L’autunno siriano secondo Golan Haji

Frontiere News | Mercoledì 11 dicembre 2013 | Monica Ranieri |

Incontro Golan Haji, poeta curdo siriano, a Baridove è stato invitato per presentare la sua raccolta di poesie “L’autunno qui, è magico e immenso”, edita da “Il Sirente”. Ho il libro tra le mani e lo sguardo continua a soffermarsi su alcuni versi che avevo sottolineato leggendolo. “La mia ombra, appena calpestata/ si ripara sotto di me/ e le mie parole/che sono il mio deserto e mi fan male/si accampano intorno a me”. L’espressione degli occhi di Haji mentre mi racconta della Siria, dei diritti del popolo curdo, e del suo muoversi lungo ed oltre i confini delle scritture e delle lingue, e il tono vibrante della sua voce, mi hanno condotto amichevolmente lungo i sentieri che le parole accampate tracciano attraversano il deserto. 

foto: Monica Ranieri

Quando hai lasciato Damasco non si parlava ancora di guerra civile e in Occidente la rivolta siriana veniva inglobata miopemente in un concetto vago di Primavera Araba. Cosa è rimasto, secondo te, dello spirito dei primi manifestanti in piazza?

La catastrofe in Siria ha un volto composito e tragicamente completo: l’attuale situazione di caos potrebbe dare luogo a qualsiasi sviluppo, a risultati che nessuno può prevedere. Nel frattempo sta distruggendo il paese e la stessa popolazione. A livello politico non può essere considerata solo una questione siriana, si tratta in realtà di una vergogna internazionale: a fronte di leggi internazionali, potenti stati che detengono il controllo della sicurezza internazionale e che sin dall’inizio avrebbero potuto fare qualcosa hanno preferito non fare nulla. La situazione si è quindi andata deteriorando e il Paese è attraversato da profonde fratture che potrebbero risolversi in modi anche più catastrofici. In questa cornice lo spirito della rivoluzione appare abbastanza controverso, se intendiamo usare il termine “rivoluzione” tenendo conto che attribuire un’etichetta alla situazione non è più importante del considerare le vite delle persone, sia di quelle che sono all’interno del Paese, sia di coloro costretti a fuggire. Di fronte a questo scandalo è difficile che ci sia ancora in loro la fermezza nel proseguire un conflitto armato che viene più o meno finanziato e supportato da molte parti dell’area circostante e dalla società internazionale. Sfortunatamente, e per mere ragioni politiche, la fine non è nelle mani dei siriani.

Hai detto che la comunità internazionale avrebbe potuto fare qualcosa sin dall’inizio. Che cosa intendi?
La situazione siriana sembra la dimostrazione di un antico proverbio secondo cui essere un nemico è sempre più facile che essere un amico. Gli amici del popolo siriano, o perlomeno gli alleati che si supponeva li supportassero, si sono dimostrati in realtà poco amichevoli. Non hanno fatto nulla se non creare ancora più devastazione. Dall’altro lato i nemici del popolo, i paesi che supportano il regime, hanno fatto di tutto per includerlo come parte della soluzione nell’accordo di Ginevra. Ma come è possibile che il responsabile della situazione diventi una parte della sua soluzione? Una colpa è da attribuire anche al modo in cui sin dall’inizio l’informazione è stata veicolata e manipolata. Tutti noi siriani lo sappiamo e ne serbiamo memoria: le prime manifestazioni pacifiche del 15-18 marzo nella città vecchia di Damasco non sono state coperte per nulla da alcuni canali come Al Jazeera, che poi hanno giocato un ruolo nella cosiddetta primavera araba. La “copertura” fu di appena qualche riga perché c’era all’epoca un accordo tra il regime e la monarchia del Qatar. Da quando questo accordo è saltato Al Jazeera ha cominciato ad attaccare il regime. Adesso se ne parla come di una guerra civile, ed è certamente corretto, ma all’inizio, quando su questa situazione si sono accesi i riflettori, si è fatto in modo di presentarla semplicemente come un’altra tragedia nella storia del mondo, rendendo le persone gradualmente neutrali, indifferenti. Ma il punto è che non riguarda solo i siriani, o quelli che sono considerati retrogradi e religiosi. La responsabilità dipende anche, per quanto riguarda l’Occidente, da una visione che l’Europa ha costruito intorno all’Islam, di cui si parla quando negli Usa viene bruciato il Corano o quando si deve decidere se costruire o meno le moschee in Svizzera. Si riconduce tutto all’islamismo, falsificando la realtà. Quello di cui ci si ricorderà saranno semplicemente uomini con barbe lunghe, che imbracciano armi, che sparano, nel mezzo del nulla. Un’immagine generale che proviene da un arrogante punto di vista bianco del potere per cui “io sono il più forte e posso fare quello che voglio” anche quando questo significa semplicemente “non fare niente”.

