università Jawaharlal Nehru, a New Delhi.
    Washington difendeva il Tapi, sia per isolare l’Iran, sia per indebolire la Russia nell’Asia centrale. Ormai, gli Stati uniti intendono integrare l’Afghanistan tra i paesi vicini e allo stesso tempo fornirgli risorse per riscaldare le sue popolazioni e rilanciare la sua economia, come pegno della sua stabilità. In questo senso, nel 2005, il dipartimento di stato americano ha riorganizzato la sua divisione Asia del Sud fondendola con la divisione Asia centrale, per agevolare le relazioni a tutti i livelli in quest’area designata come «Grande Asia centrale».
    L’energia costituisce uno dei vettori essenziali delle relazioni interne nella regione. Sono quindi nati diversi progetti di centrali idroelettriche, ad esempio nel Tagikistan, destinati ad alimentare il Nord afghano. Ma l’idea nel suo insieme non va avanti. New Delhi in particolare, si sente lontana dall’Asia centrale ed esita a diventare parte integrante del Tapi. Sarebbe più attratta dal progetto di gasdotto Iran-Pakistan-India (Ipi), proposto da Tehran, sebbene l’Iran-Libya Sanctions Act (Ilsa) – mediante il quale Washington punisce ogni impresa che investa nel petrolio o il gas di questi paesi – vieta a New Delhi di fare il passo. «L’Iran è il grande perdente del nuovo “grande gioco”. Non solo gli oleodotti aggirano il suo territorio, ma nessuno può investire in Iran – rileva Mohammed Reza-Djalili, specialista iraniano delle relazioni internazionali dell’Asia centrale – . Ma sono proprio gli investimenti che mancano in questo paese. Le sue installazioni risalgono agli anni 1970, sicché l’Iran è costretto a importare il 40% della sua benzina. Non ha potuto esplorare la sua parte del mar Caspio e il suo enorme potenziale di gas solo parzialmente sfruttato». Peraltro è paradossale che il «Grande Gioco» escluda Tehran, mentre i produttori di idrocarburi nell’Asia centrale sognano una via meridionale: «Può essere meno caro e piuttosto semplice sul piano tecnico – spiega Arnaud Breuillac, direttore Total per l’Europa centrale e l’Asia continentale. Siamo in una logica di diversificazione delle nostre vie di esportazione. In questo quadro, abbbiamo preso un’opzione sulla via sud, tanto più che la regione di consumo più vicina al mar Caspio è il nord Iran». Questo spiega perché il riavvicinamento con l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Ocs) (11) rappresenti in questo contesto, secondo Reza-Djalili, «un salvagente della politica iraniana nell’Asia centrale. Per questo tramite, Tehran può intrecciare legami con l’Asia, in particolare con la Cina, e rafforzarsi nel suo braccio di ferro con gli Stati uniti». Da parte sua, la Cina – spiega Thierry Kellner, specialista della Cina e dell’Asia centrale – persegue tre obiettivi in questo «Grande Gioco»: «La sua sicurezza, in particolare nella provincia turcofona dello Xinjiang, che fiancheggia l’Asia centrale; la cooperazione con i vicini, per impedire che un’altra grande potenza diventi troppo potente nello spazio centro-asiatico; infine l’approvvigionamento energetico». I numerosi acquisti di diritti di estrazione petrolifera di Pechino in Asia centrale, da alcuni anni, hanno fatto correre molto inchiostro. Nel dicembre 2005, la Cina inaugurava addirittura un oleodotto che collega Atassu, nel Kazakhstan, ad Alachanku, nello Xinjiang. «Il primo contratto petrolifero firmato da Pechino nell’Asia centrale risale al 1997 – rileva Kellner. La Cina lavora sul lungo termine. Ha saputo costruire basi solide nell’Asia centrale, e oggi questa politica paga».
    Questa frenesia di acquisti non risponde soltanto alla richiesta di idrocarburi in un paese che ha una crescita annua del 10%. Secondo Kellner, traduce anche la sua visione geopolitica: «La Cina non vede le cose in termini di mercato, sebbene l’offerta e la richiesta di petrolio siano globalizzate. Per garantire la propria sicurezza energetica, si offre giacimenti e oleodotti che ne assicurano l’approvvigionamento diretto, ma che sono molto costosi. Mentre è essenziale che offerta e domanda si equilibrino a livello mondiale per mantenere i prezzi.
    Nel suo stesso interesse, Pechino dovrebbe piuttosto contribuire a questo equilibrio senza necessariamente pensare ai propri approvvigionamenti diretti».
    Le ex repubbliche sovietiche sfruttano la concorrenza tra le grandi potenze per consolidare la propria indipendenza economica e politica Investire nell’Asia centrale significa anche, per i cinesi, la possibilità di inserirsi negli affari della regione per contribuire alla sua sicurezza – così dicono. Pechino si impegna nell’Ocs per federare gli stati membri sui temi prediletti, come la lotta contro il terrorismo o la cooperazione economica ed energetica. Di più, l’organizzazione forma un blocco in grado di creare una forte solidarietà in caso di destabilizzazione della regione, o di accresciuta influenza degli Stati uniti che potrebbero arrivare al punto di minacciare i poteri costituiti. L’ondata di «rivoluzioni colorate» nello spazio ex-sovietico a partire dal 2003 ha così portato l’organizzazione a prendere una posizione più netta contro Washington. Nel luglio 2005, ad esempio, i suoi sei membri sostenevano Tashkent nella sua esigenza di chiudere la base militare aerea americana di Karshi-Khanabad, aperta nel quadro dell’operazione in Afghanistan. In effetti, non esiste più nessun Gl sul suolo uzbeko. In realtà, il «grande gioco» conviene alle repubbliche d’Asia centrale e del Caucaso che puntano sulla concorrenza tra le grandi potenze.
    Diventano un po’ più indipendenti, in quanto possono dire di «no» a una di queste grandi potenze per rivolgersi a un’altra grande capitale.
    Il che spesso significa soprattutto scegliere la propria dipendenza.
    Mentre il Kazakistan apre la sua economia al mondo, l’Uzbekistan la chiude, e mentre la Georgia punta fino in fondo sulla carta americana, il Turkmenistan conserva una profonda sfiducia nei confronti di Washington.
    Al di là di queste differenze, il «grande gioco» consente loro di essere meno costrette a seguire la strada imposta da una delle potenze dominanti. Ad esempio, se il discorso democratico dell’Occidente compromette gli interessi dei dirigenti centro-asiatici o caucasici, essi possono comunque voltargli le spalle, visto che né Pechino né Mosca sono molto rigorosi in materia. A dire il vero, nemmeno Washington o Bruxelles lo sono sistematicamente.
    Gli imperativi strategici li portano spesso a relegare i diritti della persona in secondo piano, cosa che discredita notevolmente i valori cosiddetti «occidentali», nei quali i poteri della regione non vedono altro che un’arma ideologica. Dopo il 2003, per mettere a tacere le critiche, i loro dirigenti perfezionano, mese dopo mese, un discorso sul loro modo «orientale», di costruire la democrazia a casa propria. Nel frattempo, la corruzione regna in questo «grande gioco»: la manna del petrolio e del gas, anche se si tratta di ricchezze nazionali, sfugge in gran parte al controllo democratico degli abitanti di questi paesi.

    note:
    * Giornalista indipendente, Bishek (Kirghizistan)
    (1) Si legga Vicken Cheterian, «Il “Grande Gioco” del petrolio in Transcaucasia» e «L’Asia centrale, retrovia americana», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente ottobre 1997 e febbraio 2003.
    (2) La teoria dello Heartland si deve al britannico Halford John Mackinder (1861-1947). Padre della geopolitica contemporanea, egli concepiva il pianeta come un insieme che gira intorno al continente eurasiatico, lo Heartland. Per dominare il mondo, occorre dominare questo «perno geografico del mondo». Mackinder riteneva che la Russia, padrona dell’Heartland a causa della sua posizione geografica, possedesse una superiorità strategica sulla Gran Bretagna, potenza marittima.
    (3) Sul «grande gioco», cfr. Peter Hopkirk, The Great Game, On Secret Service in Central Asia, Oxford University Press, New York, 1991.
    Per un breve riassunto, cfr. Boris Eisenbaum, Guerres en Asie centrale.
    Luttes d’influences, pétrole, islamisme et mafias, 1850-2004, Grasset, Parigi, 2005.
    (4) Egli pubblicherà il prossimo ottobre un libro intitolato The Oil and the Glory: The Pursuit of Empire and Fortune on the Caspian Sea, Random House, New York, 2007.
    (5) «Oil and the New “Great Game”», The Nation, New York, 16 febbraio 2004.
    (6) Si legga Vicken Cheterian, «Le strane rivoluzioni che avvengono all’Est», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2005.
    (7) Si legga Vicken Cheterian, «La rivoluzione arancione si scolora», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2006.
    (8) Jérôme Guillet, «Gazprom, partenaire prévisibile: relire les crises énergétiques Russie-Ukraine et Russie-Belarus», Russie, NeiVisions, n° 18 Ifri, marzo 2007. Per una visione opposta, cfr. Christophe-Alexandre Paillard, «Gasprom: mode d’emploi pour un suicide énergétique», Russie, Nei Visions, n° 17 Ifri, marzo 2007.
    (9) Cfr. «La Géorgie tente de réduire sa dépendance énergétique vis-à-vis de la Russie», Bulletin de l’industrie pétrolière, Parigi, 8 febbraio 2007.
    (10) Gli azionisti di Agip Kco sono Eni (18,52%), ExxonMobil (18,52%); Shell (18,52%), ConocoPhillips (9,26%), la società nazionale petrolifera kazaka KazMunayGas (8,33%), Inpex (8,33%).
    (11) L’Ocs è stata creata nel 1996 con la denominazione di «gruppo di Shanghai». Comprende oggi sei Stati membri (Cina, Kazakhstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Russia, Tagikistan) e quattro osservatori (India, Iran, Mongolia, Pakistan). Questo ultimo statuto di osservatore è stato negato agli Stati uniti.

  • Vecchi, sporchi e pericolosi si fermano i taxi del Cairo

    La Repubblica | Venerdì 22 maggio 2009 | Francesca Caferri |

    La battaglia per le strade del Cairo è cominciata. E promette di essere lunga, rumorosa, trasgressiva. Non è la solita lotta per la sopravvivenza nel traffico di una delle metropoli più caotiche del mondo, né tantomeno il quotidiano braccio di ferro fra chi infrange le regole della strada e chi cerca di farle rispettare. L’ ultima guerra che si è scatenata sui viali e nei vicoli della capitale egiziana l’ hanno dichiarata i tassisti al governo: oggetto del contendere la direttiva con la quale le autorità hanno stabilito che entro tre anni tutti i taxi egiziani più vecchi di 25 anni dovranno obbligatoriamente essere rimpiazzati con auto più nuove. «Ridurre l’ inquinamento e il numero di incidenti sono priorità non più rimandabili», è la linea del ministero dell’ Interno, che promette di ripulire le strade egiziane entro il 2011da Dacia 1300 romene, Fiat 1300, Peugeot 504 e Shahins turche. Il provvedimento riguarda migliaia di taxi (40mila nella sola Cairo), ma per il momento solo cinquemila tassisti hanno dimostrato interesse a cambiare macchina.A chi rottamerà il vecchio mezzo,i produttori garantiranno uno sconto fra le 2000 e le 5000 sterline egiziane (fra 270 e i 670 euro circa) sull’ acquisto di un’ auto nuova, le banche mutui a tassi favorevoli e il ministero dei trasporti un finanziamento mensile e l’ assegnazione di una campagna pubblicitaria da esporre sulle portiere: i proventi andranno direttamente al proprietario della macchina. Qualche settimana fa le prime auto nuove sono arrivate, i tassisti hanno capito che la legge, almeno in questa prima fase, non sarebbe rimasta sulla carta e per questo hanno cominciato a protestare. Walid, impiegato pubblico e – come secondo lavoro – tassistaè stato frai primia parlare con i giornalisti: «Guadagno 1000 sterline al mese guidando ed è il doppio di quanto prendo in ufficio. Non cambierò la mia macchina a meno che non mi forzino». «Lo stato dell’ auto dipende dal proprietario e dall’ autista, non dall’ anno di produzione. La mia è degli anni ‘ 70 ma è in un condizioni migliori di molte vetture nuove», ha insistito con i cronisti del settimanale Al Ahram un altro tassista, Ahmed Sayed. A prima vista il governo non sembra intenzionato a fermarsi. «I freni sono quasi distrutti. Le ruote possono staccarsi. Queste auto provocano un grosso numero di incidenti», ha detto commentando le polemiche Sharif Gomaa, del ministero dell’ Interno. Ma un esperto della vita dei taxi cairoti come Khaled al Khamissi ritiene che ancora una volta la riforma non passerà. «Non perché non sia una buona idea – spiega – ma perché, come spesso accade, l’ applicazione è pessima. Le auto fra cui i tassisti possono scegliere per accedere ai finanziamenti sono modelli cari e vecchi, come la Lada russa. Tutti sanno che nel giro di due anni questa macchina sarà rotta e inquinerà tanto quanto le quelle che hanno 30 anni». Al Khamissi sa di cosa parla: nel 2007 il suo primo libro – “Taxi, le strade del Cairo si raccontano”, storie ed aneddoti sulla vita quotidiana nella capitale egiziana vista attraverso i finestrini – vendette centinaia di migliaia di copie e fu ristampato sette volte. «È come provare a mettere il trucco sul viso di un morto per farlo sembrare più bello – ironizza l’ autore – il governo vuole migliorare l’ aspetto del Cairo. E cosa fa? Propone modelli scadenti e costosi. E come pensano che i tassisti possano pagarle? Non possono certo aumentare i costi delle corse, che sono già troppo care per gli egiziani». Cosa fare allora? Al Khamissi non ha la sfera per vedere il futuro, ma vive al Cairo da anni ed è certo che questa riforma, come tante di quelle che l’ hanno preceduta, affonderà presto: «Questo è l’ Egitto – conclude – le regole che valgono per altri paesi qui non funzionano mai».

  • Torino. Domani apre la XXII Edizione della Fiera del libro

    Dazebao | Mercoledì 13 maggio 2009 | Giorgia Mecca |

    TORINO – Domani al Lingotto  di  Torino si aprirà la ventiduesima edizione della Fiera Internazionale del Libro, la più importante manifestazione italiana legata alla cultura e all’editoria.  Quest’anno saranno presenti ben 1400 editori. “L’Io e gli altri”, ovvero la nostra individualità e il rapporto con gli altri, è il tema principale di questa attesa edizione.
    Non è un caso che la scelta sia ricaduta in un argomento così attuale che si lega particolarmente alla crisi d’identita a cui assistiamo in questi anni, la folle ipertrofia dell’Io che ha cancellato la presenza degli altri. Il nostro Io è malato, disgregato e soprattutto incapace di rapportarsi con gli altri. Gli altri sono sempre piu percepiti come diversi e quindi simbolo del Male.  Abbiamo perso il senso della comunità e siamo incapaci di riconoscerci in un progetto comune. Con questo messaggio la fiera del libro vuole essere un’occasione unica per riconoscere l’altro e per uscire dalla nostra individualità malata. Un Io malato porta necessariamente a una scoietà malata.

    Luciano Canfora, il celebre storico dell’antichità che terrà una lectio magistralis sul cesarismo, afferma proprio questo: “la società è diventata una somma di atomi, una massa inerte in adorazione di un leader carismatico”. La Fiera del Libro diventa cos’ un’opportunità per uscire dal guscio, come recita lo slogan, e per ricreare una società basata sull’aggregazione solidale.  
    La riflessione di quest’anno non partirà dalla letteratura bensì dalle neuroscienze. I due importanti biologi  Edoardo Bocinelli e Giacomo Rizzolatti spiegherànno come funziona il nostro cervello, la sede deputata dell’identità, poi si parlerà di psicoanalisi e della grandi scuole del ventesimo secolo, da Freud Jung a Lacan.
    Accanto all’Io e alla sua crisi la Fiera del libro tratterà anche argomenti di attualità attraverso i numerosi dibattiti che sono previsti in questi giorni: Emma Bonino e il figlio della giornalista russa Anna Politkovskaja parleranno di diritti umani, Fausto Bertinotti e Antonio di Pietro discuteranno sulla crisi della sinistra italiana, Mario Deaglio invece parlerà della crisi mondiale e delle possibili vie d’uscita.

