Su “Medio Occidente” di Beppi Chiuppani (Il critico come palombaro), di Raffaello Palumbo Mosca

Riportiamo la prefazione di Raffaello Palumbo Mosca al romanzo “Medio Occidente” di Beppi Chiuppani (Editrice il Sirente, 2014). L’autore della prefazione, Raffaello Palumbo Mosca, è ricercatore in letterature comparate e teoria letteraria presso la University of Kent ed è autore di saggi e articoli. Collabora con le riviste L’Indice dei libri del mese e Comparative Studies in Modernism.

di Raffaello Palumbo Mosca

Che ci sia, soprattutto fra gli studiosi della generazione degli anni Cinquanta/Sessanta, un atteggiamento di velata condiscendenza, quando non di aperto disprezzo, verso i romanzieri odierni non mi pare contestabile; e basterebbe, del resto, leggere anche solo i titoli dei libri licenziati da alcuni dei nostri critici più in vista, da Berardinelli con il suo Non incoraggiate il romanzo, passando per La Porta (Meno letteratura per favore!) fino a Ferroni (Scritture a perdere), per rilevare i termini del problema. Perché di problema – e credo non irrilevante – si tratta.

Capisco fin troppo bene lo scoramento presente, e sono forse persino d’accordo con Berardinelli quando malinconicamente nota come il genere romanzo sia diventato, ormai, «più merceologico che letterario»; capisco fin troppo bene lo smarrimento di chi, di fronte alla immensa mole di romanzi e romanzetti, best-seller e long-seller, «scritture» e raccontini spacciati da opere che sono il pane quotidiano del mercato dell’editoria, fa fatica ad orientarsi. L’arte – ha scritto Antonio Franchini in quel libro bellissimo e incategorizzabile che è Cronaca della fine – «spiazzata, decontestualizzata, messa in mezzo a un cumulo di macerie non sempre vi sfolgora; più spesso vi sta come scaglia di maceria nel monte di macerie». Indubitabilmente siamo sul monte di macerie, di macerie siamo circondati e sommersi: il compito del critico militante non è forse mai stato così pieno di insidie, così spiazzante. Eppure, se non vogliamo che la critica si riduca alle tristi (e spesso capziosamente eterodirette – ma questo è un altro discorso) notarelle dei lettori di Amazon e similia, possiamo e dobbiamo infilarci lo scafandro, armarci di una buona pila, e immergerci nella massa nera. E ritornare in superficie con i nostri piccoli tesori luccicanti. Perché di questo sono convinto: un atteggiamento critico condiscendente o aprioristicamente chiuso nella celebrazione di un’età dell’oro perduta significa – né più né meno – una resa.