Domenico Quirico, giornalista italiano rapito in Siria e poi liberato, l’ha definita il Paese del male. Dalla tua poetica invece esce fuori un paese che soffre e che quel male lo rifugge.
Questo mi ricorda quando gli Usa definirono Iraq, Iran e Corea del Nord come l’“Asse del Male” in riferimento al terrorismo internazionale. La sua esperienza in Siria è stata davvero dura, ma quello che ha visto non è usuale: le sue parole vanno a rafforzare una narrazione sulla Siria, e sul Medio Oriente più in generale, già esistente rispetto alla quale i media cercano prove e tutto quello che si discosta rappresenta un’eccezione. Gente pacifica e civile rappresenta un’eccezione, la regola sono quelli armati, gli “islamisti”. È più semplice. In Occidente, e questo è il punto cruciale, non è possibile credere che migliaia di persone manifestino in piazza pacificamente. Sembra un sogno, qualcosa di non reale, ma quando il processo va avanti trasformandosi nel sanguinoso conflitto che ora è, allora tutto appare più reale perché risponde a quella visione preconfezionata. Si pensa che sia normale, che le persone che stanno soffrendo non sono solo vittime, “sono in guerra”. Credo che in generale in Occidente si sta dipingendo il regime come l’elemento che sopravvive, che addirittura protegge le minoranze, le religioni, e in questo modo passo dopo passo la tragedia diventa qualcosa di normale, parte della storia che viene dimenticata facilmente. Al cuore della questione c’è la volontà di lasciare il potere nelle mani del regime, e non esistono pressioni utili per domarlo: tutte le misure prese dai governi occidentali e l’imposizione delle sanzioni economiche non fanno soffrire che la popolazione. E queste organizzazioni che prendono il premio Nobel per la pace considerano una vittoria il disarmo delle armi chimiche e il raggiungimento di un accordo politico, un compromesso che consentirà al regime di sopravvivere mentre il conflitto potrà andare avanti incessantemente. Ed è difficile immaginare cosa rimarrà, perché dopo questo caos niente può essere facilmente costruito o anche semplicemente compreso.