    Nonostante la crisi e i tagli alla cultura la Fiera non ha rinunciato a fare le cose in grande per dar lustro a questo appuntamento. L’elenco degli ospiti è lunghissimo, saranno presenti i nomi piu noti della letteratura nazionale e internazionale, David Grossman, Bjorn Larsson, Umberto Eco, Giorgio Faletti, che proprio alla Fiera presenterà il suo  nuovo libro “Io sono Dio”, Magdi Allam, Gianrico Carofiglio e molti altri. Ma i piu attesi sono il premio Nobel turco Orhan Pamuk, che ritorna alla Fiera del Libro dopo un’assenza duranta ben otto anni e Rita Levi Montalcini. Il paese ospite di questa edizione è L’Egitto, uno stato legato da uno straordinario legame con il capoluogo piemontese.
    In questi giorni, infatti, sono presenti due mostre sull’Antico Egitto, oltre alle esposizioni permanenti al Museo Egizio e Torino ospiterà 20 scrittori egiziani tra cui Nawal Al Saadawi che ha scritto quest’anno “L’amore ai tempi del Petrolio“.
    In questo periodo in cui l’attenzione è rivolta alla crisi di un mondo dove la sfrenata globalizzazione rischia l’implosione su se stessa, la Fiera del Libro preferisce focalizzare “in primis” l’attenzione sulle singole individualità che si celano dentro ogni essere umano. Un punto di  partenza fondamentale per iniziare a comprendere quale futuro ci aspetta, ma soprattutto quali strade intendiamo percorrere, evitando le solitudini sociali.

  • Dissidente per principio

    il manifesto | Sabato 16 maggio 2009 | Giuliano Battiston |

    LA LETTERATURA COME ISTINTO E DISOBBEDIENZA Chi scrive ha una doppia responsabilità, verso di sé e verso gli altri. L’analisi critica e la liberazione della propria creatività, per l’autrice egiziana Nawal Al Saadawi ospite della ventiduesima Fiera del libro di Torino, sono il primo passo verso il riconoscimento dell’altro.

    Prima ancora che nel 1944, a soli tredici anni, scrivesse il suo romanzo d’esordio, Memorie di una bambina di nome Soad, pubblicato molti anni dopo, l’egiziana Nawal Al Saadawi era solita indirizzare delle lettere a Dio, chiedendogli che concedesse a suo fratello il doppio dei diritti, rispetto a lei, «soltanto perché lui era maschio». Fu in quegli anni – racconta oggi – che la futura autrice di Firdaus (Giunti, nuova edizione 2007) divenne femminista, e che il suo femminismo si combinò con la riluttanza ad accettare i precetti di un Dio che «mi aveva creato essere umano soltanto a metà», come spiega in uno dei suoi testi autobiografici, Una figlia di Iside (Nutrimenti, 2002).
    Proprio combinando il femminismo, inteso come «rifiuto di ogni forma di ingiustizia, in cielo e in terra, nella famiglia o nello Stato», e una disobbedienza precocemente maturata («ero molto disobbediente, lo sono stata fin da quando ero una bambina», racconta in Dissidenza e scrittura, Spirali, 2008), è nato il percorso di una delle intellettuali del mondo arabo più influenti e ascoltate. Ma anche una delle più temute da quanti – governi e autorità religiose di ogni credo – mal sopportano il coraggio di una donna, medico, psichiatra, scrittrice e attivista, che alle denunce contro le mutilazioni genitali continua ad affiancare la critica alla «clitoridectomia piscologica imposta dal sistema patriarcale e classista» perché, sostiene, «amputare l’immaginazione non è meno pericoloso che amputare parti del corpo».
    Un sistema che ha sempre cercato di ostacolarla, censurando i suoi libri, chiudendo le riviste da lei fondate, incarcerandola, includendo il suo nome nelle liste di morte dei fondamentalisti, portandola in tribunale con l’accusa di apostasia. Finora i tentativi delle autorità politico-religiose, ciecamente obbedienti alla legge divina o terrestre, non hanno però fatto altro che accrescere l’autorevolezza di questa donna tenace, obbediente soltanto all’istinto della bambina che era un tempo, quando cominciò a disobbedire.
    Abbiamo incontrato Nawal Al Saadawi alla Fiera del libro di Torino, dove oggi alle 15 terrà una lezione su Creatività e dissidenza, affiancata da Isabella Camera d’Afflitto.
    Nel suo ultimo romanzo tradotto in italiano, L’amore ai tempi del petrolio (il Sirente, 2009), il Re stabilisce che «ogni donna sorpresa in possesso di carta e penna verrà processata». Lei usa carta e penna da quando era bambina, e sin da allora viene “processata”. Qual è stata la sua “colpa” principale? Disobbedire a quanti rivendicano il possesso di una verità esclusiva e inalterabile?
    Non mi è mai piaciuto il verbo obbedire, e ciò che esso significa. L’obbedienza infatti rimanda immediatamente ai precetti politici o religiosi: si deve obbedire alle autorità, a chi detiene il potere, al sistema politico nel suo complesso, a Dio. Inoltre, l’obbedienza contraddice inevitabilmente la creatività, perché essere creativi significa innanzitutto disobbedire ed esercitare le armi della critica. Come lei saprà, dal 1993 tengo negli Stati Uniti e non solo dei corsi universitari dedicati a “Dissidenza e creatività”, nei quali cerco di sollecitare i miei studenti a sviluppare una mentalità critica, un atteggiamento sospettoso verso ogni autorità, che sia Dio, il capo di Stato o chiunque altro presuma di possedere una verità inalterabile. L’analisi critica è il primo passo verso la dissidenza e la creatività, che sono due facce della stessa medaglia.
    Lei sostiene che la creatività sia legata alla «capacità di disfare ciò che l’educazione formale e informale ci ha fatto a partire dalla fanciullezza». Vuol dire che non ci può essere vera creatività – e dissidenza – se non si supera quella che definisce come «frammentazione della conoscenza»?
    Le porto il mio esempio: ho studiato medicina, ma una medicina impermeabile al resto delle discipline, separata dalla filosofia, dalla religione, dalla politica, dall’economia. Così, sono diventata un medico ignorante di ciò che mi accadeva intorno, proprio perché educata secondo i criteri della frammentazione della conoscenza. La creatività, invece, è lo sforzo volto a disfare questa frammentazione e a riconnettere tutti gli ambiti separati. Che ci sia bisogno di farlo lo dimostrano i fatti: molte delle malattie derivano dalla povertà, e la povertà è una questione essenzialmente politica, perché nasce dalle scelte politiche che rendono alcuni poveri e altri ricchi. Per poter essere dei buoni dottori, perciò, occorre “mettere insieme” le discipline in genere distinte; e per poter essere degli scrittori creativi occorre superare la falsa distinzione tra fiction e non fiction, tra narrativa e saggistica o autobiografia.
    La cornice tematica della Fiera del Libro di quest’anno è il rapporto “Io, gli altri”. In un saggio del 2001, lei scrive che la creatività «è la capacità di essere se stessi a dispetto di ogni pressione», ma anche «di riuscire a guardare se stessi in relazione agli altri». Intende dire che non si può ottenere libertà personale e fiducia in se stessi senza responsabilità verso gli altri, senza una relazione sé/altri che non sia compromessa dalla tentazione di dominare l’altro?
    Infatti, è proprio così. Sono sempre stata convinta che libertà e responsabilità siano legate in modo indissolubile, che l’una non si possa dare senza l’altra. Io, per esempio, scrivo per me stessa, per il piacere che ne ricavo, per il bisogno di affermare la mia libertà e per dare forma alla mia creatività, ma tengo sempre in mente la responsabilità della pubblicazione, tengo in contro gli altri, i miei eventuali interlocutori, coloro ai quali destino idealmente il mio lavoro. Non si tratta di una scrittura chiusa in se stessa, ma di una scrittura che si apre, costitutivamente, agli altri. La creatività abolisce la divisione tra sé e gli altri, e insieme tutte le dicotomie che abbiamo ereditato dal periodo schiavistico e che il sistema patriarcale classista riproduce: divino/umano, diavolo/dio, paradiso/terra, corpo/spirito, uomo/donna, conscio/inconscio, etc. Grazie alla scrittura, queste dicotomie vengono ricomposte nell’individuo, che a sua volta viene ricollocato all’interno della società, nella relazione con gli altri. Da qui nasce la doppia responsabilità di chi scrive: verso sé e verso gli altri.
    «Sono diventata una femminista quand’ero bambina, all’età di sette anni», ha raccontato una volta. Ci spiega cosa intende quando sostiene che oggi le donne debbano affrontare «un doppio assalto», quello del «consumismo del libero mercato» da una parte e quello del «fondamentalismo religioso e politico» dall’altra?
    Dicendo che sono diventata femminista a otto anni intendo dire che ogni bambino è naturalmente creativo, ed è consapevole delle ingiustizie che patisce. Quando sono oppressi o limitati, i bambini si rivoltano, disobbediscono, oppure, semplicemente, hanno paura. Ecco, per me femminismo significa rifiutare di avere paura, rifiutare ogni forma di ingiustizia, politica, religiosa, di classe, di genere. Per quanto riguarda il “doppio assalto”, basta pensare alle donne irachene, a quelle afghane, alle palestinesi, che oggi combattono due battaglie: contro l’occupazione americana (o israeliana), legata al consumismo degli Stati Uniti e allo sfruttamento del petrolio, e quella contro il fondamentalismo religioso, incoraggiato proprio dagli americani. Il sistema capitalista patriarcale, classista e razzista, non solo si basa sull’ingiustizia, riproducendola, ma ha bisogno di Dio e della religione per legittimarla. Succede in Iraq, ma succede in Egitto, un paese economicamente colonizzato, in Afghanistan e in Palestina. Per questo, contesto chi parla di post-colonialismo: viviamo invece in un periodo di neocolonialismo.
    In un saggio del 2002 su Esilio e resistenza scrive: «Da quando sono nata ho sentito di essere in esilio». Per poi aggiungere: «la scrittura mi ha aiutata a combattere l’esilio e la sensazione di essere “aliena”». Crede che la scrittura sia uno strumento con cui possiamo abitare la nostra “casa esistenziale”, anche se siamo lontani da quella “materiale”?
    Chi scrive ha una doppia responsabilità, verso di sé e verso gli altri. L’analisi critica e la liberazione della propria creatività, per l’autrice egiziana Nawal Al Saadawi ospite della ventiduesima Fiera del libro di Torino, sono il primo passo verso il riconoscimento dell’altro.
    Cos’è la casa? Dov’è che ci sentiamo propriamente a casa? Non certo in una particolare porzione di terra, non, necessariamente, nel luogo in cui siamo nati. Siamo a casa quando siamo nel posto in cui troviamo giustizia, umanità, libertà e amore, e dove troviamo persone che sentono il bisogno di queste cose e che si battono per ottenerle.
    Se siamo sul “suolo patrio”, ma siamo minacciati, oppressi, imprigionati perché ci esprimiamo liberamente, siamo forse a casa? Mentre se siamo lontani dal luogo dove siamo nati, ma ci sentiamo in sintonia con le persone intorno a noi, come mi capita con i miei studenti americani, allora possiamo dirci a casa. La creatività ha il potere straordinario di sospendere l’esilio, perfino di abolirlo. Ricordo che quando ero in prigione e riuscivo a scrivere, sentivo di essere altrove. Grazie alla scrittura ero libera. Nonostante fossi tra quattro mura.

  • Fiera del libro 2009. Gli appuntamenti da non perdere a Torino

    | Marie Claire | Sabato 16 maggio 2009 | Claudia Spadoni |

    Un paese ospite (l’Egitto), un tema (Io, gli altri), cinque giorni (14-18 maggio), più di mille case editrici e tanti ospiti internazionali: l’edizione numero ventidue della Fiera del Libro di Torino ha un cartellone ricchissimo. Leggi che ti passa (la crisi)? Chissà. Noi, intanto, vi diamo qualche consiglio.
    Le sue lotte per l’emancipazione femminile l’hanno costretta in carcere e in esilio (negli Stati Uniti, dove fa la docente universitaria). In patria Nawal Al Saadawi è stata spesso censurata, in Italia Giunti ha pubblicato il suo famoso Woman at point zero (tradotto come Firdaus), mentre nei titoli de il Sirente trovate il romanzo L’amore ai tempi del petrolio: storie durissime con protagoniste che cercano la libertà. A Torino la scrittrice parlerà di creatività e dissidenza. Dipendenze necessarie?
    Sabato 16 maggio, Sala Blu, ore 15:00

  • Le donne in un Paese fondamentalista

    | Il Tempo | Sabato 16 maggio 2009 | Antonella Melilli |

    Inizia con un piglio veloce, non privo di venature d’ironia che traspaiono dalle congetture cervellotiche di uno psicologo a proposito della fuga di un’archeologa, decisa a sfidare la punizione della morte abbandonando casa e marito per andare alla ricerca delle antiche idee. 
    «L’amore ai tempi del petrolio», ultima opera della scrittrice e dissidente egiziana Naval al’Sadawi, (Editrice il Sirente, pag.140) nella traduzione dall’arabo di Marika Macco. Una scrittrice già insignita di numerosi premi e nota per la determinazione di un impegno politico e umanitario che l’ha vista nel 2004 candidarsi alle prime libere elezioni del suo paese e che l’ha portata dal 2007 alla Presidenza del Parlamento Europeo. Un impegno che si coglie con forza anche nelle pagine di questo breve romanzo, espressione incisiva e potente dell’arretratezza di un Paese imprecisato, impaniato però nelle tradizioni di un fondamentalismo ancestrale. Dove la condizione femminile, regolata da convinzioni arcaiche e feroci, sembra consustanziarsi nel paesaggio stesso in cui la protagonista approda, popolato di donne schiacciate sotto il peso di barili panciuti di petrolio e condannate a una fatica di buoi ciechi senza voce né diritti.

  • Un romanzo inedito del Nobel Mahfuz

    | La Repubblica | Sabato 9 maggio 2009 | S.N. |

    LA LETTERATURA egiziana ospite alla Fiera del Libro di Torino non è solo Naguib Mahfuz, il magnifico Nobel scomparso nel 2006 e di cui comunque a Torino sarà presentato il romanzo inedito Autunno egiziano pubblicato dalla Newton Compton. ‘ Ala Al-Aswani, che intervistiamo qui accanto, ha avuto in Italiae nel mondo un successo speciale, 4 milioni di copie vendute nel mondo. Gamal al-Ghitani, Sunallah Ibrahim, Baha Taher, la generazione degli anni Sessanta, continuano a essere produttivi, e, così come Muhammad al-Busati o Sulayman Fayyad, raccontano la società, tanto quella sofisticata del Cairo quanto quella dell’ entroterra rurale. La narrativa lascia pochi aspetti scoperti, e guarda anche all’ estremismo, come del resto fa lo stesso Al-Aswani. Se Edward al-Kharrat ripercorre la belle époque cosmopolita di un tempo, una pattuglia di donne, come Salwa Bakr, Ahdaf Soueif, Latifa Zayyat, Nawal Saadawi o la più giovane Miral Tahawi, si sono dedicate e si dedicano a personaggi che affrontano con coraggio la condizione femminile. Ci sono anche scrittori considerati minimalisti, Ahmed Alajdi fra tutti, con il suo disagio verso l’ incombenza dei miti americani o come Khaled Al Khamissi, che con Taxi, attraverso la vita quotidiana di un tassista, legge con ironia i malesseri di oggi.

  • Al Piccolo Apollo i diritti delle donne

    Corriere della Sera | Giovedì 14 maggio 2009 | Carlotta De Leo |

    CRIMINI AMBIENTALI – I tre autori-registi, Esmeralda Calabria, Andra D’Ambrosio e Peppe Ruggiero, saranno presenti giovedì 14 alle 20.30 alla presentazione di Biutiful cauntri, un viaggio tra le 1.200 discariche abusive di rifiuti tossici nascoste sotto la terra di Napoli e dintorni. Il documentario (premiato come miglior documentario uscito in sala ai Nastri d’Argento dello scorso anno) racconta le storie di allevatori che vedono morire le proprie pecore per la diossina e quella di un educatore che lotta contro i crimini ambientali. Sullo sfondo una camorra imprenditrice che usa camion e pale meccaniche al posto delle pistole. Dopo la proiezione, ci sarà spazio anche per parlare dei problemi del Lazio: in programma, infatti, l’incontro con Paolo Mondani, giornalista autore dell’inchiesta sulla discarica di Malagrotta “L’Oro di Roma” andata in onda nella trasmissione Report.

