Khaled al-Khamissi, Taxi. Le strade del Cairo si raccontano

Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis (C.I.S.R.O.) – dicembre 2008
di Martino Diez

Khaled al-Khamissi, Taxi. Le strade del Cairo si raccontano, il Sirente, 2008.

«Ci avevo sperato fino a quando non hanno preso Saddam. Quel giorno ho pianto come una fontana. Ho sentito che noi arabi ci facevamo calpestare come insetti. Mi sono sentito come una formica che chiunque poteva schiacciare sotto i piedi».
«Io mi voglio sposare uno coi soldi: lo amo o non lo amo, non me ne importa niente. L’importante è che c’ha i soldi».
«Noi viviamo nel paese delle minchiate e ci crediamo pure. L’unico ruolo di questo governo è controllare che continuiamo a crederci. È vero o no?».
Lo scrittore arabo contemporaneo, come tutti i suoi conterranei, vive diviso tra due lingue: il dialetto, che usa tutti i giorni, e l’arabo classico, la lingua di prestigio. Sono due modi diversi di raccontarsi. Uno irriverente, critico, spietato. L’altro paludato, accademico, ieratico. In dialetto si racconta il mondo com’è, in classico il mondo come dovrebbe essere. Finora però l’immagine ideale ha sempre prevalso, anche nella autorappresentazione delle società arabe, e a livello linguistico, salvo rare eccezioni, solo l’arabo classico ha goduto di dignità letteraria.
La genialità di Taxi, primo libro egiziano scritto per tre quarti in dialetto, è tutta nel contrappunto di voci parlate, ora serie, ora ironiche o disperate, spesso sguaiate, volgari anche, mai scontate. Uno spaccato sull’Egitto contemporaneo, attraverso la particolare visuale degli autisti di taxi. Chiunque abbia messo i piedi nella caotica capitale mediorientale conosce per esperienza tutta l’importanza delle onnipresenti macchine nere a strisce bianche, spesso autentiche carcasse, principale mezzo di trasporto nella sterminata megalopoli. Non di rado capita di avviare dialoghi simili a quelli riportati nel libro. C’è il disperato, l’idiota, l’autista che non dorme da tre giorni perché deve pagare la rata, il fondamentalista, il cristiano arrabbiato, l’emigrato ritornato al paese, il contrabbandiere, il barzellettiere… Come nella realtà, anche nel libro spesso si parla di politica, sempre ai limiti della censura, tanto che qua e là viene il sospetto che l’autore ci abbia aggiunto del suo. Si toccano temi scomodi, come la discriminazione dei copti nelle università, la prostituzione o la corruzione generalizzata. Il traduttore italiano, a parte qualche refuso come Notte di Qadr invece di Notte del Qadar, indovina complessivamente il registro linguistico, pur con qualche concessione al gusto per lo scurrile.
Senza dubbio questa raccolta di storie brevi, prima opera di Khaled al-Khamissi, intercetta un bisogno reale di raccontarsi oltre gli stereotipi autoimposti, come dimostrano le oltre 35.000 copie vendute, in un paese, l’Egitto, dove 3000 copie sono considerate un successo. Emerge il quadro di una società sull’orlo della bancarotta economica, sfiduciata, in preda a una crisi morale ed educativa radicale («Sono pazzi. Mandano i loro figli a scuola […]. Io personalmente dico a tutti quelli che stanno attorno a me: “Non li mandate i figli vostri a scuola, non li mandate!” È diventata la mia unica causa nella vita»), in cui la maggior parte della popolazione è totalmente assorbita dalla lotta per la sopravvivenza quotidiana. Eppure, nonostante tutto, le cose vanno avanti. Perché, come conclude l’anziano guidatore del primo racconto, «quel pane, quei soldi, non sono né miei né vostri. Appartengono a Dio. Questa è l’unica cosa che ho imparato durante la mia vita».

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