Sei nato ad Amouda, nella regione nord-orientale Kurdistana Rojava. Una città che in questi due anni è diventata simbolo dell’indipendentismo curdo. Come stai vivendo la tua doppia identità culturale durante questo periodo di forte frammentazione? Pensi che sia ancora possibile pensare a una Siria plurale, laica e multietnica o una “balcanizzazione” è inevitabile?
Credo che ogni origine nel mondo è in qualche modo “balcanica”, l’idea di un luogo “puro” nel mondo è piuttosto una leggenda: la Siria, la regione curda da cui provengo, e la stessa Amouda, accolgono differenti religioni, lingue, etnicità, razze. Non sono solo i curdi a chiedere l’indipendenza. Il punto è che per decenni sono stati privati anche dei più semplici diritti civili. Come curdo io stesso non posso scrivere e parlare nella mia lingua madre, non è permesso. Questo tipo di politica è una procedura fascista per escludere le minoranze, definendole pericolose e accusando le persone di essere traditori che chiedono la separazione. Lascia che ti racconti una storia. Cinque o sei anni fa un insegnante di scuola venne arrestato dal regime Ba’th solo perché aveva informalmente raccontato di aver fatto un sogno in cui la regione nord della Siria e il Kurdistan iracheno si univano: un classico dei regimi totalitari. Trattare le persone in questo modo significa rinnegare qualsiasi approccio basato su comprensione e tolleranza: considerare i curdi come gente che cerca la separazione significa considerarli come qualcosa di estremamente minaccioso per gli altri, soprattutto perché la separazione territoriale è legata ad un discorso di controllo sulle risorse naturali. E questa non è la prospettiva reale: i curdi sono parte del paese, parte della storia e della società della Siria. Il movimento curdo si batte per la libertà ed il riconoscimento dei propri diritti culturali, piuttosto che per la fondazione di un altro paese, anche se questo pensiero idealmente costituisce un sogno. Ma, io, in quanto curdo, non voglio ulteriori confini. Noi siamo parte della Siria, non esterni.

Nella regione dalla quale provieni si sta facendo strada quella che viene indicata “la terza via”. Il PYD, che in quell’area deve fronteggiare la minaccia delle milizie islamiste, potrebbe essere disponibile ad una negoziazione con il regime di Assad?
Le circostanze stanno portando il regime verso la negoziazione. Nella regione curda, che non ha sofferto quanto altre zone della Siria, il PYD ha mostrato, seppur con riluttanza, aperture ad un accordo. Ma ora l’importante è che la situazione sia fermata e che vengano salvaguardate le vite delle persone. E’ semplicemente impossibile andare avanti in una situazione così destabilizzata e caotica. Non sono traditori, etichettare qualcuno come traditore è abbastanza facile, soprattutto in tempi di confusione quando tutti sono agitati dal “se non sei con me, sei contro di me”. Ma non è vero. Nella regione curda il pensiero è quello di issare la bandiera curda, di insegnare la lingua nelle scuole, e ci sono persone sia all’opposizione che al regime che non condividono questa via. Ma, più importante dei diritti nazionali e della lingua, è la vita umana. Tutto viene dopo questo basilare obiettivo.

Quanto è reale il supporto dal basso al YPG?
Le opinioni sono controverse, c’è un paradosso qui. Si tratta di un corpo armato, hanno la loro storia in Siria e adesso che il PYD ha preso il potere nella regione curda fanno qualcosa di davvero utile, proteggono le persone. Ma allo stesso tempo li opprimono. Nella mia città, lo so per certo da testimoni, i guerrieri dell’ YPG hanno ucciso sei persone. In una manifestazione a seguito dell’arrestato di alcuni curdi politicamente contro di loro, i guerriglieri hanno aperto il fuoco sui manifestanti e sei sono morti. Uno aveva sedici anni. Dall’esterno potresti dire che si tratta di terroristi, ma non lo sono. Noi tutti ci conosciamo l’un l’altro, in un piccola città sappiamo chi sono quelli armati e chi è stato ucciso. Gli stessi guerriglieri hanno espulso le milizie islamiste, proteggendo quindi la nostra gente. C’è una sorta di soluzione politica necessaria fra gli stessi curdi.

Nel frattempo la Turchia erige muri…
Adesso la Turchia sta erigendo un muro fra le due regione curde al confine tra Turchia e Siria. Lo stanno facendo perché sono impauriti dal PYD. Nello stesso momento in cui si parla di diplomazia e di tolleranza commettono omicidi sul campo. Al confine con la Turchia, la Bulgaria sta costruendo anche un altro muro, per fermare il flusso di profughi, ma questi non sono muri famosi come quello di Berlino.