Guardiamo dunque alla produzione letteraria con spirito laico e consideriamo i libri come prodotti dell’uomo nel tempo e non in un immaginario iperuranio; praticare (e promuovere) una critica «laica» significa innanzi tutto sottrarsi alla logica perversa (e ampiamente sfruttata a fini commerciali) del «capolavoro». E dunque: critichiamo pure senza pietà quei libri che sono fatti dal e per il mercato, o dimentichiamoli, ma occupiamoci seriamente e senza pregiudizi di tutti quelli che al contrario rimangono fedeli – con esiti alterni ma da valutare di volta in volta – al loro fondamentale compito ermeneutico. Chiediamoci, e continuiamo ad indagare, quali siano i romanzi che aprono la possibilità di una conversazione sul nostro abitare il mondo. (Quella conversazione che, come già ricordava il Leopardi del Discorso, è pur misera cosa, nondimeno è l’unico fondamento rimasto, dopo la fine delle illusioni, per la costruzione di una società, e della sua morale). Questa, e non altra, è la funzione necessaria e indispensabile della critica, la sua funzione civile ed etica: valutare, scegliere, aiutando così la disseminazione di idee e – lo dico senza paura di apparire naïf – di bellezza.
Medio Occidente è senza dubbio uno di questi piccoli tesori che è possibile trovare tra le macerie; un romanzo insieme profondamente radicato regionalmente (si vedano ad esempio le descrizioni, concrete ed esatte, dell’alta borghesia padovana, dove il Veneto funziona però da metonimia del paese intero), e insieme di respiro immediatamente internazionale. Chiuppani si muove con eguale naturalezza – e con una grazia davvero rara – tra i capannoni della provincia veneta e il suq al-Hamidiyyeh di Damasco; tra Venezia – «più orientale di un mausoleo islamico» eppure sempre e comunque diversa, con l’acqua viscosa della laguna «non azzurra come quella di
Beirut» – e i «palazzi color ocra, anneriti dallo smog» prospicienti il monte Quassyum dell’esclusivo quartiere Abu Roumaneh.
Come la sua protagonista Agata, anche Chiuppani applica una visione selettiva che è «una specie di esercizio spirituale» che porta a notare «il diverso nell’identico»; come ogni viaggiatore, anche Chiuppani misura l’ignoto attraverso il metro del noto ma, adottando di volta in volta i diversi sguardi dei suoi due protagonisti Agata e Faruq, «uccide ogni esotismo» per riconoscere anche l’identico (o il simile) nel diverso: da un punto di vista geografico e architettonico (ad esempio, l’arrivo a Venezia di Faruq con un paesaggio che si apre verso pianure e monti e che ricorda «quello che dalla città siriana si apriva verso le verdi valli del Libano»), ma anche da un punto di vista morale e solo in seconda istanza politico: la constatazione – con grande delusione di Faruq, «l’unico arabo illuminista dell’universo» – dell’evidente incapacità, per gli uomini di ogni latitudine, di condurre la propria vita secondo una morale razionale; una morale, verrebbe da dire, Kantiana, secondo la quale, appunto, l’uomo è sempre trattato come fine e non come mezzo, e nella quale gli istinti bruti sono se non dominati certo sempre addolciti dalla riflessione e da quel sentimento di naturale e originaria simpatia così largamente teorizzato nel Settecento (ad esempio, da Hume nel Trattato sulla natura umana e ancora da Smith nella Teoria dei sentimenti morali); una simpatia o compassione di cui «nemmeno il più gran furfante è del tutto privo» (Smith) e che funziona – o meglio: dovrebbe funzionare – come cemento della società degli uomini. La somiglianza tra Occidente e Oriente, tra l’irrazionalità e la corruzione siriane e la corruzione italiana che Faruq tocca con mano nel cantiere edile dove lavora, raggiunge il suo apice durante la visita a Venezia e nel discorso – che è già un discorso d’addio – che il damasceno fa a Agata; un discorso nel quale somiglianze architettoniche, politiche e morali si uniscono in un crescendo vertiginoso: «la città di decori e canali che gli si stendeva davanti agli occhi poteva veramente esser stata immaginata da un arabo come lui»; e ancora: «Se soltanto avesse potuto trovarsi un lavoro dignitoso, se almeno il cantiere non l’avesse tradito a quel modo! Lui voleva soltanto lavorare, lavorare e amare, e nemmeno aveva potuto capire quale fosse la famiglia della sua donna – possibile che ancora non l’avesse presentato a suo padre! Almeno questo doveva poterlo ottenere! “Ma io l’ho capito”: lo disse a voce alta senza quasi averne coscienza e lei si girò attenta, con un sorriso sforzato che le segnava il volto, “che si vergogna che sua figlia stia con un immigrato. Dico, tuo padre”. Di colpo terribilmente seria, gli istanti passavano senza che riuscisse a rispondergli. Povera donna, possibile che dovesse ferirla ancora? “Ma, no, non si tratta di questo… È solo che sei molto diverso dalle persone a cui lui è abituato; è solo una questione di tempo. Vedrai che un giorno vi conoscerete… Io ho cercato…” “Ma no Agata, sono anche troppo simile”».