    NAWAL AL-SA’DAWI – Venerdì 15 alle 20.30, il cinema di via Conte Verde ospiterà l’incontro con Nawal al-Sa’dawi, scrittrice e psichiatra egiziana, sostenitrice dei diritti delle donne. La al-Sa’dawi, intellettuale laica tra le più influenti del mondo arabo, sarà in diretta video dalla fiera del libro di Torino dove presenterà il suo ultimo romanzo L’amore ai tempi del petrolio che racconta una storia fantastica ambientata in un paese autoritario. Un regno del petrolio dove un’archeologa rompe un tabù, abbandonando il marito e ricomparendo al fianco di un altro uomo. Attraverso i suoi numerosi romanzi, la scrittrice ha lanciato aperte provocazioni alla società patriarcale araba e per questo ha pagato con restrizioni alla sua libertà personale. Non a caso, “L’amore ai tempi del petrolio” è stato tradotto in 20 lingue, ma ha subito la censura in Egitto. All’intervista, seguiranno reading, musica e il dibattito con Renata Pepicelli (università di Bologna).

  • Quanto è difficile l’amore ai tempi del petrolio

    Minareti | Martedì 12 maggio 2009 | Imane Barmaki |

    La scomparsa di persone era un fatto normale” ma non se si trattava di una donna. In un regno del petrolio un’archeologa scompare. La polizia che indaga si chiede se fosse una ribelle o una donna dalla dubbia morale, in un paese in cui nessuna donna può pensare di abbandonare il marito. Nessuno pero’ si fa carico di pensare alle sue sofferenze da donna e al suo essere soffocata dalla persona che le sta accanto da anni.
    L’amore ai tempi del petrolio” di Nawal Al Sa’dawi (edizioni il Sirente, 2009) è una storia piena di intrigi e misteri in cui nella mente della protagonista si confondono e si fondono figure maschili diverse.  Quando lei riappare é con un altro uomo, figura verso la quale prova un senso di attrazione ma allo stesso momento repulsione, un uomo che la opprime usando proprio il petrolio, il liquido nero del quale rimane pregioniera e al quale non riesce a fuggire: «come una trappola che blocca tutte le direzioni, blocca l’uscita della terra, se non quando é smossa a causa del terremoto, di un vulcano in eruzione, o di una bomba durante la guerra.»
    É un viaggio nella mente di una donna araba in un paese autoritario in cui la protagonista “Parte alla ricerca del suo orgoglio perduto. Aveva l’orgoglio di un animale che si impunta con le zampe e non vuole piú camminare. Lei non era una donna né per la cucina né per il letto, non conosceva a memoria le canzoni che le donne cantavano quando stanno in bagno. Non capiva nemmeno la passione che poteva suscitare nel cuore del marito l’osservarla mentre cucinava il cavolo ripieno. Inoltre, non sbatteva le ciglia quando il datore di lavoro, o Sua Maestà, la guardavano”.
    Un libro denso di metafore e continue allusioni alla rappresentazione della donna sottomessa, asservita, oppressa dall’uomo che ha cercato di negare con gli anni il valore storico della donna. Un libro scioccante in cui la donna, senza diritti né sentimenti, può essere tranquillamente sostituita da una macchina tuttofare, in grado di cucinare, pulire, scrivere…
    Sembra rispondere perfettamente al grido di Badriyya Al Bishr, la giornalista saudita che aveva scritto su “Asharq Al Awsat” del  9 ottobre 2005: “…Immagina di essere una donna e di avere bisogno dell’assenso del tuo guardiano per tutto. Non solo, come ritengono i dottori della legge, per sposarti, vergine ovviamente, ma per tutte le questioni che riguardano la tua vita. Non puoi studiare senza il consenso del tuo guardiano, nemmeno se sei arrivata al dottorato. Non puoi avere un impiego, nè mangiare un boccone di pane senza il consenso del tuo guardiano…”
    La Al Sa’dawi parla di donne in generale e in particolare di donne arabe. “La contrarietà alle donne è universale e non riguarda solo il mondo arabo. Penso al fronte cristiano, ai cosiddetti ‘valori della famiglia’ con doppio standard; e poi il radicamento dell’idea di verginità obbligatoria, i cosiddetti ‘delitti d’onore’, le mistificazioni culturali, le violenze fisiche e psicologiche…”, come ha detto l’autrice in un’intervista al “Corriere della Sera” nel 2008.
    L’amore ai tempi del petrolio” è stato pubblicato per la prima volta al Cairo nel 2001, l’opera, insieme a diversi altri romanzi della Al Sa‘dawi, è stata censurata dalla massima istituzione religiosa egiziana Al Azhar, che dopo pochi mesi dalla pubblicazione ne ha ordinato il ritiro da tutte le librerie egiziane. Ripubblicata poi a Londra nello stesso anno. Al Sa’dawi é vincitrice di numerosi premi letterari. In Italia ha pubblicato “Dio muore sulle rive del Nilo”, “Firdaus. Storia di una donna egiziana” e “Una figlia di Iside”.
    L’8 dicembre 2004 si é  presentata come candidata alle elezioni presidenziali in Egitto.

  • Nawal Al Saadawi a Torino il 18 maggio 2009, Palazzo Badini

    TITOLO EVENTO: Incontro con l’intellettuale laica più influente del mondo arabo: Nawal al-Sa’dawi
    QUANDO: Lunedì 18 maggio 2009
    DOVE: Palazzo Badini / Aula Magna / Facoltà di Lingue e Letterature Straniere / Università degli Studi di Torino / Via Giuseppe Verdi, 10 / 10124 Torino
    ORE: 10:00
    INGRESSO: Libero
    CONTATTI: Simone Benvenuti /   32… / il@sirente.it
    MAGGIORI INFORMAZIONI: www.sirente.it

    L’università degli studi di Torino in collaborazione con l’editrice il Sirente vi invitano lunedì 18 maggio alle 10,00 all’incontro con intellettuale laica più influente del mondo arabo: Nawal al-Sa’dawi. Verrà presentato il suo ultimo romanzo L’amore ai tempi del petrolio. Seguirà dibattito con Francesca Bellino (Università degli Studi di Torino), Claudia Maria Tresso (Università degli Studi di Torino), Elisabetta Donini (Alma Mater). Ingresso libero.

    “Partì alla ricerca del suo orgoglio perduto. Aveva l’orgoglio di un animale che si impunta con le zampe e non vuole più camminare. Lei non era una donna né per la cucina né per il letto, non conosceva a memoria le canzoni che le donne cantano quando stanno in bagno. Non capiva nemmeno la passione che poteva suscitare nel cuore del marito l’osservarla mentre cucinava il cavolo ripieno. Inoltre, non sbatteva le ciglia quando il datore di lavoro, o Sua Maestà, la guardavano”

  • “L’amore ai tempi del petrolio” – L’ultimo romanzo dell’intellettuale laica più influente del mondo arabo: Nawal al-Sa’dawi

    TGR Mediterraneo | Sabato 2 maggio 2009 | Adelaide Costa |

    La scrittrice e psichiatra egiziana Nawal al-Sa’dawi è sempre stata una ribelle. Da sostenitrice dei diritti delle donne, da anni racconta il mondo femminile arabo senza lasciare nulla al caso, parla delle violenze subite, della oppressione, della difficile ricerca di una stabile dimensione democratica.
    Ne «L’amore ai tempi del petrolio», edito in Italia da «Il Sirente», Nawal narra una storia fantastica ambientata in un paese autoritario, un regno del petrolio, dove una archeologa, decide improvvisamente di rompere un tabù.
    La donna infatti lascia il marito, scappa, fa perdere ogni sua traccia e ricompare solo per annunciare di avere un altro uomo. Una storia d’amore piena di mistero nella quale riappaiono con forza il rapporto conflittuale fra i sessi, la società patriarcale, il ferreo obbligo di rispettare regole che sono sempre a sfavore della donna, la voglia di libertà fisica, sociale e intellettuale.
    Nawal al-Sa’dawi ha pubblicato numerosi libri che le hanno provocato forti ripercussioni sulla sua libertà personale. «L’amore ai tempi del petrolio», tradotto in 20 lingue, è stato censurato in Egitto per disposizione delle massime autorità religiose.

  • Vischioso come il petrolio è l’amore raccontato da al-Sa’dawi

    alibi online | Lunedì 4 maggio 2009 | Saul Stucchi |

    Nella nostra società i motivi e le occasioni per la fuga sono pressoché infiniti. In una grandissima parte del resto del mondo, invece, i primi sono forse ancora più numerosi, mentre scarseggiano le seconde. Nelle società arabe più chiuse la fuga è particolarmente ardua e quindi diventa ancora più ambita e sognata. Una minima infrazione alle leggi, alle regole o anche solo alle convenzioni sociali costa molto cara, soprattutto se a commetterla è una donna. Una donna non può assentarsi dal lavoro, figurarsi lasciare la casa o abbandonare il marito, che per contro può invece piantarla in asso come e quando vuole pur continuando a rimanere legalmente sposato con lei per i successivi sette anni.
    Questa situazione di evidente e soffocante disparità genera inevitabilmente pressioni fortissime sulle donne che ne vengono schiacciate e spesso stritolate. Una di loro è la protagonista de l’Amore ai tempi del petrolio, della scrittrice egiziana Nawal al-Sa’dawi. A prima vista si tratta di una donna “normale”, puntuale col pagamento delle tasse e senza macchie sulla fedina penale, che un giorno decide di assentarsi. Beh, forse normale del tutto non era, almeno agli occhi dei conoscenti: già la professione che aveva scelto, l’archeologia, avrebbe dovuto mettere in guardia da tempo gli uomini che avevano autorità su di lei, a cominciare dal marito. Che idea balzana quella di scavare nella terra alla ricerca di divinità femminili! E ora la ricercatrice, “armata” di scalpello (un analista suggerirebbe forse una lettura simbolica della scelta di questo strumento di lavoro), è sparita senza aver dato preventiva comunicazione e averne avuto l’indispensabile, ma solo eventuale, permesso. Sicuramente è coinvolta in qualcosa di losco. Una donna morigerata e con la testa sulle spalle non sparisce in questo modo: non sparisce proprio.
    Dai titoli dei giornali dedicati all’incresciosa vicenda si dipana la storia di questa fuga che appare come una lunga sequenza onirica, un incubo che lascia intravedere (ma a chi non è lento di comprensione il racconto appare come una denuncia in piena regola) la condizione di inferiorità sociale, professionale, culturale, ma ancor prima “umana” a cui è condannata la donna in una società non apertamente nominata ma che può essere identificata in una qualunque di quelle sottoposte ai regimi illiberali del Medio Oriente, a cominciare dal “democratico” Egitto.
    Su tutti domina Sua Maestà che non sa leggere né scrivere, ma non importa, del resto: non erano forse analfabeti gli stessi profeti, tutti uomini?! Con il suo paternalismo autoritario governa e regge una società di servi che a loro volta spadroneggiano sulle “loro” donne. Ma ancora più importante di Sua Maestà è il petrolio che si spande e s’infiltra dappertutto, tutto coprendo e tutto corrompendo. Le donne sono costrette a trasportarlo in pesanti barili in bilico sulla testa e questa fatica già dimostra – lo dice la protagonista – quanto gli asini siano più intelligenti delle donne perché trasportano i pesi sulla schiena e non sulla testa, mentre gli uomini si rifiutano di piegarsi a questa mansione. “Per la donna invece, era vacanza solo il giorno del suo funerale. La semplice differenza stava in una sola lettera sulla macchina da scrivere, che convertiva la gioia in funerale”.
    Proprio come il petrolio, è vischioso il rapporto della donna con il marito da cui fugge, per incontrare un altro enigmatico uomo. Ma uno scambio di battute tra la protagonista e quest’ultimo è illuminante sul buio della situazione:
    “Sì, sono un essere umano come te, con dei diritti.”
    “Che cosa?”
    “I diritti della donna, non li conosci?”
    “Non ne abbiamo mai sentito parlare, noi abbiamo solo la legge dei diritti dell’uomo, nient’altro.”
    Soltanto una risata può tenere viva la speranza di un cambiamento.

  • L’amore ai tempi del petrolio

    Meltin’Pot | Lunedì 4 maggio 2009 | Luigia Bersani |

    ROMA – Viene presentato dalla casa editrice “il Sirente” il nuovo romanzo di Nawal al-Sa’dawi, scrittrice e psichiatra egiziana, vincitrice di numerosi premi letterari, che da tempo dedica la sua attenzione ai diritti delle donne ed alla democratizzazione nel mondo arabo. “L’amore ai tempi del petrolio”, titolo del romanzo, narra, con uno stile chiaramente onirico e introspettivo, le vicende di una donna senza nome, in un luogo, appartenente al non meglio identificato mondo arabo, senza tempo e senza denominazione geografica. L’intento della scrittrice è indubbiamente quello di descrivere con orrore e con speranza la condizione femminile appartenente alla sua cultura natia, che ha continuato nel corso della sua storia ad affliggerla quando ha subito insieme al marito un processo intentato da fondamentalisti religiosi per il loro matrimonio e le loro idee, quando a causa del suo impegno sociale e delle sue denunce fu costretta a lasciare il suo paese. Ci si muove nel romanzo, attraverso le vicende della protagonista, in un cammino inconscio che richiama alcuni archetipi culturali la cui scoperta diventa parte integrante e imprescindibile della sfida femminista che l’autrice intraprende. Un elemento emblematico di tale percorso si trova nella ricerca della protagonista della storia di prove che sostengano la sua tesi scientifica della falsificazione delle immagini delle divinità, mediante la trasformazione delle dee in dei, artifizio che sarebbe stato utilizzato per negare l’esistenza, anche nelle più antiche tradizioni, di un ruolo divino delle donne, negando, però, allo stesso tempo, anche il riconoscimento della cultura teologica da cui lo stesso popolo proviene. Negando, dunque, mettendo a tacere una memoria archetipica ancestrale, quindi anche il concetto di cultura in genere. L’autrice narra di un paese in cui le donne sono punite se sorprese con un libro o con una penna in mano, un paese in cui l’autorità suprema, Sua Maestà, intorno alla quale ruota tutto quel cosmo privo di nome nel quale si svolgono i fatti, è completamente analfabeta in segno di emulazione dei profeti, analfabeti anch’essi. L’autrice narra di una realtà in cui regna l’appiattimento intellettuale, in cui una donna curiosa, un’archeologa, una paladina della libertà e della verità, come è descritta la protagonista, viene accusata dalle altre donne di essere schizofrenica, di soffrire di un grave distacco dalla realtà, di essere una folle in quanto rifiuta e non capisce la condizione di schiavismo e reificazione in cui lei e le altre vengono ridotte. Il petrolio, quale oscura entità del sottosuolo, sembra avere la meglio sui corpi e sulle menti di quelle donne costrette a trasportarlo in pesanti secchi posati sulle loro teste. Il petrolio sembra costituire il filo conduttore di un incubo comune, mentre l’archeologa, stremata nel fisico e nella dignità, continua a scavare con il suo scalpello, nello stesso terreno da cui sgorga il petrolio, nella disperata ricerca delle sue dee, quasi rappresentassero il suo riscatto, la sua libertà, la verità. E’ questo un romanzo che, descrivendo situazioni probabilmente irreali o comunque esasperate proprio dai toni visionari con cui vengono delineate, è volto a denunciare la realtà che spesso si trova a vivere la donna in alcune civiltà autoritarie, del mondo arabo in questo caso ma comuni a molte altre civiltà passate e presenti appartenenti anche a culture diverse da quella araba, realtà spesso umilianti, non solo per la netta ed iniqua disparità di diritti che vengono garantiti agli uomini e alle donne, ma soprattutto per l’accettazione inerte da parte delle donne di tale situazione. In lingua araba le parole “sottomissione” e “ubbidienza” si usano anche per indicare la casa coniugale, o casa del marito, nell’espressione “casa dell’ubbidienza”, beit al-taa’at, per il diritto islamico. Nawal al-Sa’dawi, nel ripercorrere vissuti tratti dalle sue origini egiziane, infatti numerosi richiami a profonde rimembranze infantili della protagonista confermano una sorta di identificazione di questa con l’autrice del romanzo, descrive con terrore non tanto la vita coniugale cui sono destinate le donne, che come in ogni relazione umana può essere felice o infelice, quanto la negazione per le donne del diritto di scegliere di potersi autodeterminare come donne e non solo come cuoche, serve o mezzi di procreazione. Ciò che emerge dal romanzo, oltre all’enorme difficoltà che il mondo femminile spesso incontra nello Scegliere, verbo banale ma che comprende in sé la base dei più comunemente accettati diritti umani, è la manifesta non necessità di farlo che infetta le menti delle donne descritte nella narrazione che, assoggettate da una cultura secolare schiacciante, emblematicamente guardano con disgusto e compassione la protagonista mentre pronuncia con ingenuità le parole “Io ho altri scopi”.