A tal proposito, come consideri l’avvicinamento della Turchia all’Iran? Non temi possa costituire una minaccia per i siriani, e ancor di più i curdi siriani?
Nella storia contemporanea i curdi non si sono mai sentiti al sicuro con le altre nazioni nelle quali e fra le quali vivono, tutti questi confini e queste barriere che attraverso la regione si sono create successivamente alla prima guerra mondiale e come ogni altra frontiera sono stati imposti semplicemente dal potere e dai vincitori. La Turchia è un paese proiettato in Europa e governato da qualcuno eletto tramite democratiche elezioni, ma anche durante il periodo democratico le sofferenze dei curdi non sono terminate e nessuno ne parla, come se fosse qualcosa che appartiene al naturale ciclo degli eventi. Risulta strano però, se pensi ai curdi e alla loro condizione storica di vittime, alla loro epica e alle canzoni che parlano di dolore e di sofferenza, dell’essere dispersi. E in Iran, dove si suppone che debba essere il contrario, dove c’è un governo islamico, indipendentemente dall’orribile livello di corruzione e dal controllo dei servizi segreti, la regione curda è una delle aree più neglette. Una cosa usuale in tutti e quattro paesi in cui i curdi vivono. La prima repubblica nella storia moderna dei curdi fu la Repubblica di Mahabad nel Kurdistan iraniano e durò per soli undici mesi, dopo i quali ci fu un accordo fra il governo iraniano, l’Unione Sovietica e l’Occidente e fu posto termine alla sua esistenza. Qazi Muhammad, il leader che presiedeva il governo della Repubblica, fu giustiziato come un traditore perché aveva dichiarato una repubblica indipendente curda. E ora cosa è cambiato? L’incontro tra Barzani (presidente del Kurdista iracheno, ndr) ed Erdoğan a Diyarbakir, la capitale del Kurdistan turco, è in realtà una mossa di propaganda, i turchi intendono dimostrare attenzione ai diritti umani e l’intenzione di mettere fine alla sanguinosa battaglia fra turchi e curdi ma le loro proposte non sono credibili. Qual è il risarcimento per tutti i curdi che sono stati uccisi e dispersi in quarant’anni?

Hai studiato a Damasco e cominciato a scrivere poesie dai primi anni del 2000, come definiresti la situazione degli intellettuali sotto il regime di Assad?
Puoi scrivere anche sotto il regime senza sentirti compromesso, ma questa continua paura non ti dà mai il senso di essere maturo, vivi in una sorta di eterna adolescenza che deriva dall’incertezza.La situazione degli intellettuali è ora piuttosto controversa, e influenzata da come hanno affrontato la rivoluzione siriana: alcuni scrittori erano considerati contro la rivoluzione e successivamente la loro posizione si è chiarita, alcuni lo erano effettivamente e dopo tutto quello che è successo a questo livello enorme si sono sentiti rammaricati, e questo lo rispetto, perché i conflitti tra gli intellettuali, come molte cose intellettuali, non servono a cambiare le cose eccetto quando questi intellettuali hanno relazioni aperte con le parti politiche. Ci sono intellettuali che appoggiano l’opposizione politica, ci sono intellettuali che cercano di fare qualcosa, ma io non penso che ora qualcuno riesca a dare un’immagine chiara. Ad ogni modo, che si supporti o meno la rivoluzione, ci si dovrebbe riunire e andare oltre le differenti narrazioni. Questa riconciliazione è necessaria, a partire dagli stessi intellettuali perché c’è molto attrito su diversi argomenti e se all’inizio questo scontro poteva essere utile ora quello che abbiamo di fronte va al di là delle nostre possibilità e abbiamo bisogno di ripartire camminando su percorsi più semplici. I nostri sogni dell’inizio sono stati ridotti a qualcosa di basilare. Ricominciare dal niente, dopo la distruzione del paese e delle nostre menti: non possiamo che ripartire delle nostre regole, dalla nostra solitudine, e questo “niente” è il luogo da cui, anche in situazioni normali, nasce la scrittura. Attraverso una visione nuova e aperta, attraverso la consapevolezza che abbiamo dei nostri corpi e della loro sofferenza. Il corpo dell’uomo è la sua stessa storia, il modo primordiale attraverso cui, prima ancora del linguaggio, conosciamo e realizziamo il mondo. Da questo possiamo cominciare, abbiamo già ricominciato.