Il nucleo fondamentale di Medio Occidente è questo atto d’amore per una civiltà umanistica vagheggiata e perduta, così in Siria come in Italia: «possibile – si chiede lo sperduto protagonista a Venezia – che quel senso d’identità rimanesse così forte nonostante la distanza che divideva Siria e Italia?» Ovunque i valori della «modernità secolare e illuminata» sembrano irrecuperabili, negati e vilipesi. Comunque stessero le cose quello che era certo, si diceva, era che non aveva più senso pensare che la modernità di cui aveva sognato avrebbe potuto fornire l’orizzonte storico di sviluppo del suo paese. Ormai non era più uno dei motori della storia, sembrava non fosse più attiva nemmeno in uno dei paesi che avevano più contribuito a formularla. I valori che era cresciuto ammirando erano anche in Italia residui di un idealismo anacronistico.
Medio Occidente, però, non si ferma alla semplice riprovazione: il percorso di Faruq è anche un percorso di formazione, una progressiva (e dolorosa) educazione del pensiero alla complessità che nega ogni soluzione semplice e immediata. Chiuppani lo sa: c’è una faccia nera della razionalità stessa che non può essere elusa. Incapace di accogliere l’impurità, l’imperfezione, l’eterogenesi, il pensiero razionale corre sempre il rischio di tramutarsi in pensiero astratto e impersonale. È Faruq stesso a comprendere, iuxta Horkheimer e Adorno, come la razionalità moderna sia diventata soprattutto strumento di dominio. Quale, dunque, la soluzione possibile? Nel reportage sui Cabili del 1939, Albert Camus scrisse che «costituisce sempre un progresso il fatto che un problema politico venga sostituito da un problema umano»; in modo molto simile, anche Chiuppani sembra infine abbandonare ogni ideologia – anche l’ideologia di una civiltà umanistica ormai inattingibile – per ritornare alla vita concreta e irriducibile del singolo essere umano: «mentre l’autobus usciva dal centro pensava a quello che per entrambi quel viaggio incrociato sarebbe potuto essere se il proprio atteggiamento fosse stato diverso, se avesse rispettato non tanto le ragioni ma la vita stessa di Agata. L’incidente gliene presentava un’evidenza irrefutabile: né Agata né nessun altro si sarebbe mai potuto adeguare a un principio». Faruq scopre allora che non c’è ragione ma sempre ragioni: plurali, imperfette, zoppicanti ma concrete e vive. Prima di ogni società migliore da costruire (la «Primavera Araba» fa da sfondo alla narrazione), prima di ogni ideale di razionalità, il compito dell’uomo è il rispetto della particolarità della vita di ogni individuo: «l’uomo – ha scritto Primo Levi in Monumento ad Auschwitz – è, deve essere, sacro all’uomo». Ed è proprio questa morale minima, fondamentale e fondante ad essere negata, secondo Chiuppani, dalla società capitalistica odierna. Faruq arriva infine a comprendere come il fallimento dell’Italia, con la sua corruzione, le sue libertà mancate, la crescente sperequazione economica, sia in realtà lo specchio di un fallimento più profondo e (forse) definitivo dello stato moderno in quanto stato capitalista: «l’America – riflette Marco, un personaggio secondario che acquista però qui un’importanza cruciale – […] quella sì è la modernità, la società capitalista più avanzata al mondo, eppure se pensi che possa offrire una soluzione ti sbagli, lo stato moderno fallisce nel suo fallimento, come da noi in Italia, e anche nel suo successo».
Ho voluto mettere immediatamente in risalto la densità teorica di Medio Occidente per mostrare come esso sia, al suo cuore, quello che un tempo si sarebbe chiamato un ‘romanzo di idee’; ma Medio Occidente è anche molto altro: è una delicata storia d’amore, narrata con finezza e pudore; è uno specchio della nostra vita qui e ora, con tutte le sue contraddizioni. Soprattutto, Medio Occidente è un romanzo nel quale sono sempre gli eventi concreti, spesso «avventurosi» della trama – una trama essenziale ma non esile – a fornire lo spunto per la riflessione: protagonista è la vita e non una sua astrazione. Questa è la sfida che Chiuppani, in questa sua prima prova, accoglie e vince: riuscire a fare del plot una peculiare forma di conoscenza.

Raffaello Palumbo Mosca

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