  • Nawal Al Saadawi a Roma il 15 maggio 2009

    TITOLO EVENTO: L’amore ai tempi del petrolio – Reading dell’ultimo romanzo dell’intellettuale laica più influente del mondo arabo: Nawal al-Sa’dawi (Editrice il Sirente)
    QUANDO: Venerdì 15 maggio 2009
    DOVE: Apollo 11 / Via Conte Verde, 51 / 00185 Roma
    ORE: 20:30
    INGRESSO: Libero
    CONTATTI: Apollo 11 / 06-7003901
    MAGGIORI INFORMAZIONI: www.sirente.it

    Un ponte per…Apollo 11 in collaborazione con l’editrice il Sirente vi invitano venerdì 15 maggio alle 20,30 al reading dell’ultimo romanzo dell’intellettuale laica più influente del mondo arabo: L’amore ai tempi del petrolio di Nawal al-Sa’dawi. Seguirà dibattito con Renata Pepicelli (Università di Bologna). Ingresso libero.

    Letture, musica, dolcetti arabi e cantastorie.
    Video-intervista in diretta dalla fiera del libro di Torino con Nawal Al Sa’dawi.

    Alla voce Alessandro Casula, al contrabasso Riccardo Gola, alla chitarra Marco Bonini.

    “Partì alla ricerca del suo orgoglio perduto. Aveva l’orgoglio di un animale che si impunta con le zampe e non vuole più camminare. Lei non era una donna né per la cucina né per il letto, non conosceva a memoria le canzoni che le donne cantano quando stanno in bagno. Non capiva nemmeno la passione che poteva suscitare nel cuore del marito l’osservarla mentre cucinava il cavolo ripieno. Inoltre, non sbatteva le ciglia quando il datore di lavoro, o Sua Maestà, la guardavano”

  • L’Oriente e l’Occidente si contendono l’oro nero

    San Francisco Chronicle | Domenica 9 dicembre 2007 | Kelly McEvers |

    In 1859, a retired railway conductor named Edwin Drake struck oil in a tiny Pennsylvania town called Titusville. Back then, crude was refined for use in kerosene lamps. Soon, the Drake Well was pumping hundreds of thousands of barrels of oil. The Petroleum Age was under way.
    Yet few Americans know that a decade before this amazing discovery, the world’s first commercial oil well had already been plumbed on a peninsula far from Pennsylvania, a peninsula whose name means “place of salty waters” – a hook of land that juts into the briny Caspian Sea.
    Landlocked by Iran, Turkmenistan, Kazakhstan, Russia, Azerbaijan – names that Americans these days might associate with an abundance of natural resources – the Caspian Sea is actually a lake, but one that happens to blanket some of the world’s largest oil and gas fields.
    To spend time in any of these countries, four of which once belonged to the Soviet Union, is to see the names such as Chevron and BP emblazoned on everything from stationery to shipping containers and to wonder, how did Western companies get here?
    Steve LeVine, an energy correspondent for the Wall Street Journal who covered the Caspian region from 1992 to 2003, answers this question in surprising detail in “The Oil and the Glory.” Chance meetings on planes, Connecticut mansions, CIA debriefings, Caribbean yacht cruises, Gulfstream jets – all these are set pieces in LeVine’s account of how, long before it was official policy, Western oilmen “instinctively grasped the essence of détente” with the Evil Empire, and found ways to open it up for business.
    Oil dealings between the West and Soviet Union started as far back as 1928, when Joseph Stalin launched a five-year plan to revive Soviet industry and “unabashedly employed Americans and Europeans” to develop the oil fields off the Caspian Sea.
    Later, after World War II, when the Allies’ relationship with Stalin soured and the Cold War began, it took middlemen, such as a flamboyant Turkish Armenian emigre in Boston and his protege, a wily California social climber, to open doors for Western oilmen in an otherwise closed Soviet Union.
    That Californian was Jim Giffen, who golfed and glad-handed his way to a job as chief adviser to Chevron, which eventually signed a momentous deal to drill and manage day-to-day operations at a “supergiant” oil field called Tengiz, just off Kazakhstan in the Caspian Sea – and keep 20 percent of the profits.
    Giffen seemed to know all the right hands to shake in late 1980s Moscow, especially after Soviet President Mikhail Gorbachev legalized joint ventures with the West, and later in Kazakhstan, when it and other republics gained independence and were able to negotiate oil deals on their own.
    Throughout that heady, chaotic time, Giffen had a particular ability to make it appear as if his proposals for American companies to exploit Soviet oil fields had the blessing of Washington. The dominant feature in Giffen’s New York office, LeVine writes, was photographs of Giffen with key players in the U.S. government and big oil, including one of Condoleezza Rice, who then was on Chevron’s board of directors.
    Yet even Giffen couldn’t have predicted how swiftly the Soviet Union would collapse – or how fiercely his allies in Moscow would try to thwart Western ventures in the newly independent, post-Soviet republics.
    The Chevron-Tengiz deal in Kazakhstan, for instance, got much more complicated when the company was forced to transport its crude through old, small Soviet pipelines, where high-quality Tengiz oil had to mix with a blend of lower-quality Russian crude, and Russia charged high tariffs for the privilege.
    So began a policy shift in the United States – away from opening up to the entire post-Soviet region in favor of exploiting Caspian oil while containing Russia. But this policy shift did not come easily, LeVine reports, especially given the influence over then-President Bill Clinton of his longtime friend and deputy secretary of state, Strobe Talbott, who believed that the awakening giant, Russia, must be appeased at all costs.
    Eventually, though, midlevel players in the administration were able to make the case that it was in America’s interest to support an oil pipeline from East to West that circumvented Russia, and archrival Iran. The plan was to start the pipeline at the Caspian, travel over the mountains of newly independent Georgia and end at the Turkish port of Ceyhan, on the Mediterranean Sea.
    LeVine meticulously recounts the process of getting this pipeline built – a process that spanned more than a decade and several administrations in a handful of countries – painting a rare picture of how a few determined policymakers can alter the geopolitical map.
    That level of detail seems gratuitous the few times LeVine talks to townspeople in these far-flung republics, people without indoor plumbing who gained little from the oil boom. These passages seem too quick and too forced, as does a chapter on a failed Unocal plan to build a pipeline across Afghanistan. The only real scoop here is that the company bought and installed a fax machine for the Taliban.
    Otherwise, “The Oil and the Glory” is a fine, gripping read, one that takes us to a once-forbidden land, and shows us how many others have gone before us – and prospered.

  • Il petrolio e la gloria di Steve LeVine

    Conde Nast Portfolio | Novembre 2007 | Andy Young |

    The Caspian Sea region’s oil was commercialized in 1886, when Zeynalabdin Tagiyev—known as the Azerbaijani Eunuch Maker—struck a gusher that spewed more crude into the sea than all the world’s functional wells were producing at the time. As LeVine’s engaging account details, the area has since been discovered, plundered, and forgotten time and again. But now, with the opening of the Baku-Ceyhan pipeline in spring 2006, the Caspian may well be the key to our energy independence from the Middle East. A former Wall Street Journal writer, LeVine brings this all alive by introducing us to regional strongmen, American fixers, Western oil-company executives, and shady energy traders who, since the breakup of the Soviet empire, have jostled for Central Asia’s enormous oil prize while Mother Russia looms menacingly in the background. The deft political portrait of this strategic, volatile area makes the book essential reading, but it’s LeVine’s fine writing that makes it a pleasure.

  • Il petrolio e la gloria. La corsa al dominio e alle ricchezze della regione del Mar Caspio

    Foreign Affairs | Novembre/Dicembre 2007 | Robert Legvold |

    Hardly any topic has been more chewed over in recent years than the politics of Caspian Sea oil and gas. But behind the reported head butting of governments, the play-by-play over pipelines, and an endless stream of academic conferences, a bare-knuckle, swashbuckling drama has pitched and rolled, with oilmen vying for a share of these riches. LeVine, a correspondent for The Wall Street Journal, has done due diligence in framing both the historical and the contemporary political settings, but the treat is in the roiling tale of the gambles, bravado, and maneuvering of the dealmakers. James Giffen, the impresario of Kazakhstan’s oil surge, now under indictment in U.S. court, plays a central role, but there are many others in the cast. Like a good scenarist, LeVine develops the characters for each segment before proceeding with the plot. For people who liked Michael Douglas in Wall Street, here is an even more subtle and complex movie script.

  • La corsa al petrolio nel Mar Caspio

    BusinessWeek | Lunedì 12 novembre 2007 | Stanley Reed |

    The disintegration of the Soviet Union in the early 1990s unleashed a modern-day Klondike in the bleak but oil-soaked region around the Caspian Sea. Stories of how companies such as Chevron (CVX ) and ExxonMobil (XOM ) gained access to the huge oil fields of Kazakhstan and Azerbaijan have leaked out in dribs and drabs, but now Steve LeVine has gathered the whole Wild East tale in one canny and entertaining book, The Oil and the Glory: The Pursuit of Empire and Fortune on the Caspian Sea.
    LeVine, who spent many years in Russia and its neighbors as a correspondent for The Wall Street Journal and other publications, has filled his volume with intriguing, sometimes daunting characters. Ludvig Nobel, a 19th century entrepreneur and member of the famed Swedish family, organized the Caspian oil trade much as John D. Rockefeller did the U.S. business. Zeynalabdin Tagiyev, an Azeri oil baron of the 1880s, once ordered servants to castrate a rival for his wife’s affections. Marat Manafov, Azerbaijan’s oil negotiator during the 1990s, shook up meetings by pointing a pistol at Western oil executives.
    More important, the book zooms in on the dubious practices, intrigue, and political arm-twisting that can be a key part of deals in developing nations, where ever more of the oil business takes place. In Kazakhstan in the 1990s, large sums from oil companies allegedly ended up in the Swiss bank accounts of the country’s President. At the same time, in Azerbaijan, a $230 million “signing bonus” paid by a consortium of Western companies was almost instantly dispersed “to offshore accounts in countries with lax banking laws,” according to a Pennzoil official quoted by LeVine.
    LeVine also underscores the intensely political nature of oil. Both Russia and the U.S. employed government muscle to influence which companies gained access to Caspian countries’ reserves and the routes through which it would be exported. Al Gore tried to use his Vice-Presidential clout in Chevron’s favor against the maverick Dutch oil trader John Deuss. Deuss, playing a clever but ultimately losing game, was trying to parlay the backing of the Sultan of Oman into a lock on the vital pipeline route out of Kazakhstan.
    Much less interesting than such characters, in LeVine’s telling, are the oil company executives, who are burdened both by a sense of entitlement and a tin ear for local politics. BP’s John Browne, then head of the company’s exploration and production, did impress his Kazakh hosts by gulping down a local delicacy—a sheep’s eye. But, says LeVine, Chevron CEO Kenneth Derr “literally turned his back” on Kazakhstan President Nursultan Nazarbayev when he asked for help in building a soccer stadium for his new capital, Astana. Nazarbayev, whose oil Derr coveted, “was suitably flabbergasted and insulted.”
    A key figure in much of the Caspian intrigue was one James H. Giffen, the son of a Stockton (Calif.) haberdasher who became a player in the hard-to-penetrate world of U.S.-Soviet trade. In the mid-1980s, Giffen convinced Soviet leader Mikhail Gorbachev that U.S. business could help cure his country’s ailing economy. The apex of Giffen’s career: the deal he brokered giving Chevron exclusive rights to Kazakhstan’s Tengiz, a gem of an oil field that is probably among the world’s 10 largest. In return, says LeVine, Giffen got 7.5 cents on each barrel Chevron produced, potentially tens of millions of dollars.
    For years Giffen, a frequent source for BusinessWeek reporters, masterfully juggled different interests, including the Kazakhs, the oil companies, and the CIA. He and Nazarbayev “sometimes retreated into the countryside for days at a time, accompanied by young Kazakh women and well supplied with whiskey.” But his influence waned, and in 2003 he was arrested at New York’s John F. Kennedy International Airport on charges of funneling $77 million in bribes from U.S. oil companies to Nazarbayev and other Kazakh insiders.
    He still awaits trial, insisting that he had been, in LeVine’s words, “a U.S. agent in Kazakhstan…in one of the most strategic regions in the world.” Whatever happens to him, the spot is sure to spawn other outrageous characters to take his place.

  • Il petrolio e la gloria. La corsa all’impero e alla fortuna del Mar Caspio di Steve LeVine

     | Registan.net | Domenica 21 ottobre 2007 | Joshua Foust |

    For well over a century, the Caspian basin has been “the next big thing” for energy, a potentially wealthy region crippled only by its inaccessibility. This was the result of technology in the nineteenth century, when oil was exported on muleback, and later ideology, when the Bolsheviks seized Western assets, and the Soviets later denied westerners access only until they desperately needed cash. Since “The Fall,” the mad scramble for the region’s oil and gas has reached a fever pitch, resulting in the destruction of several large companies, the acquisition of others, and an incredible degree of political and commercial back-dealing and betrayal.
    This story, which most only know in a general sense (if at all), is the story LeVine lays out. The primary author of a blog which shares its name with his book, LeVine was a regional correspondent for the New York Times and the Almaty bureau chief for the Wall Street Journal. Such a position gave him key access to many of the players he describes—from the hilariously pompous middlemen like James Giffen to heads of state like Nursultan Nazarbayev—and a bracing, spellbinding narrative full of intrigue to tie together an incredibly complex story.
    While the broadest strokes of this story aren’t especially new (regular readers of most blogs or news accounts of Central Asia won’t find world-altering surprises), LeVine adds value by not only placing the current geopolitical wrangle in a broad historical context, but by offering deep insights into what each of the players was thinking, as well as all of the messy back room negotiations that created the modern Caspian. This is where his access as a journalist really comes out to shine: he had the benefit of collecting interviews and notes over more than a decade, all of which allowed him to craft what could be a definitive history not just of the struggle for Caspian oil, but of the men who struggled for it. New characters, mostly if not always unheard of pop in and out of the story, sometimes changing it but always adding intrigue. For example, the erratic behavior of Azeri negotiator Marat Manafov, remembered mostly for drawing a pistol on oil executives at a posh hotel, was mind-boggling to read, especially in such a serious context and with such huge stakes.
    Much like Steve Coll’s masterpiece on the CIA-al-Qaeda struggle throughout the 80s and 90s, this insider access is incredibly valuable, but only gets you so far: at some point, the realization sets in that this is everyone’s personal interpretation and spin of what happened and what they were thinking. While it’s true that this the case of most histories, the reliance on personality leaves big gaps that I wish could be filled in, most especially what was happening on the Russian side. We learn a great deal about what the Clinton White House was thinking (and internally debating) during the mad rush of the 90s, much of what the major oil executives were up to, and even a surprising amount of the normally hyper-private middlemen. There is keen insight into what the Azeris and Kazakhs were trying to get. But the coverage of Russia felt oddly flat.
    This isn’t much of a criticism—there are only so many people one can talk to, even over a decade, especially on a subject as intensely sensitive (and especially so in Russia) as oil rights and exploration and politics. But while such an exercise gains one an incredible glimpse into how the oil industry operates, and more importantly how it plays into national and international politics, it can only go so far.
    Indeed, while this is a glorious history written in the vein of Hopkirk’s The Great Game, it is short on analysis. While LeVine raises appropriate and troubling questions—such as Russia’s reliability as an honest broker or trading partner, and whether America’s self-insertion into the region will be for good or ill—there’s not much here to help in answering them.
    The history, however, is indeed glorious. I found the opening section, in which LeVine details the first Baku boom a century ago, of incredible interest. Aside from the gaudy excesses of the original barons (the current ones are more discreet in how they blow millions on luxury), what was most striking was the incredible waste. This was something even the contemporary Europeans, such as the descendants of Alfred Nobel (who not only were the primary developers in Baku, but also invented the modern oil tanker), found shocking. Wells would be tapped and left as gushers, spewing untold amounts of wealth into the air and then into the ground, making everything a soupy, useless, toxic mess. This horrendous waste and pollution, unfortunately, continued through the Soviet era, right to the 1985 Tengiz blowout that burned for over a year. 85 miles away, 700-ft tall column of flame was visible, and apparently it was so hot water boiled from nearly 200 feet away.
    There’s another untold story there, one perhaps worthy of follow up: the unbelievable environmental damage the Soviets wrought, in Central Asia (mostly Kazakhstan, as the Aral Sea, Semipalatinsk, and Tengiz disasters may indicate), but across the entire USSR. Oil is a messay, dangerous industry—that much everyone can agree to (and the battle over preserving the wildlife refuges off Sakhalin speak to some long-overdue push back against reckless exploration). But so is communism, both in the hundred million people sacrificed to its ideology last century and the continued legacy of the scars its land bears. LeVine’s book is an important part of this story, and is so well written it is worth reading even if one has no interest on the subject. But it is only a part of a much grander, and sadder, story.