“Queste non sono immagini, sono i guardiani delle immagini” sono i versi finali della tua poesia Shooting Sportsmen. Cosa intendi?
Scrivo solitamente versi politici, e questo in qualche modo è politico. Collateralmente il riferimento è alla Siria, anche se non esplicitato, ma l’idea nasce da altrove. Esiste una tradizione di poesia politica, non solo nel mondo arabo, per cui è possibile esprimere un concetto, in modo diretto o indiretto, che sia politicamente impegnato e che abbia allo stesso tempo a che fare con l’essere umano. Qui non parlo solo come siriano o come scrittore e mi riferisco al groviglio ingannevole e aggressivo di immagini che attaccano la nostra mente e gli occhi, dalle pubblicità per strada alla televisione, e che non ci lasciano spazio, e continuano ad assediarci anche quando siamo soli. Intendevo elaborare la mia affermazione politica attraverso queste immagini ma chiunque, come essere umano, è preoccupato circa la sua immagine, come qualcosa che può deludere, cambiare, imprigionare, e raramente ci si sente liberi qualsiasi sia la situazione.

La tua poetica è caratterizzata dalla ricorrenza di immagini che hanno a che fare con l’ombra, l’oscurità, l’assenza e la tua prima raccolta di poesie si intitola proprio “Called in darkness”. Che senso ha questa oscurità e in che senso la tua poesia vi si immerge o l’attraversa?
Mi torna in mente un bellissimo verso di Theodore Roethke, “Nel tempo dell’oscurità, l’occhio comincia a vedere”. E’ questo il senso. Il titolo “Called in darkness” è ispirato ad una sura del Corano riferita al profeta Giona nella pancia della balena. Letteralmente, “He called through darknesses”, il che ci lascia immaginare che la sua chiamata andò oltre, oscurità dopo oscurità dopo oscurità, e nelle interpretazioni di questa sura ci si chiede quante possano essere state queste oscurità. Probabilmente possiamo dire che c’è prima quella della pancia della balena, poi quella della profondità del mare, e ancora quella della notte mentre la quarta è la notte dell’anima. Giona chiama sapendo che non c’è nessuno ad ascoltarlo, e il processo di scrittura procede allo stesso modo. Scriviamo perché sappiamo che nessuno ci ascolta, non scrivi perché sai che c’è qualcuno che ti ascolta, ma, al contrario, perché non trovi nessuno che ti ascolta. Non ci sarebbe bisogno di andare oltre questa interpretazione però c’è anche qualcosa di materialistico, quando tu parli di ombra, la sensazione della densità perché qualcosa non permette il passaggio della luce. Nella tradizione, anche in quella curda, non esiste niente di pubblicato sulla storia dell’ombra, e mi sono voluto ritagliare uno spazio per parlarne. È qualcosa che risale a prima della rivoluzione e va al di là.

