La rivoluzione pacifica delle figlie dell’Islam. Storia di Nawal che a cinque anni litigò con Dio

L'amore ai tempi del petrolio (Nawal al-Sa'dawi)

L’UNITÀ – 11 novembre 2007
di Lilli Gruber

il Sirente, in occasione della giornata internazionale della donna, pubblica L’amore ai tempi del petrolio, tributo alla paladina  dei diritti delle donne Nawal Al Sadaawi, con un’introduzione di Luisa Morgantini. Un testo visionario. Un racconto spettacolare, inaspettatamente avvincente, ricco di tensione e curiosità per il destino della misteriosa protagonista.

« Più di ogni altra donna, Nawal Al Saadawi incarna
le sofferenze del femminismo arabo. » San Francisco Chronicle

Nawal El-Saadawi è una veterana della “jihad femminile”. Ha cominciato a protestare nel 1936, all’eta’ di cinque anni, e direttamente con Dio. Scrivendogli una lettera. “Caro Dio, perche’ preferisci mio fratello? Lui e’ pigro e stupido, non fa nulla ne’ a scuola, ne’ a casa, mentre io m’impegno. Come fai a preferire lui?”. Era l’inizio di una carriera letteraria, e di un rapporto con le autorita’ a dir poco tormentato. Nawal proviene da una famiglia colta e benestante, ma questo non e’ bastato a evitarle la mutilazione genitale. A dieci anni e’ scampata a un matrimonio combinato e ha deciso di continuare a studiare nonostante le perplessita’ familiari. “Se non fossi stata la migliore, mio padre avrebbe smesso di pagarmi gli studi, ma lo ero”. Nel 1955 si laurea in medicina, specializzazione in psichiatria, e comincia a lavorare a Kafr Tahla, il piccolo villaggio rurale dove e’ nata. “Ogni giorno combattevo con le difficolta’, i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne”. Nawal e’ richiamata al Cairo e nominata direttrice della Sanita’ pubblica. Nel 1972 pubblica Women and Sex, un atto d’accusa contro la disumana pratica dell’infibulazione. Nawal e’ la prima donna araba a portare allo scoperto un tema cosi’ scomodo e scabroso e di li’ a poco cominciano i guai. Perde il lavoro e la rivista che ha fondato, “Health”, viene chiusa. Ma non si abbatte: per tre anni conduce una ricerca sulle nevrosi femminili presso la facolta’ di medicina dell’Ain Shams University, e nel 1979 diventa consigliera presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in Africa e Medio Oriente. I suoi studi la portano nei manicomi e nelle carceri, e la sua critica alle religioni, in particolare all’Islam, e al sistema politico egiziano, finisce per inasprire i gia’ tesi rapporti con le istituzioni. Nel 1981 viene incarcerata senza processo con altri 1.600 intellettuali ed esponenti politici. Sara’ liberata lo stesso anno, esattamente un mese dopo l’assassinio del presidente Sadat, che aveva ordinato il suo arresto. Tra i fermati c’e’ anche suo marito, il dottor Sherif Hetata, che invece scontera’ ben quindici anni nel carcere di massima sicurezza del Cairo. “Il pericolo e’ stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna”, mi spiega la donna-simbolo del femminismo egiziano. “Non c’e’ niente di piu’ pericoloso della verita’ in un mondo che mente”. Ma proprio quando il governo sperava di averla messa a tacere, scrive in prigione il suo libro piu’ importante, che sara’ tradotto in dodici lingue e pubblicato in tutto il mondo: Memorie dal carcere delle donne. “Mi negavano perfino la carta”, mi racconta. “La prostituta nella cella accanto mi allungava penna e carta igienica. Non ci credera’, ma le altre donne facevano di tutto affinche’ io potessi sempre scrivere. La creativita’ e’ il mezzo piu’ efficace per porre un freno alle mutilazioni dell’intelletto!”. Quando compare nella lista nera di un gruppo fondamentalista, Nawal si trasferisce in North Carolina. Insegna alla Duke e alla Washington University, ma nel 1996 decide di tornare a casa. Cinque anni dopo viene nuovamente accusata di eresia: grazie a un’imponente mobilitazione internazionale riesce a evitare il processo per apostasia, che l’avrebbe costretta al divorzio forzato dal marito. Oggi nel suo Paese Nawal rischia un nuovo procedimento penale in seguito alla pubblicazione, nel gennaio 2007, della commedia teatrale Dio rassegna le dimissioni nel corso del vertice. Ma oggi vede sviluppi positivi all’orizzonte grazie al lavoro delle femministe islamiche, prezioso nella battaglia per i diritti. Anche se il suo approccio alle religioni e’ piu’ scientifico: “Ho speso vent’anni della mia vita a confrontare i tre libri sacri: l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sono andata in India e ho studiato anche la Bhagavadgita. Non si puo’ conoscere l’Islam senza uno studio comparativo. Prendiamo per esempio la questione del velo. Se i sedicenti esperti avessero fatto i dovuti confronti, si sarebbero accorti che le donne si coprivano il capo anche nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. In forme diverse, sono sempre state considerate inferiori in qualsiasi religione. In piu’ il Corano e’ molto difficile da capire: esistono numerose scuole che lo interpretano in modo diverso, cosi’ come sono diverse le interpretazioni che i vari governi danno dell’Islam”. L’Egitto, negli ultimi anni, e’ molto cambiato, sostiene Nawal: “Quando studiavo medicina, negli anni Cinquanta al Cairo, nessuna portava l’hijab; quando mia figlia era studentessa a sua volta, negli anni Settanta, il 45% delle ragazze lo indossava. E la percentuale e’ aumentata ancora. Sono stati l’imperialismo americano e il neocolonialismo a sfruttare la religione e fomentare ovunque il fondamentalismo. Il velo e l’infibulazione sono le dirette conseguenze. Oggi in Egitto tutti parlano di religione: professoresse universitarie, scrittrici e perfino le femministe indossano il foulard, magari con i jeans e la pancia scoperta! Le donne si trovano tra due fuochi, tra americanizzazione e islamizzazione”. Per loro il clima nel Paese si sta facendo piu’ pesante e anche il sistema giudiziario non e’ certo incline a tutelarle. Come quello legislativo e’ un sistema misto, secolare e religioso. Esistono corti separate: islamica, cristiana e laica, e per quanto riguarda la prima il codice di riferimento e’ ovviamente la Sharia. “Ma viene applicata in modo assolutamente arbitrario: gli uomini continuano a essere poligami e a divorziare dalle mogli quando vogliono. Il figlio deve portare il nome del padre, e se questi e’ ignoto il bambino e’ illegittimo. I fondamentalisti sostengono che lo dice il Corano. Il nome della madre e’ considerato tuttora una vergogna sociale per la legge islamica”. Quando sua figlia ha deciso di portare il suo cognome, hanno dovuto comparire entrambe in tribunale con l’accusa di apostasia. “In Egitto ci sono due milioni di bambini illegittimi. E’ giusto punire i piccoli che non hanno alcuna colpa?”. Mi racconta l’esperienza traumatica della circoncisione, praticata una mattina, nella sua stanza, da quattro donne del villaggio vestite di nero, senza anestesia ne’ disinfettanti. “Mi dissero che era Dio a volerlo. Da allora ho cominciato a ribellarmi contro di Lui. Anche se i miei genitori mi dicevano di pregare, non mi sono mai convinta che Dio fosse giusto, mai. Perche’ io ho un cervello che ha sempre lavorato a pieno regime. Per me il vero piacere e’ quello della conoscenza, e della sfida. Ho settantacinque anni e vivo come se ne avessi trenta. Faccio ginnastica, suono, nuoto: certo mi stanco, mi viene mal di testa, ma non importa. Essere attivi tiene viva la mente”. Quando le chiedo se il velo possa essere considerato anche un simbolo di liberta’ risponde senza esitare: “Da un punto di vista politico, assolutamente no. La schiavitu’ non e’ un simbolo di liberta'”. Quindi, secondo lei il velo equivale sempre a oppressione? “Si’, certo, ma anche la mercificazione e’ oppressione. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono donne che lo portano come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo postmoderno. Perche’ secondo te si mettono il rossetto sulla labbra? Perche’ mostrano il reggiseno e indossano minigonne cortissime? Perche’ sono considerate un oggetto sessuale. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato e’ sempre una forma di schiavitu'”. Secondo Nawal chi dice che l’Islam e’ incompatibile con la democrazia ha ragione: “In nessuna religione esiste democrazia perche’ Dio e’ un dittatore. La religione si fonda sull’obbedienza, non si puo’ discutere con il Creatore. E i potenti della Terra non fanno altro che seguire il loro maestro in Cielo. Non esiste separazione tra religione e politica, sono una cosa sola: nella storia Dio era il re”. Come molte altre intellettuali che ho incontrato, ritiene siano le donne l’elemento chiave nascosto, il vero motore del cambiamento: “Per questo la politica e’ contro di noi. Ci hanno rese cosi’ stupide da farci credere in un Dio che ci opprime. Ma come si puo’ credere davvero che Dio sia contro di noi?”. Mi saluta con un invito a dir poco perentorio: “Ricordati che la mutilazione peggiore non e’ quella genitale ma quella intellettuale. Il velo sul cervello e’ molto peggio del velo sui capelli”.

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