  • Fiera Libro: Egitto, ospite d’onore, spegne polemiche

    ANSAmed | Venerdì 1 maggio 2009 | Cristiana Missori |

    ROMA – ”Invitare l’Egitto come ospite d’onore della XXII edizione della Fiera internazionale del Libro di Torino rappresenta una importante occasione per mostrare i progressi compiuti dal nostro Paese nel campo culturale e non soltanto. La nostra presenza nel capoluogo piemontese e’ un chiaro riflesso degli intensi rapporti culturali, politici e economici che da decenni intercorrono tra l’Italia e l’Egitto”.
    È entusiasta l’ambasciatore egiziano a Roma, Ashraf Rashed, dell’opportunità che è stata data al suo Paese e, sia pure incidentalmente, replica a chi ha criticato la scelta della prestigiosa manifestazione di Torino. ”Oggi come ieri, insomma, l’Egitto rappresenta il faro che guida la cultura del mondo arabo”, rimarca Rashed. E a chi, come l’International Solidarity Movement (Ism) Italia o il Forum Palestina, accusa l’Egitto di ‘stringere l’assedio intorno alla Striscia di Gaza, proprio come fa Israele’, e propone di boicottarne la presenza al salone, l’ambasciatore replica: ”Gli egiziani hanno fatto moltissimo per sostenere la causa palestinese. Siamo entrati piu’ volte in guerra per loro e oggi ci battiamo affinche’ il processo di pace in Medio Oriente possa avere esiti positivi. Torino costituisce una grande opportunita’ non soltanto per la cultura egiziana, ma anche per quella palestinese e di tutto il mondo arabo. Il boicottaggio e’ fuori da ogni logica”.
    Rashed non tralascia di sottolineare l’ambizioso programma che dal 14 al 18 maggio vedra’ il suo Paese protagonista della piu’ importante fiera libraria della Penisola. ”Obiettivo primario – spiega il diplomatico – e’ fare conoscere al pubblico e agli editori italiani il folto elenco di scrittori egiziani”, soltanto in parte gia’ scoperti dai lettori della sponda Nord del Mediterraneo: da Ala Al Aswani (Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, 2006) a Ibrahim Abd al-Magid, autore per Jouvence della Casa del Gelsomino (2007); da Khaled Al Khamissi (Taxi. Le strade del Cairo si raccontano, il Sirente, 2008), all’emergente Ahmed Alaidj, classe 1974, autore di Being Abbas El Abd, accaparrato e tradotto in inglese dalla American University in Cairo Press. ”Un vivaio da cui – sottolinea l’ambasciatore – non escludo possa venire fuori il prossimo Naguib Mahfouz”, premio Nobel per la letteratura nel 1988, cui la Fiera dedichera’ un reading delle pagine piu’ belle, insieme a una retrospettiva riservata ai maestri del Novecento quali Taha Hussein, il drammaturgo Tawfik el-Hakim e il poeta Salah Abdel Sabour.
    E se il filo conduttore della kermesse sara’ il tema dell’Io e la relazione con l’altro, il diverso, inteso come nemico potenziale, Egitto e Italia presentano un progetto dedicato ai piu’ piccoli. ”Da circa un anno – anticipa Rashed – editori italiani e egiziani lavorano insieme alla traduzione di alcuni volumi affinche’ bambini egiziani possano leggere alcuni dei libri letti dai loro coetanei italiani e viceversa”. E’ un modo, prosegue il diplomatico, per dimostrare che i giovani leggono cose simili, se non addirittura uguali, ”e per smantellare questa teoria assurda della diversita’ che alcuni cercano continuamente di alimentare”.
    Con ”L’Egitto al femminile”, invece, il salone di Torino celebra intellettuali di fama internazionale, come Radwa Ashour, scrittrice e illustratrice tradotta in tredici Paesi tra cui l’Italia (Fabbri, Giunti, Mondadori, Fatatrac); Salwa Bakr, critica teatrale e cinematografica e Ahdaf Soueif, autrice de Il profumo delle notti sul Nilo (Piemme, 2001); o ancora la dissidente Nawal Al Saadawi, invitata dagli organizzatori della Fiera, ma non dal governo egiziano.
    Tanti, poi, gli eventi previsti in giro per la citta’ e dedicati all’archeologia – con la grande mostra dei Tesori sommersi in corso alla Reggia della Venaria Reale, o gli incontri cui interverranno gli studiosi Zahi Hawass, Edda Bresciani e Francesco Tiradritti (curatore della mostra su Akhenaton allestita a palazzo Bricherasio) – ma anche alla musica, alla danza tradizionale e folcloristica egiziane.

  • Steve LeVine

    Steve LeVine è stato in Asia Centrale e nel Caucaso per 11 anni – a partire da due settimane dopo il crollo sovietico del 2003.

    È stato corrispondente del The Wall Street Journal per la regione delle otto-nazioni e prima ancora per il New York Times.

    Dal 1988 al 1991 è stato corrispondente del Newsweek in Pakistan e Afghanistan. Prima di ciò, ha coperto le Filippine per il Newsday dal 1985 al 1988. Ha lavorato sul petrolio con lo staff del The Wall Street Journal dal gennaio 2007.
    Attualmente sta scrivendo un nuovo libro sulla Russia che, tra le altre cose, cerca di spiegare la serie di omicidi di alto profilo.
    LeVine è sposato con Nurilda Nurlybayeva e insieme hanno due figlie.

  • Nel vortice del petrolio

    Panorama.it | Giovedì 24 Gennaio 2008 | Pino Buongiorno |

    Sono potenti. Sono celebri. Ma quest’anno sono anche terribilmente ansiosi. I 2.450 partecipanti all’annuale appuntamento del World economic forum di Davos, sulle Alpi svizzere, dal 23 al 27 gennaio, sanno che è iniziato un anno di straordinarie incertezze politiche ed economiche, come mai negli ultimi due decenni.
    Prima di partire per la «Magica montagna» tanto cara a Thomas Mann, i capi di stato e di governo, gli imprenditori delle multinazionali, gli accademici e gli scienziati di fama hanno ricevuto un voluminoso rapporto intitolato «Rischi 2008». Il livello di allarme, segnalato dai 100 top manager ed esperti intervistati, è altissimo sia per i timori crescenti di un’imminente stagnazione americana ed europea sia per il vuoto politico che si è venuto a creare nell’anno delle elezioni presidenziali in Russia e in America. «È un futuro di sfide eccezionali» avverte Klaus Schwab, il fondatore del World economic forum. «Ma anche di opportunità per dimostrare le capacità di leadership».
    In soli 12 mesi il pianeta è cambiato profondamente. L’anno scorso si discuteva di cambiamento del clima. L’agenda politica del 2008 rimette al primo punto la sicurezza delle fonti energetiche, come all’inizio degli anni Ottanta. La politica estera americana ha sempre avuto come principio guida quello di evitare che altre nazioni potessero usare l’oro nero per far avanzare le proprie pretese egemoniche. Dunque, petrolio accessibile per tutti, a prezzi di mercato. Ma diversi mutamenti nel rapporto domanda-offerta ora minacciano questo sistema.
    Il gap tende a ridursi, la produzione è ai massimi livelli e i consumi, soprattutto negli Stati Uniti e in Asia, crescono esponenzialmente: dagli 87 miliardi di barili attuali ai 110 miliardi fra una decina di anni.
    Nell’era dei 100 dollari al barile, la fatidica soglia toccata il 2 gennaio scorso, i paesi produttori festeggiano una prosperità senza precedenti: 700 miliardi di dollari in più solo nel 2007. La conseguenza fin troppo ovvia è che alcuni di essi, Russia in particolare (ma anche Venezuela), vogliono giocare un ruolo politico assai più incisivo.
    Nello stesso tempo la sete di petrolio scuote i paesi consumatori (Usa, Unione Europea, Giappone, India e Cina), che si lanciano in una caccia spasmodica all’ultima goccia di greggio, facendo venire meno le vecchie alleanze e snaturando le regole del mercato.
    Terzo: le grandi compagnie petrolifere perdono progressivamente terreno nei paesi produttori. Devono affrontare un pericoloso «nazionalismo delle risorse» che porta a utilizzare l’energia come arma politica privilegiata. Sono domande fin troppo retoriche quelle che si pone un recente rapporto del National petroleum council americano: «La competitività per le risorse sempre più scarse sfocerà in conflitti politici e anche militari fra le maggiori potenze?».
    E ancora: «Gli accordi bilaterali fra le nazioni diventeranno comuni, nel momento in cui i governi tentano di assicurarsi i prodotti energetici al di fuori dei tradizionali meccanismi di mercato?». La realtà, al di là delle previsioni più fosche, è che l’ordine mondiale è stato sconvolto. La superpotenza americana non detta più legge da sola e soprattutto non ha più l’influenza di una volta. Quando George W. Bush arrivò alla Casa Bianca, nel gennaio 2001, il barile costava 30 dollari. Quando iniziò il secondo mandato, nel gennaio 2005, era salito a 48 dollari, fino ai 100,1 dollari del 2 gennaio: una crescita complessiva di quasi il 230 per cento. Lo shock negli Stati Uniti, ubriachi di benzina a basso prezzo, è stato terribile, tanto da bloccare la crescita, assieme alla crisi del credito, al crollo del mercato immobiliare e alla svalutazione del dollaro.
    Scendono gli Stati Uniti, avanzano nuovi protagonisti. Oggi il mondo si può definire multipolare. La Cina, il secondo paese consumatore di energia, si è messa a competere sulle rotte del petrolio, trasformandosi in una potenza quasi neocoloniale in Africa e in Sud America. Per proteggere i contratti nei nuovi mercati dei paesi emergenti il governo di Pechino ha deciso di utilizzare la forza navale e aerea.
    Secondo un rapporto del Pentagono, la Cina sta addirittura costruendo una flotta di cinque nuovi sottomarini nucleari intercontinentali, dotati di missili balistici.
    Ancora più sorprendente è la resurrezione della Russia nel corso degli ultimi 18 mesi. «Il Cremlino ha scoperto che nel 21° secolo è più facile marciare attraverso l’Europa facendo business piuttosto che con l’Armata rossa» dichiara a Panorama Steve Levine, uno dei maggiori esperti della nuova geopolitica dell’energia, autore del recente best-seller Oil and Glory. «È un’altra dimensione nello spostamento del centro di gravità per quanto riguarda l’influenza globale verso est».
    Nelle dichiarazioni ufficiali Stati Uniti e Unione Europea si oppongono ai piani russi di costruzione dei nuovi gasdotti. Eppure, chiede Levine, «chi sono i partner della Russia in questi progetti?
    Germania e Italia. Il Cremlino usa la forza o la persuasione, a seconda degli interlocutori, per convincere società come Eni, Basf ed E.On a cooperare sia nei programmi del South Stream sia in quelli del North Stream. È il prezzo da pagare per avere accesso ai giacimenti di gas naturale russo».
    Dopo aver onorato tutti i debiti, il governo russo ha aumentato il budget federale di 10 volte dal 1999, ha accumulato riserve in oro e in monete forti pari a 425 miliardi di dollari e ha creato un fondo di stabilizzazione di 150 miliardi di dollari. Il risultato è che il presidente Vladimir Putin e il suo probabile successore Dmitri Medvedev sono in grado oggi di reclamare il ritorno alla propria sfera d’influenza delle ex repubbliche sovietiche.
    Non solo, hanno la forza per resistere al nuovo sistema di difesa missilistico voluto da Washington nell’Europa orientale e per affrontare in piena autonomia questioni scabrose come il nucleare iraniano e l’indipendenza del Kosovo.
    Anche il venezuelano Hugo Chávez usa l’improvvisa ricchezza per allargare il suo raggio d’azione soprattutto in America Latina, dove può contare su alleati fedeli in Bolivia, Nicaragua e persino in Argentina. A Buenos Aires è esploso nelle scorse settimane uno scandalo politico per i presunti finanziamenti elargiti da Chávez alla campagna elettorale della vincitrice Cristina Kirchner.
    All’improvviso, grazie ai 13 miliardi di barili del megagiacimento di Kashagan, dove ha un ruolo chiave l’Eni, il Kazakhstan rinnova il «Grande gioco» nell’Asia centrale pretendendo il ruolo di arbitro. Russia, Cina, Stati Uniti e Unione Europea corteggiano il presidente Nursultan Nazarbaiev e si contendono gli oleodotti. L’autocrate di Astana è abile ad accontentare ora una superpotenza ora l’altra, mantenendo sempre in equilibrio la bilancia del potere, ma badando a proteggere i propri interessi.
    Per chiudere il contenzioso sullo sfruttamento di Kashagan, sollevato l’estate scorsa, Nazarbaiev ha ottenuto un bonus di 4,5 miliardi di dollari per i ritardi nella produzione e ha fatto trasferire l’8,5 per cento dell’intero progetto alla società petrolifera di stato KazMunaigaz, messa sullo stesso piano delle sorelle occidentali maggiori.
    Anche la Turchia, centro nevralgico per il passaggio delle petroliere e degli oleodotti, ritorna agli antichi splendori sul palcoscenico internazionale, coccolata da molte diplomazie, prime fra tutte quelle americana e italiana.
    In questa nuova geopolitica guidata dal barile di greggio c’è chi non si accontenta solo di contare di più, ma fa shopping strategico in giro per il mondo.
    È il caso dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. «Questi paesi produttori vogliono un posto al tavolo dell’alta finanza» spiega Steve Levine.
    Un recente dossier della società di consulenze McKinsey stima che gli investitori arabi del Golfo hanno ora in mano un immenso tesoro di proprietà sparse in tutto il pianeta per complessivi 3,8 milioni di miliardi. La sola Abu Dhabi investment authority, che ha asset stimati attorno ai 900 miliardi di dollari, ha oggi la stessa forza finanziaria della Banca del Giappone. Per salvare il colosso americano Citigroup sono dovuti intervenire sia il fondo di investimenti statali dell’emirato di Abu Dhabi sia il principe e miliardario saudita Alwaleed bin Talal.
    I petrodollari (sempre più petroeuro) comprano tutto: influenza politica e grandi imprese. Il denaro dell’energia altera così i vecchi equilibri, ma non ne inventa di nuovi. Di certo il mondo si complica come negli anni della guerra fredda. Basta osservare quello che sta succedendo oggi nel Mare Artico. Russia, Canada, Norvegia, Danimarca e Stati Uniti reclamano la sovranità sui fondali del Polo Nord per poter sfruttare le immense risorse sottomarine. E, tanto per non perdere tempo, la Russia il 2 agosto 2007 ha pensato bene di anticipare le potenze rivali e di piantare la sua bandiera a 4.200 metri di profondità.

  • Magdy El Shafee: ancora un rinvio per “Metro” il blasfemo

    Agenda Comunicazione | Lunedì 20 aprile 2009 | Marianna Massa |

    Dopo una comparizione di pochi minuti il giudice ha spostato al 12 maggio l’udienza per il processo all’autore della prima graphic novel egiziana e al suo editore, che rischiano due anni di carcere perché viene usato un linguaggio “da strada” e compare una donna col seno scoperto. La protesta al Cairo degli intellettuali, dei fumettisti e dei sostenitori della libertà di espressione. Magdy: grazie anche alla stampa italiana per il sostegno che sto ricevendo.