Ora vivi a Parigi. Cosa significa per te vivere in esilio?
L’esilio per me è anche una questione linguistica: quando sei uno straniero già in una situazione instabile e hai molte contraddizioni nella tua mente, nella tua memoria, e ci sono nuove storie ogni giorno, il tuo linguaggio diventa qualcosa di davvero strano, non senti di poterti esprimere bene, una sorta di incertezza attanaglia tutto, e diventi insicuro anche della cosa più semplice. Ogni parola è come uno scandalo. Cerchi allora di nascondere te stesso per essere parte della società, e l’integrazione in qualche modo è una sorta di dissoluzione. Per essere parte di qualcos’altro devi arrenderti, rinunciare a qualcosa e abbandonare la tua lingua che è l’unica cosa che davvero porti con te, la tua sola eredità. Quando parlo mi rivelo come straniero, ma ciò non avviene in modo amichevole, anzi, crea una sorta di conflitto. Si suppone che ti comporti bene e nello stesso tempo tu devi comprendere la rabbia dell’essere straniero in esilio: le regole ed i doveri sono chiari ma quali sono le leggi per il disprezzo attraverso lo sguardo? Se qualcuno mi guarda con disprezzo come sarà punito? La legge esiste solo per le azioni e questo modo silenzioso di rifiutare gli altri con gli occhi, come si appare agli occhi delle persone, questo guardarsi reciproco ansiosamente credo che finisca per l’ossessionare molti stranieri. La gente nelle grandi città metropolitane come Berlino, Londra e Parigi vive generalmente la propria vita in solitudine e l’idea dello straniero è parte del paesaggio, dello sfondo. Non si avverte realmente l’apertura all’altro e si convive in questo costante sforzo di abbandonare se stessi senza davvero perdersi, sempre in questo interstizio, nel “tra” di ogni luogo.

Scrivi poesie in curdo e in arabo e poi le traduci in inglese; nella tua poesia, esiste una stretta relazione tra l’identità, il linguaggio e i confini. Attraverso quale processo sei riuscito a fondere elementi tanto differenti in un linguaggio tuo e personale?
Quando scrivo sento di muovermi come uno straniero tra le lingue che conosco bene come parte della mia memoria, perché non so bene in quale lingua affiorano i pensieri alla mia mente, in quale penso e sogno. È come se fossi semplicemente con la testa tra le nuvole ad afferrare qualcosa di cui non conosco la “forma”, arabo, curdo o inglese. Mi sono formato sui testi classici ma nel tempo le influenze sono diventate tante e tutto emerge nello stesso momento. Dietro un verso di dieci parole ci sono molte cose. A volte senti di portare a galla qualcosa di davvero bello e quando viene alla superficie scopri che magari sono solo lenti false o carta straccia, ma scrivere non appartiene alla regole, è parte della vita, del pensiero, del respiro, del contesto. La parola “identità” è legata al terzo pronome singolare, nelle lingue che derivano dal latino dal pronome dimostrativo “ID” ed anche in arabo la parola هوية ha la stessa radice di هُوَ (egli). Riflettendoci, allora, l’identità è piuttosto un’assenza, qualcosa di esterno a noi, qualcosa che non è qui, da raggiungere in ogni momento, non si tratta di un’idea che puoi afferrare e l’unica conclusione è la tomba. A volte realizzi che sei in un posto preciso dell’universo e senti come se non dovessi essere altrove ma la ricerca dell’identità non conosce confini. Penso al pittore giapponese Hokusai, che osservando in tarda età i suoi dipinti realizzò che tutti gli esseri animati che aveva dipinto erano nell’atto di correre via, come se non volessero essere fermati in un attimo ma volessero fuggire dalla tela: quando osservi te stesso ed il mondo e desideri fermarti, anche in quel momento hai sempre qualcosa dentro che si sta muovendo, sta mutando, correndo oltre i confini. La cultura curda non dispone di una tradizione letteraria consolidata come quella araba; gli scrittori curdi sono portati ad un doppio compito: essere artisti e nel frattempo provare chi sono, fare qualcosa per il proprio popolo perché siamo ancora all’inizio nei termini di tradizione letteraria. Non posso quindi scrivere solo in arabo, ma non posso neanche sentirmi completo come artista adeguandomi ad un’idea di identità strettamente dipendente da una lingua. Non posso conoscere confini: arrivare alla scrittura è arrivare dal nulla in un certo posto e questo posto potrebbe essere ovunque nel mondo, dove uno ha i propri sogni o le proprie memorie.