    Ancora un rinvio per il processo che oppone Magdi El Shafee il suo editore Mohammed Sharqawi, titolare della Malamih, alla giustizia criminale del Cairo per la pubblicazione di Metro, il primo romanzo di graphic novel mai uscito in Egitto e subito sequestrato su iniziativa della polizia in quanto ritenuto “contrario alla pubblica decenza” per il linguaggio “da strada” usato dai protagonisti e per l’immagine di una donna a seno nudo. Reato che prevede fino a due anni di carcere.
    Sabato 18 aprile il giudice – davanti al quale l’autore e il suo editore erano già comparsi il 4 aprile scorso – ha nuovamente rinviato l’udienza al prossimo 12 maggio.
    Come già la volta scorsa, accanto a Magdy, il cui caso sta avendo risonanza internazionale (e che in Italia è stato seguito e diffuso dal nostro dal nostro quotidiano L’Agenda News ed è stato ripreso da numerose testate) c’erano fra gli altri uno dei più importanti scrittori egiziani, Sun Allah Ibrahim, e Basim Sharaf, tra i più famosi autori teatrali emergenti, oltre a fumettisti, illustratori, intellettuali e giovani mobilitati dalla campagna (dal titolo “NO for metro confiscation and trial, Support freedom of arts and expression“) lanciata dal coraggioso autore di Metro u Facebook e numerosi altri siti.
    L’udienza di sabato è stata, si può dire, fulminea: in meno di mezz’ora il giudice – in un’aula piccola e affollatissima, sovrastata da mille voci e urla – ha discusso una cinquantina di cause, convocando di volta in volta gli avvocati.
    Magdy a atteso il suo turno seduto in fondo, assieme ai suoi sostenitori e ad alcuni giornalisti egiziani e stranieri. Quando è stato chiamato, si è spostato in prima fila, accompagnato da avvocati e sostenitori.
    L’udienza è durata pochi minuti, durante i quali l’avvocato difensore, assieme a Sun Allah Inrahim e al fumettista Ahmad el Balad, hanno testimoniato al giudice l’importanza della libertà di espressione artistica ribadendo che le accuse sono infondate. Queste si basano infatti sulla mera presenza nella “graphic novel” Metro di espressioni che secondo la polizia sarebbero troppo volgari e di immagini che rappresentano “una donna dai seni nudi”: tutti elementi, hanno sostenuto difesa e testimoni, che fanno parte del vissuto e del sapere quotidiano egiziano e che non sembrano avere alcun risvolto negativo sulla psiche dei lettori.
    Il giudice ha preso nota, poi ha chiuso l’udienza ancora una volta senza alcuna decisione, rinviando il caso al mese prossimo: il 12 maggio appunto. Nessuna notizia della commissione di critici d’arte cui era stato demandato il compito di giudicare l’opera dal punto di vista artistico, superando così – come da richiesta della difesta – l’accusa da codice penale.
    Fuori dal bailamme dell’aula, Magdy a dovuto chiedere spiegazioni al suo avvocato per capire cosa fosse successo in quei pochi minuti in cui non si è capito quasi nulla. Subito dopo, parole di gratitudine e riconoscenza per gli amici e la stampa egiziana e internazionale che stanno continuando a seguirlo. «Sono contento – ha detto – che anche dall’Italia mi arrivi tanto appoggio, e spero che continui a essere così. Di non essere lasciato solo. Adesso non bisogna mollare, è necessario continuare a essere presenti e a lottare per la libertà di espressione». «Il giudice – ha aggiunto la moglie Randa con un filo di speranza nella voce – questa volta mi è sembrato più ottimista…»
    «Rischiare due anni di carcere – ha commentato l’autore teatrale Basim Sharafper aver disegnato dei seni nudi! Ma ci rendiamo conto? Sono tutte scuse: perché non confiscano anche il dizionario arabo-inglese per le scuole superiori che si usa in tutto l’Egitto? Anche lì c’è una donna con seni nudi! E i canali porno che ormai tutti guardano attraverso il satellite?»

  • Khaled Al Khamisi: Taxi

    Il paradiso degli orchi | Giovedì 16 aprile 2009 | Stefania Bonura |

    Nella seconda metà degli anni Novanta, il governo egiziano emanò una legge che consentiva di tramutare tutte le vecchie auto in taxi. Stiamo parlando di “residuati bellici” come la Shalin, la Lada, la Fiat 1400 e 1500, la Peugeot 504. Una folla di disoccupati confluì improvvisamente nella classe dei tassisti e un esercito di catorci cominciò a intasare le strade del Cairo. Auto logore, sfasciate e sudice, con a bordo autisti che lavorano come schiavi, ci dice nella “premessa indispensabile” l’autore.
    Khaled Al Khamisi ha raccolto e registrato tra l’aprile del 2005 e il marzo del 2006, a bordo dei taxi della sua città, le storie, gli umori e i malumori della “indomabile” megalopoli. Ne è venuto fuori un libro, Taxi, pubblicato in Egitto nel 2007 con grande riscontro di lettori e ora portato in Italia grazie all’editrice Il Sirente e alla meticolosa opera di traduzione di Ernesto Pagano.
    Mi trovavo a midan Safir, alla vecchia Cairo e diversi taxi mi sfilarono davanti: passa il primo, poi il secondo… decido di fermare il terzo. Chi è stato al Cairo sa bene che bastano pochi minuti a piedi per vedersi affiancati da due, tre o più carrette nere. Pensi di essere piombato in una vecchia foto di famiglia, e invece ti trovi in una delle più affollate città dell’era contemporanea che conta circa venti milioni di abitanti. E ottantamila taxi. Gli egiziani la chiamano l’invasione dei tucusa, il mestiere di chi non ha mestiere. Non è strano trovare al volante uomini di diversa età, religione, etnia, estrazione sociale, culturale: anziani, giovanissimi, studenti, padri di famiglia, contrabbandieri, broker, musulmani, copti, nubiani, “usciti fuori” a un certo punto “da ogni buco per farsi convertire la macchina”. Ad accomunarli, oltre alla carcassa che si trascinano quotidianamente lungo il fitto e congestionato intreccio urbano, è la lotta per la sopravvivenza: truffe, rapine, multe, tasse, blocchi stradali, sbirri mangia mazzette, calvari burocratici, ore e ore di servizio ininterrotto, il sedile che ti spacca la schiena, la rata mensile dell’auto… E sarebbe niente se non ci si mettessero anche gli jinn… e le donne!
    Un vociare ininterrotto di clacson si alterna a confidenze, preghiere, lamentazioni, scazzi e vecchi motivi di Umm Kulthum. Conversazioni e soliloqui che spaziano dall’arabo coranico al dialetto popolare. Un linguaggio che erompe dai marciapiedi e dai vicoli e che il traduttore ha sapientemente riportato in un italiano colloquiale e dialettale. Ogni taxi è un racconto che si scioglie nell’asfalto rovente e si dissolve in una nuvola di smog. Ogni storia, e il libro ne raccoglie una sessantina, è un faro acceso su una città in continuo movimento. Una società di miserabili e di dannati, sì, ma anche di angeli neri e di vecchi così vecchi che avrebbero indotto Jacques Brel a cancellare i suoi stessi versi: quanto è dolce la morte paragonata alla vecchiaia. Morire, in qualsiasi maniera, è molto meglio che invecchiare.

  • Come nasce una casa editrice

    42.12 Mediterraneo d’Europa | Martedì 3 marzo 2009 | Sergio Canelles |

    Chiarastella parla dei terroristi arabi a 42.12 aspettando le proposte dei giovani traduttori: altriarabi.wordpress.com / altriarabi@tiscali.it 

     

  • Egitto, scoppia la guerra del velo. Toglietelo o sarete licenziate

    | La Repubblica | Mercoledì 8 aprile 2009 | Francesca Caferri |

    Le infermiere egiziane dovranno lavorare a viso scoperto. Oppure saranno licenziate. Il ministero della Salute egiziano mette la parola “fine” a un dibattito che va avanti da mesi, presentando in Parlamento una legge che vieta alle addette all’ assistenza dei pazienti di presentarsi a lavoro con il niqab, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi ed è accompagnato da guanti neri sulle mani. «Chi non toglie il niqab dovrà andarea casa», ha detto il ministro della Salute Hatam al Jabaly presentando la circolare che detta le nuove regole per le divise delle infermiere: potranno indossare una ampia camicia con un cappuccio legato al collo, che terrà coperti i capelli ma non il viso. In Parlamento due giorni fa al provvedimento si sono opposti i deputati che si riconoscono nei Fratelli musulmani. «È un diritto delle donne coprirsi il viso- ci spiega un loro portavoce – lo Stato non può minacciare quasi diecimila donne di licenziamento perché esercitano un loro diritto. E non ci sono prove scientifiche che dimostrino che un’ infermiera a viso coperto ha un rapporto diverso con i pazienti rispetto a una che lavora a viso scoperto». Il “no” del movimento si inserisce in un braccio di ferro che va avanti da tempo: nei giorni scorsi gruppi vicini alla Fratellanza hanno organizzato una manifestazione di protesta contro il governo e diversi studenti che vi partecipavano sono stati arrestati. Stessa sorte è toccata a un blogger accusato di diffondere posizioni islamiste. La questione del niqab agita la vita politica egiziana da mesi.A novembre il ministero della Salute ha promosso un’ indagine per capire quante, fra le operatrici sanitarie, lavorassero a viso coperto. I risultati sono stati giudicati allarmanti: la percentuale nazionale era del 10% – quelle che ora rischiano il licenziamento – ma in alcuni ospedali si arrivava al 35%, con picchi del 50%. E il 90% dei pazienti intervistati diceva di non essere d’ accordo con la pratica. Alla diffusione dei risultati seguì immediato l’ inizio delle polemiche: i Fratelli musulmani misero in guardia il governo da ogni tentativo di limitare l’ uso del niqab. Il ministero rispose che il velo integrale mette a rischio il rapporto di fiducia che deve esistere fra malato e personale sanitario. Ora, con la diffusione del nuovo regolamento sulle divise, si è arrivati alla contrapposizione finale. La battaglia è sintomatica delle forti tensioni che spaccano la società egiziana, dove l’ avanzata delle ideologie più conservatrici pare inarrestabile. «Nei miei anni in ospedale in Egitto non ho mai visto infermiere a viso coperto», commenta Nawal el Saadawi, medico, scrittrice e intellettuale costretta all’ esilio per le sue posizioni critiche verso il presidente Mubarak. «È un segno chiaro di quanto forti stiano diventando gli islamisti. Ma nessun paese dovrebbe lasciare che le infermiere si coprano il viso».

  • Nawal Al Saadawi a Roma il 16 aprile 2009

    ROMA – Il 16 Aprile a Palazzo Valentini (Roma) l’Editrice il Sirente presenta L’amore ai tempi del petrolio di Nawal al-Sa’dawi. Parteciperanno all’incontro l’on. Luisa Morgantini (vice presidente del Parlamento Europeo), l’on. Gemma Azuni (Consigliere Comune di Roma), Laura Pisano (ordinario di Storia del giornalismo presso l’Università di Cagliari) ed Emanuele M. Ciampini (ricercatore di Egittologia presso la “Cà Foscari” di Venezia).

    *** INVITO [JPG] [PDF] ***

    “Partì alla ricerca del suo orgoglio perduto. Aveva l’orgoglio di un animale che si impunta con le zampe e non vuole più camminare. Lei non era una donna né per la cucina né per il letto, non conosceva a memoria le canzoni che le donne cantano quando stanno in bagno. Non capiva nemmeno la passione che poteva suscitare nel cuore del marito l’osservarla mentre cucinava il cavolo ripieno. Inoltre, non sbatteva le ciglia quando il datore di lavoro, o Sua Maestà, la guardavano”

    L’incontro si terrà alle ore 16,00 nella Sala Placido Martini (situata al piano terra di Palazzo Valentini, via IV Novembre n. 119/A). Nel corso della presentazione verranno proiettati due brevi video esplicativi dell’attività di Nawal al-Sa’dawi, l’intellettuale laica più influente del mondo arabo contemporaneo. INGRESSO LIBERO.

    « Più di ogni altra donna, Nawal El Saadawi incarna le sofferenze del femminismo arabo. » San Francisco Chronicle

    Un testo visionario. Un racconto spettacolare, inaspettatamente avvincente, ricco di tensione e curiosità per il destino della  protagonista.

    In un oscuro regno del petrolio un’archeologa scompare senza lasciare traccia. La polizia che indaga si chiede se fosse una ribelle o una donna dalla dubbia morale, in un paese nel quale  nessuna donna ha mai osato abbandonare casa e marito, disobbedendo alle regole. Quando finalmente riappare lascia il marito per stare con un altro uomo… Una storia d’amore intrigante e insospettabile, densa di mistero. Un’educazione sentimentale e un viaggio di autocoscienza di una donna araba in un paese autoritario.
    Un uomo può uscire e non tornare per sette anni e solo dopo quella data la donna può chiedere la separazione. Mentre per una donna una sola notte è sufficiente per lanciare l’allarme e gridare allo scandalo.
    Pubblicato in varie antologie e tradotto in più di 20 lingue, in questo racconto Nawal al-Sa’dawi si interroga sul ruolo della donna in un ordine repressivo e patriarcale.
    L’amore ai tempi del petrolio insieme a diversi altri romanzi della Saadawi sono stati censurati dalla massima istituzione religiosa egiziana Al Azhar, che dopo pochi mesi dalla pubblicazione ne ha ordinato il ritiro da tutte le librerie egiziane.

  • Fumetto: Magdy El Shafee, sempre in Egitto nonstante la censura

    | Agenda Comunicazione | Lunedì 20 aprile 2009 | Marianna Massa |

    Dopo le disavventure per il suo primo romanzo a strisce (“Metro“, che è stato sequestrato dalla polizia morale ed è costato il carcere al suo editore) l’autore racconta la sua vita, le sue aspirazioni, le difficoltà di lavorare nel suo Paese. «Mi hanno accusato di usare un linguaggio troppo spinto, ma è quello della vita di tutti i giorni». Ecco le parole di un uomo coraggioso e di talento.

    «Oggi ho deciso di rapinare una banca. Non so come tutta questa rabbia si sia annidata in me. Tutto ciò che so è che la gente stava sempre da una parte, e io da un’altra. A me è rimasta solo una cosa: la mia testa… e ora ho finalmente deciso di fare quello che mi dice».
    Inizia così Metro il primo romanzo a fumetti in lingua araba scritto e disegnato da Magdy el Shafei, ex farmacista egiziano sulla trentina da sempre amante dell’arte del fumetto.
    Pubblicato nel gennaio 2008, Metro racconta la storia di Shehab, un giovane ed esperto programmatore di computer che, per evitare il fallimento economico, si lascia trascinare da un politico corrotto in una rapina in banca.
    Metro si inserisce nella letteratura araba contemporanea come una pietra miliare, forse un po’ troppo pesante per la realtà egiziana da cui proviene: pochi mesi dopo la pubblicazione, il libro viene infatti confiscato e ritirato da tutte le librerie, mentre Muhhamad Sharqawi, il capo della casa editrice Dar Malameh che lo aveva pubblicato Metro, finisce prima in manette e poi davanti a un tribunale.
    Magdy non si spaventa. Lo si capisce dalle se parole.

    Signor Shafee, come inizia la sua esperienza da disegnatore e scrittore di fumetti?
    Tutto quello che so è che disegno da quando sono capace di intendere e di volere… mio padre, quando si è accorto della mio interesse per la pittura, mi ha insegnato l’arte degli impressionisti e mi ha mostrato le loro opere originali al museo Muhammad Khalil. Mia cugina, che studiava alla facoltà di Belle Arti a Zamalek, mi ha fatto conoscere Modigliani e Kandinskij.
    Ho amato i fumetti come mezzo di espressione, non solo come disegno. Da bambino Superman e Tintin erano le mie ricompense ideali e quando, all’età di 15-16 anni, ho letto una storia di Hugo Pratt è stato per me una meravigliosa sorpresa: l’eroe del fumetto non doveva essere per forza un modello pieno di virtù… mamma mia che emozione!
    Perché?
    Ero abituato a vedere per le strade solo pubblicità di candidati, con facce non certo di brave persone, alle elezioni; scarabocchi dei tifosi dell’Ahli… in giro non si trovava nulla che parlassedavvero egiziano. Così decisi che non sarei diventato un bravo pittore e che avrei fatto di tutto per diventare un fumettista.
    Scrivere fumetti… che storia! Te ne stai a cercare finchè non trovi il tuo metro di paragone artistico, ma a volte è importante anche scrivere per se stessi. Non avevo tanta fiducia nelle mie capacità di scrittore e a questo proposito sono profondamente debitore a Ahmad el Aydi, un giovane romanziere, per il suo capolavoro Essere Abbas el Abd, uno dei migliori libri nell’Egitto contemporaneo. Sono stato fortunato perché lui mi era debitore dei tanti commenti generali su come migliorare lo stile della narrazione.
    Come nasce l’idea di Metro e come si sviluppa?
    Metro mi si è imposto da solo, nonostante l’inesistenza di un’industria del fumetto in Egitto, nel senso professionale del termine. Un mio amico era scappato, la polizia lo cercava: si trattava di una bravissima persona, profonda, sensibile, sincera e amava l’arte. Insomma, all’epoca il governo si trovava in uno dei tanti momenti di grottesco fallimento economico: per me era naturale trovare equo essere dalla parte di uno come il mio amico latitante piuttosto che di un governo che non faceva gli interessi del popolo. Questo succedeva nel 2003. Quindi gli scioperi e le manifestazioni contro la successione del governo e le elezioni presidenziali mi hanno spinto a scrivere ciò che accadeva in questa specie di teatro.
    Per quali motivi Metro è stato sequestrato?
    Il motivo ufficiale è che la polizia morale ha trovato il linguaggio usato nel fumetto troppo spinto. Tuttavia basta passeggiare in Piazza Ramses al Cairo per rendersi conto che il linguaggio quotidiano egiziano sia ben più spinto. La realtà è che il riferimento alla persona del politico corrotto non è visto come puramente casuale…
    Alcuni artisti del Medio Oriente – come ad esempio Marjane Satrapi, la fumettista iraniana autrice di Persepolis – sono emigrati all’estero per salvaguardare la propria libertà di espressione artistica. Lei è rimasto in Egitto. Come vive?
    In America ci sono istituzioni che scelgono: la storia di questo la facciamo disegnare a quello, arrivederci e grazie. Il risultato non è sempre bello e vivace come le opere europee, ma la produzione americana è enorme e stimola il commercio e l’industria del fumetto. Anche questo è importante per far sì che i fumettisti continuino a creare. Qui invece non c’è la giusta atmosfera professionale, ma il bello è la battaglia astuta e austera che devi combattere per venir fuori con un buon risultato nonostante le difficoltà a pubblicare e distribuire.
    Spero che Metro rappresenti un nuovo inizio per il fumetto per adulti e per il graphic novel… quanto a vivere fuori dall’Egitto è un fatto che mi ha sempre confuso. Non mi piace immaginare che la gente di qui potrebbe trattarmi come uno di seconda classe e mettermi da parte solo perché decidessi di vivere in un altro posto del mondo… è così strano che l’umanità non si sia ancora liberata da questo complesso dell’intolleranza!
    Ad esempio se incontri qualcuno mentre corri la mattina nel parco e nel bel mezzo della conversazione salta fuori che è ebreo o americano o arabo, lo inserisci subito in uno stereotipo con cui questa persona non ha niente a che fare.
    In realtà non ho niente a che fare neanch’io con lo slogan “L’Egitto è Mubarak”, ho a che fare e sono responsabile solo della mia propria immagine.
    Credo che la mia battaglia qui con l’editoria, la polizia e il sistema che monopolizza le opinioni non sia ancora arrivata in un vicolo cieco. Qualora dovesse arrivarci, allora mi porrei il problema. Ancora la situazione è sostenibile.
    Metro non è stato ancora tradotto ma ci sono alcuni giornalisti italiani che ne hanno scritto su giornali e su siti internet. Inoltre, grazie alla critica d’arte Viviana Siviero, alcune tavole originali del libro sono state esposte alla mostra “Il Drago di Giorgio” a Sovramonte- Servo, in provincia di Belluno.
    Si sarebbe aspettato un simile successo “internazionale” dopo la censura nel suo Paese?
    Sinceramente no. Questo successo è andato di gran lunga oltre le mie aspettative. Ringrazio anche i miei amici statunitensi che hanno subito pubblicato alcune pagine del romanzo tradotte in inglese sul sito www.wordswithoutborders.org e su un numero speciale della loro rivista sul graphic novel. Vorrei ricordare anche Paola Caridi per il meraviglioso articolo scritto sul Sole 24 Ore e Rania Khallaf per quello uscito su El-Ahram Weekly, “Il Metro che abbiamo perso”.
    Quali sono i suoi progetti professionali adesso?
    Penso a storie intime della mia vita passata e presente. Penso al mio rapporto con le donne, a come la loro immagine mi si sia presentata all’inizio nell’ambito domestico, a come questa immagine sia poi stata trasformata in una società come quella saudita. Penso anche a come le mie esperienze intime e sincere con donne diverse hanno cambiato ancor più l’idea che avevo della donna, tanto da prendere il sopravvento sulle idee precedenti e a spingermi a difendere la questione femminile nella nostra società.
    D’altro canto penso a una storia della nostra Storia riguardo a un personaggio che 120 anni fa reclamava il diritto del popolo alla libertà e a una vita dignitosa.
    Quest’uomo si chiamava Ahmad Orabi, è lui che disse “L’Egitto agli Egiziani” creando un nuovo senso della Nazione, e noi ancora oggi combattiamo per realizzare il suo sogno.

    Dopo una comparizione di pochi minuti il giudice ha spostato al 12 maggio l’udienza per il processo all’autore della prima graphic novel egiziana e al suo editore, che rischiano due anni di carcere perché viene usato un linguaggio “da strada” e compare una donna col seno scoperto. La protesta al Cairo degli intellettuali, dei fumettisti e dei sostenitori della libertà di espressione. Magdy: grazie anche alla stampa italiana per il sostegno che sto ricevendo.

  • La scrittrice che fa paura all’Islam

    | La Repubblica | Lunedì 18 giugno 2001 | Gianluigi Melega |

    Oggi al Cairo comincia il processo a carico della Saadawi, psichiatra, romanziera e saggista perseguitata perché ritenuta “apostata”.

    IL CAIRO – Questa è la prima parte di una storia che si concluderà oggi, quando la protagonista sarà processata da un tribunale del Cairo e, se ritenuta colpevole, sarà condannata al divorzio forzato ed eventualmente a tre anni di carcere. Nawal Saadawi è una delle più famose scrittrici egiziane. Ha 70 anni. Laureata in medicina e psichiatria, ha scritto oltre venti tra saggi e romanzi, è già stata in prigione per ragioni politiche.
    Ha un carattere indomabile e un marito di 78 anni, anche lui medico e scrittore, di cui dice con ironia: «Potrei divorziare da lui per mille ragioni personali: ma se i fondamentalisti islamici riescono a farmi condannare al divorzio forzato staremo insieme per sempre» .
    L’appartamento in cui vivono al Cairo è al ventiseiesimo piano di un palazzone di periferia. Dalla veranda aperta entra un vento fresco, si vede il poderoso Nilo che si bipartisce, dando origine a un primo, grande ramo del suo delta. Nawal Saadawi ha una testa leonina, i capelli come una gonfia criniera bianca continuamente scossa, la foga delle parole travolgente. Profuga politica ha insegnato nelle università americane dal ‘92 al ‘97, parla benissimo inglese.
    «Sono nata in campagna, nel 1932. Dopo la laurea, ho diretto una rivista di medicina e sono stata nominata direttore del ministero della Sanità con delega all’assistenza per le donne. Dopo la pubblicazione di un mio testo medico, “La donna e il sesso”, sono stata licenziata. Allora ho insegnato all’Università del Cairo, con ricerche specializzate sulle nevrosi femminili. Nell’89 l’Onu mi ha affidato la direzione dei programmi per le donne in Africa e Medio Oriente» .
    Siamo ad ascoltarla in una decina. Una delegazione di femministe tunisine, un’avvocatessa catalana e una belga, una rappresentante della presidenza svedese dell’Unione europea e, per il Parlamento di Strasburgo, un’altra indomabile, Emma Bonino, che dopo la delusione elettorale italiana, s’è gettata nella difesa di casi di donne oppresse, imprigionate o minacciate di morte per il coraggio di difendere i loro diritti, in ogni parte del mondo. Per Nawal Saadawi il Parlamento europeo, su iniziativa della Bonino, ha approvato una mozione di sostegno. E ora lei è qui per il processo.
    Il marito della protagonista, schivo e gentile ma non remissivo, dice: «Sono iscritto al partito del Fronte, quello che in Parlamento è più a sinistra, e sono indignato per il fatto che pochissimi parlamentari anche del mio partito hanno parlato in favore di Nawal: vedo in giro troppa paura» .
    «Nell’81 venni arrestata e gettata in prigione senza processo da Anwar Sadat, in una retata di 1.600 intellettuali che criticavano il governo», continua la Saadawi. Un mese dopo Sadat fu assassinato e Mubarak, che gli era successo come presidente, liberò tutti: «Ci ricevette a palazzo e disse, “andate a casa e dimenticate il passato”; io chiesi la parola e dissi “grazie per la libertà, ma non vogliamo dimenticare: perché non vogliamo che accada ancora”». Mubarak non gradì troppo il mio intervento» .
    In Egitto, se si è scrittori oggi si può finire su due liste nere. Una, ufficiosa del governo: direttori di giornali, radio e tv, sanno che certe persone non devono essere ospitate sui mezzi che controllano. Una, orale, che i fondamentalisti islamici fanno circolare nei mercati, nelle scuole, nelle campagne. I muezzin urlano il nome dell’”eretico” per l’Islam dagli altoparlanti delle moschee e annunciano condanna e pena con un solo verbo: «Ammazzatelo!».
    «Io ho sentito con le mie orecchie la sentenza contro di me gridata dal minareto: “Ammazzatela!”», racconta Saadawi. Fu allora, nel ‘92, dopo dieci anni difficili, in cui però conobbe il successo delle traduzioni dei suoi libri (in italiano sono stati pubblicati “Firdaus”, “Dio muore sul Nilo” e “L’amore ai tempi del petrolio“), che Saadawi e suo marito decisero per l’esilio, andando a insegnare in America.
    Sono tornati quattro anni fa. Ma adesso lei è, paradossalmente, vittima del suo maggiore alleato: la globalizzazione della tv. Finché era lontana non dava fastidio. In Egitto i giornali hanno tre tabù, argomenti di cui non si può parlar male: il presidente Mubarak, le Forze armate, e l’Arabia Saudita. E i fondamentalisti, i cui Fratelli musulmani sono fuorilegge come partito, hanno come campo di battaglia l’egemonia culturale: purché non allunghino il tiro alla politica, il governo li lascia fare. Ora, molte tv arabe hanno intervistato la Saadawi. E le parabole sui tetti del Cairo hanno rilanciato tra gli egiziani le sue critiche al governo e ai fondamentalisti. Questa strana forma di libertà di parola tecnologica s’è ritorta contro di lei.
    Un avvocato fondamentalista, Nabib Wahsh, specialista in casi clamorosi (aveva denunciato la regina Elisabetta per la morte della principessa Diana), ha denunciato «per apostasia» la Saadawi, chiamandola per iscritto «brutta vecchiaccia» e sostenendo che quanto dice e scrive è una continua trasgressione della legge islamica. Un apostata, per la legge islamica, è un essere morto, quindi non può essere sposato con un credente musulmano. Quindi, sostiene l’avvocato Wahsh, Nawal Saadawi e suo marito devono divorziare e vivere separati, e lei in prigione. Qualunque credente è autorizzato a fare qualsiasi gesto perché la legge islamica sia osservata, per esempio picchettare la loro casa, o peggio. Ciò significa mettere la scrittrice alla mercè di qualsiasi fanatico fondamentalista.
    Oggi, davanti a una piccola folla di osservatori internazionali e, forse, di estremisti islamici, un giudice dovrà annunciare il suo verdetto.

  • Egitto, una femminista for president

    | L’Avanti | Martedì 14 dicembre 2004 |

    IL CAIRO – È la prima donna che annuncia di volersi candidare alla presidenza della repubblica dell’Egitto, e conferma così la sua perenne posizione di avanguardia rispetto alla società del suo paese. È la scrittrice psichiatra femminista Nawal Saadawi, 74 anni, già nota per aver dichiarato apertamente la sua posizione contraria ad alcuni aspetti della religione e del costume che considera ‘retrogradi’. Per le sue posizioni ha rischiato anche la qualifica di ‘apostata’ (da parte di fanatici integralisti), quando nel 2001 fu sottoposta ad un processo per aver dichiarato ad un periodico egiziano di ritenere che il velo islamico non era un obbligo religioso e che il pellegrinaggio alla Mecca, con i giri intorno alla ‘Kaaba’, era una tradizione obsoleta. Questa volta ha detto ad un quotidiano indipendente, ‘Misr El Yom’, espressione di una intellettualità fuori dagli schemi – che intende presentarsi al prossimo referendum dell’autunno 2005, quando scadrà il quarto mandato del presidente Hosni Mubarak. E annuncia di voler cambiare la Costituzione, “tutta quanta, tutti i suoi articoli, non soltanto le norme elettorali e quelle sulla presidenza. Anche quella che prevede la sharia (legge coranica) come fonte del diritto, “perché dobbiamo separare lo stato dalla religione. Lo stato appartiene a tutti i cittadini – spiega al giornalista che la interroga – che hanno diritti e doveri, senza distinzione di etnia, religione e sesso”. Concetti che in Egitto sembrano destinati a suscitare molte riserve e forse anche qualche altra iniziativa giudiziaria, come quella del 2001, che voleva costringerla al divorzio – un’ apostata, non musulmana, non poteva rimanere sposata ad un musulmano, anche se lei affermava di non aver rinnegato la propria fede islamica – e che però non ebbe successo. Anche per la mobilitazione di diplomatici e media stranieri, compreso il parlamento europeo, che inviò al Cairo Emma Bonino. Così come ha già fatto in alcuni dei suoi quarantuno libri, Saadawi parla apertamente e senza remore, del ruolo della donna nella società egiziana, della necessità della sua libertà sessuale, degli abusi sessuali nelle famiglie (“ne sono vittime soprattutto ragazze e ragazzi, ma questo viene sempre ignorato, perché?”). Saadawi rivela quindi il programma della sua futura candidatura: libertà economica, limitazione e ridistribuzione della proprietà terriera, ritorno alle cooperative agricole, incoraggiamento alle piccole e medie imprese, tassazione per i ricchi. “Ora solo le persone a reddito limitato pagano le tasse – sottolinea – ma i ricchi non pagano. Incoraggiamo la produzione agricola per sfamare il paese, e poi penseremo alle esportazioni”. Idee socialiste?, chiede qualcuno. “Che cosa significano socialismo o capitalismo? Io voglio uscire da queste etichette – si scalda la scrittrice – Ho 74 anni, ho vissuto l’epoca di Nasser, quando non c’era il socialismo, c’ha provato, ha fallito perché era un burocrate ed un dittatore, non c’era partecipazione popolare, decideva tutto il regime ed i collaboratori di Nasser erano corrotti”. Per la scrittrice femminista psichiatra, anche se oggi è diverso, “c’è bisogno di cambiare. Io so che non ce la farò – conclude – ed il mio sacrificio non riceverà ricompense. Ma troppi giovani, troppi miei studenti mi hanno chiesto di provarci. Ed io ho il coraggio di parlare. Non sono appoggiata da nessuno, né da capitali, né da integralisti, né da destra né da sinistra. Ho con me solo l’appoggio di giovani, che sono la strada ed il futuro dell’ Egitto”.

  • La rivoluzione pacifica delle figlie dell’Islam. Storia di Nawal che a cinque anni litigò con Dio

    La rivoluzione pacifica delle figlie dell’Islam. Storia di Nawal che a cinque anni litigò con Dio

    L’UNITÀ – 11 novembre 2007
    di Lilli Gruber

    il Sirente, in occasione della giornata internazionale della donna, pubblica L’amore ai tempi del petrolio, tributo alla paladina  dei diritti delle donne Nawal Al Sadaawi, con un’introduzione di Luisa Morgantini. Un testo visionario. Un racconto spettacolare, inaspettatamente avvincente, ricco di tensione e curiosità per il destino della misteriosa protagonista.

    « Più di ogni altra donna, Nawal Al Saadawi incarna
    le sofferenze del femminismo arabo. » San Francisco Chronicle

    Nawal El-Saadawi è una veterana della “jihad femminile”. Ha cominciato a protestare nel 1936, all’eta’ di cinque anni, e direttamente con Dio. Scrivendogli una lettera. “Caro Dio, perche’ preferisci mio fratello? Lui e’ pigro e stupido, non fa nulla ne’ a scuola, ne’ a casa, mentre io m’impegno. Come fai a preferire lui?”. Era l’inizio di una carriera letteraria, e di un rapporto con le autorita’ a dir poco tormentato. Nawal proviene da una famiglia colta e benestante, ma questo non e’ bastato a evitarle la mutilazione genitale. A dieci anni e’ scampata a un matrimonio combinato e ha deciso di continuare a studiare nonostante le perplessita’ familiari. “Se non fossi stata la migliore, mio padre avrebbe smesso di pagarmi gli studi, ma lo ero”. Nel 1955 si laurea in medicina, specializzazione in psichiatria, e comincia a lavorare a Kafr Tahla, il piccolo villaggio rurale dove e’ nata. “Ogni giorno combattevo con le difficolta’, i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne”. Nawal e’ richiamata al Cairo e nominata direttrice della Sanita’ pubblica. Nel 1972 pubblica Women and Sex, un atto d’accusa contro la disumana pratica dell’infibulazione. Nawal e’ la prima donna araba a portare allo scoperto un tema cosi’ scomodo e scabroso e di li’ a poco cominciano i guai. Perde il lavoro e la rivista che ha fondato, “Health”, viene chiusa. Ma non si abbatte: per tre anni conduce una ricerca sulle nevrosi femminili presso la facolta’ di medicina dell’Ain Shams University, e nel 1979 diventa consigliera presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in Africa e Medio Oriente. I suoi studi la portano nei manicomi e nelle carceri, e la sua critica alle religioni, in particolare all’Islam, e al sistema politico egiziano, finisce per inasprire i gia’ tesi rapporti con le istituzioni. Nel 1981 viene incarcerata senza processo con altri 1.600 intellettuali ed esponenti politici. Sara’ liberata lo stesso anno, esattamente un mese dopo l’assassinio del presidente Sadat, che aveva ordinato il suo arresto. Tra i fermati c’e’ anche suo marito, il dottor Sherif Hetata, che invece scontera’ ben quindici anni nel carcere di massima sicurezza del Cairo. “Il pericolo e’ stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna”, mi spiega la donna-simbolo del femminismo egiziano. “Non c’e’ niente di piu’ pericoloso della verita’ in un mondo che mente”. Ma proprio quando il governo sperava di averla messa a tacere, scrive in prigione il suo libro piu’ importante, che sara’ tradotto in dodici lingue e pubblicato in tutto il mondo: Memorie dal carcere delle donne. “Mi negavano perfino la carta”, mi racconta. “La prostituta nella cella accanto mi allungava penna e carta igienica. Non ci credera’, ma le altre donne facevano di tutto affinche’ io potessi sempre scrivere. La creativita’ e’ il mezzo piu’ efficace per porre un freno alle mutilazioni dell’intelletto!”. Quando compare nella lista nera di un gruppo fondamentalista, Nawal si trasferisce in North Carolina. Insegna alla Duke e alla Washington University, ma nel 1996 decide di tornare a casa. Cinque anni dopo viene nuovamente accusata di eresia: grazie a un’imponente mobilitazione internazionale riesce a evitare il processo per apostasia, che l’avrebbe costretta al divorzio forzato dal marito. Oggi nel suo Paese Nawal rischia un nuovo procedimento penale in seguito alla pubblicazione, nel gennaio 2007, della commedia teatrale Dio rassegna le dimissioni nel corso del vertice. Ma oggi vede sviluppi positivi all’orizzonte grazie al lavoro delle femministe islamiche, prezioso nella battaglia per i diritti. Anche se il suo approccio alle religioni e’ piu’ scientifico: “Ho speso vent’anni della mia vita a confrontare i tre libri sacri: l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sono andata in India e ho studiato anche la Bhagavadgita. Non si puo’ conoscere l’Islam senza uno studio comparativo. Prendiamo per esempio la questione del velo. Se i sedicenti esperti avessero fatto i dovuti confronti, si sarebbero accorti che le donne si coprivano il capo anche nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. In forme diverse, sono sempre state considerate inferiori in qualsiasi religione. In piu’ il Corano e’ molto difficile da capire: esistono numerose scuole che lo interpretano in modo diverso, cosi’ come sono diverse le interpretazioni che i vari governi danno dell’Islam”. L’Egitto, negli ultimi anni, e’ molto cambiato, sostiene Nawal: “Quando studiavo medicina, negli anni Cinquanta al Cairo, nessuna portava l’hijab; quando mia figlia era studentessa a sua volta, negli anni Settanta, il 45% delle ragazze lo indossava. E la percentuale e’ aumentata ancora. Sono stati l’imperialismo americano e il neocolonialismo a sfruttare la religione e fomentare ovunque il fondamentalismo. Il velo e l’infibulazione sono le dirette conseguenze. Oggi in Egitto tutti parlano di religione: professoresse universitarie, scrittrici e perfino le femministe indossano il foulard, magari con i jeans e la pancia scoperta! Le donne si trovano tra due fuochi, tra americanizzazione e islamizzazione”. Per loro il clima nel Paese si sta facendo piu’ pesante e anche il sistema giudiziario non e’ certo incline a tutelarle. Come quello legislativo e’ un sistema misto, secolare e religioso. Esistono corti separate: islamica, cristiana e laica, e per quanto riguarda la prima il codice di riferimento e’ ovviamente la Sharia. “Ma viene applicata in modo assolutamente arbitrario: gli uomini continuano a essere poligami e a divorziare dalle mogli quando vogliono. Il figlio deve portare il nome del padre, e se questi e’ ignoto il bambino e’ illegittimo. I fondamentalisti sostengono che lo dice il Corano. Il nome della madre e’ considerato tuttora una vergogna sociale per la legge islamica”. Quando sua figlia ha deciso di portare il suo cognome, hanno dovuto comparire entrambe in tribunale con l’accusa di apostasia. “In Egitto ci sono due milioni di bambini illegittimi. E’ giusto punire i piccoli che non hanno alcuna colpa?”. Mi racconta l’esperienza traumatica della circoncisione, praticata una mattina, nella sua stanza, da quattro donne del villaggio vestite di nero, senza anestesia ne’ disinfettanti. “Mi dissero che era Dio a volerlo. Da allora ho cominciato a ribellarmi contro di Lui. Anche se i miei genitori mi dicevano di pregare, non mi sono mai convinta che Dio fosse giusto, mai. Perche’ io ho un cervello che ha sempre lavorato a pieno regime. Per me il vero piacere e’ quello della conoscenza, e della sfida. Ho settantacinque anni e vivo come se ne avessi trenta. Faccio ginnastica, suono, nuoto: certo mi stanco, mi viene mal di testa, ma non importa. Essere attivi tiene viva la mente”. Quando le chiedo se il velo possa essere considerato anche un simbolo di liberta’ risponde senza esitare: “Da un punto di vista politico, assolutamente no. La schiavitu’ non e’ un simbolo di liberta’”. Quindi, secondo lei il velo equivale sempre a oppressione? “Si’, certo, ma anche la mercificazione e’ oppressione. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono donne che lo portano come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo postmoderno. Perche’ secondo te si mettono il rossetto sulla labbra? Perche’ mostrano il reggiseno e indossano minigonne cortissime? Perche’ sono considerate un oggetto sessuale. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato e’ sempre una forma di schiavitu’”. Secondo Nawal chi dice che l’Islam e’ incompatibile con la democrazia ha ragione: “In nessuna religione esiste democrazia perche’ Dio e’ un dittatore. La religione si fonda sull’obbedienza, non si puo’ discutere con il Creatore. E i potenti della Terra non fanno altro che seguire il loro maestro in Cielo. Non esiste separazione tra religione e politica, sono una cosa sola: nella storia Dio era il re”. Come molte altre intellettuali che ho incontrato, ritiene siano le donne l’elemento chiave nascosto, il vero motore del cambiamento: “Per questo la politica e’ contro di noi. Ci hanno rese cosi’ stupide da farci credere in un Dio che ci opprime. Ma come si puo’ credere davvero che Dio sia contro di noi?”. Mi saluta con un invito a dir poco perentorio: “Ricordati che la mutilazione peggiore non e’ quella genitale ma quella intellettuale. Il velo sul cervello e’ molto peggio del velo sui capelli”.

  • TGR Mediterraneo presenta TAXI

    TGR Mediterraneo | Sabato 4 febbraio 2009 | Adelaide Costa |

    Il taxi come luogo sociale, momento di confronto, specchio della coscienza collettiva. Nella capitale egiziana ci sono ottantamila taxi, molti risentono del tempo, altri delle tasse, tutti della crisi. Gli autisti delle auto pubbliche sono anche dei novelli cantastorie perché nel giro di una corsa riescono a raccontare e sintetizzare storie personaggi, curiosità, parabole di vita. Alcune di queste le ha raccolte Khaled Al Khamissi nel libro best seller Taxi. Le strade si raccontano, edito in Italia da il Sirente. Cinquantotto piccoli episodi che costruiscono uno spaccato autentico della società egiziana con le sue attese, lamentele, i suoi sogni, l’amore, le proteste nei confronti di governo e governanti ad ogni livello. Khaled Al Khamissi è nato al Cairo, è giornalista, regista e produttore. Taxi è il suo primo libro, uno dei più venduti in Egitto e nel mondo arabo.

  • Saadawi, la rischiosa ribellione delle donne arabe

    | ANSAmed | Martedì 18 febbraio 2009 | Cristiana Missori |

    “Quel giorno di settembre la notizia uscì sui giornali, in una pagina interna, a mala pena visibile a occhio nudo: donna partita e mai più tornata. Le donne non erano solite prendere giorni di vacanza e, quando una donna usciva, era assolutamente necessario ottenere il permesso scritto dal marito o timbrato dal datore di lavoro”. Con questo incipit, la scrittrice e dissidente egiziana Nawal El Saadawi trascina il lettore nelle pagine de “L’amore al tempo del petrolio”, romanzo in uscita l’8 marzo, edito da Il Sirente. In un oscuro regno del petrolio, in un Paese autoritario, forse l’Arabia saudita, o forse l’Egitto, un’archeologa scompare senza lasciare traccia. “Era già successo che sua moglie fosse andata in vacanza? Ha mai disubbidito?”, chiede il commissario al marito della studiosa che si è volatilizzata. Per la polizia che indaga, infatti, può trattarsi soltanto di una ribelle, oppure di una donna di non rispecchiata moralità. E’ una donna sottomessa, asservita e oppressa dall’uomo, quella descritta dall’autrice egiziana che, una volta ancora, torna a occuparsi della questione femminile nel mondo arabo. Poco importa dove è ambientata la storia. In questo libro denso di metafore e continue allusioni, dallo stile allucinato e visionario, il viaggio onirico – e al contempo reale – compiuto dalla protagonista, descrive l’esistenza di una donna in un qualsiasi regime autoritario. Trasformata in una macchina tuttofare, in grado di cucinare, pulire, scrivere, senza diritti né sentimenti, la donna diventa uno strumento funzionale all’uomo e dunque intercambiabile con un qualsiasi altro oggetto. E’ però anche una storia d’amore intrigante, insospettabile e densa di mistero, quella tratteggiata dalla scrittrice, che vede una volta tornata indietro, la protagonista lasciare il marito per un altro uomo. Medico psichiatra, più volte minacciata di morte da gruppi fondamentalisti, imprigionata sotto il regime di Sadat, nel 1993 Nawal El Saadawi è stata condannata a morte per eresia. Oggi l’autrice vive in esilio volontario negli Usa, ma a breve – fa sapere – tornerà in Egitto, la sua terra natale. “Un uomo – scrive l’autrice – può uscire e non tornare per sette anni e solo dopo quella data la donna può chiedere la separazione”. Per una donna, una sola notte invece è sufficiente per lanciare l’allarme e gridare allo scandalo. Pubblicato in varie antologie e tradotto in più di 20 lingue, “L’amore ai tempi del petrolio” – insieme a diversi altri romanzi della Saadawi, è stato censurato dalla massima istituzione religiosa egiziana, Al Azhar, che dopo pochi mesi dalla pubblicazione ne ha ordinato il ritiro da tutte le librerie egiziane.

  • Tassinari al Cairo

    ALIBI ONLINE – Lunedì 16 febbraio 2009
    di Saul Stucchi

    Chi scrive ha una qualche esperienza come utente delle auto pubbliche cairote. E ha ritrovato tutto l’universo che ruota attorno ai taxi della capitale egiziana nell’effervescente libro di Khaled Al Khamissi, intitolato Taxi. Le strade del Cairo si raccontano (editrice Il Sirente). Di pagina in pagina sono riemersi i ricordi dei viaggi su quegli aggeggi scassati a quattro ruote che per carità di patria e inesauribile orgoglio professionale gli autisti continuano a chiamare taxi. Come quella volta che volevo andare alle Piramidi per assistere allo spettacolo Son et lumières (boicottato da molti che lo giudicano l’apoteosi del kitsch per i turisti en masse, ma di grande fascino per me) e non c’era verso di far capire al tassista che la meta era la Sfinge. In inglese, francese e tantomeno in italiano la parola sfinge non gli diceva niente. Ma non si dava per vinto e continuava a fermarsi a chiedere informazioni ai passanti finché non incrociammo un giovane che conosceva l’inglese e che tradusse l’enigmatico (ça va sans dire) termine con l’illuminante Abu el Houl ovvero “padre del terrore”. Un’altra volta ci capitò – si era in viaggio di nozze, provenienti dalla Libia – un tassista nevrotico che ci spillò più soldi di quelli pattuiti all’inizio, con la scusa che era uscito dalla sua zona e che la macchina aveva bisogno di riparazioni. Beh, in effetti la seconda non era una scusa: era una lapalissiana verità.
    Al Khamissi invece non si sofferma, se non di passaggio, su questi dettagli tecnici. È più interessato alla storia che l’autista per finirà per raccontargli, a volte sollecitato da lui stesso, a volte di sua spontanea volontà quando magari l’autore avrebbe voluto rilassarsi durante il tragitto. Pia illusione del resto, un po’ per il traffico cairota per il quale la definizione di caotico è solo un eufemismo (la maggior parte delle volte le auto restano immobili in interminabili code), un po’ per il piacere di raccontare e ascoltare che accomuna l’autore e i vari protagonisti del libro, organizzato in brevi e gustosi racconti. Ma spesso il tema della narrazione è tutt’altro che leggero. Anzi, quasi sempre fa da sfondo al racconto l’indigenza di chi guida l’auto, povertà che fa da specchio a quella dell’intero paese, da cui sfugge solo la nomenclatura e una strettissima cerchia di ricchi. In molte occasioni sorge spontaneo paragonare la situazione egiziana a quella nostrana e la soluzione di utilizzare il dialetto napoletano o il romanesco per rendere le inflessioni locali dell’arabo amplifica questo effetto di avvicinamento. I tassisti di Al Khamissi raccontano storie di ordinaria burocrazia e di altrettanto ordinari soprusi, di giri a vuoto, di code estenuanti, di tangenti per superare un esame e ottenere il rinnovo della patente. È un tuffo nella quotidianità del Cairo e della sua gente, un viaggio nelle sue paure e nei suoi sogni (come quello del tassista che vorrebbe andare con la sua auto fino in Sudafrica per assistere ai prossimi mondiali di calcio, ignaro che non esiste una strada di collegamento tra l’Egitto e il Sudan, figurarsi attraversare il continente da nord a sud…); è un’analisi spietata del ruolo del presidente Mubarak, dei politici e della polizia, sempre pronta a multare gli ipertartassati tassisti. Emergono però anche inaspettati spiragli di tranquillità in questa megalopoli ipertrofica, come nel racconto del cristiano che ritrova la pace pescando nel Nilo o in quello del tassista amante della cultura e degli animali che si è creato un giardino-paradiso a casa.
    Chiudo con un altro ricordo personale. La sconsolata ammissione “e comunque nessuno ci umilia meglio del nostro paese” (p. 28) mi ha fatto tornare alla mente la celebre sentenza di Flaiano che raccontai alla nostra guida mentre eravamo bloccati nel traffico dalle parti di Midan el Tahrir (Piazza della Liberazione): la peggiore dominazione subita dall’Italia è quella italiana.
    Consoliamoci quindi con le storie dei tassisti del Cairo per dimenticare, almeno per un po’, le disavventure con i nostri.